Repubblica 7.4.18
L’analisi
La sfida persa della sinistra
di Emanuele Felice
La
sinistra riformista è ai minimi storici un po’ dappertutto, non solo in
Italia. Circola in proposito una spiegazione quasi fatalista,
auto-assolutoria per gli sconfitti. La globalizzazione ha
inevitabilmente colpito i ceti popolari, i più esposti alla concorrenza
dei paesi emergenti e alle conseguenze dell’immigrazione: è naturale che
abbiano votato per chi promette di ristabilire le antiche sovranità. Ma
questa diagnosi tralascia un punto importante. Il riformismo perde
perché non ha saputo gestire la globalizzazione, rinunciando alla sua
vocazione: trasformare la società con la politica. Ed è vero che è un
problema non solo italiano.
L’errore di fondo risale agli anni
Ottanta: è stata la liberalizzazione totale dei movimenti di capitale,
anche quelli speculativi. Può sembrare una questione tecnica, o per
addetti ai lavori, ma a ben vedere è da lì che discendono le
disuguaglianze crescenti nei paesi avanzati e la difficoltà, per i
singoli governi, di attuare politiche redistributive. Quella
liberalizzazione è stata promossa dalla destra reaganiana e
thatcheriana, ma sarebbe stata condivisa anche dalle forze riformiste,
che non vollero cambiarla quando, negli anni Novanta, si ritrovarono
quasi ovunque al governo: complice il clima generale dell’epoca, si
lasciò che la finanza internazionale, senza più vincoli, diventasse più
potente della politica.
Oggi ci vorrebbe un accordo, in sede di
G20, per un nuovo sistema finanziario internazionale che, proprio come
avveniva ai tempi di Bretton Woods ( 1944- 1971), ponga vincoli globali
ai movimenti di capitale a breve termine; favorendo gli investimenti
produttivi e permettendo ai singoli Stati (o magari all’Unione europea)
di poter tornare a fare politiche redistributive senza la minaccia di
una fuga di capitali. Non a caso l’epoca di Bretton Woods vide il
miracolo economico e la nascita dei moderni “welfare states”. Si noti
che, storicamente, queste sono le idee proprie della sinistra riformista
e del liberalismo democratico: quelle di Keynes, per esempio,
l’economista liberale che più di tutti contribuì a disegnare il mondo di
Bretton Woods; o di quei filosofi politici che sin dall’Illuminismo
mettono in guardia sui rischi (per la libertà di tutti) che comporta
l’accumulo di potere nelle mani di pochi, senza adeguati controlli.
Il
secondo errore consiste nel non aver saputo dare unità politica
all’Europa. Anche questo era un compito soprattutto della sinistra,
delle forze che dovrebbero rappresentare il mondo del lavoro: in uno
spazio dove si possono muovere liberamente i fattori della produzione,
ma le normative nazionali rimangono differenti, è il capitale a
guadagnarci, mentre le politiche redistributive escono perdenti. È
evidente quindi che l’unione commerciale e monetaria doveva completarsi
nell’unione fiscale e politica. Invece sono passati vent’anni
dall’entrata in vigore dell’Euro e ancora i partiti e le forze di
sinistra si muovono quasi esclusivamente dentro logiche nazionali. Ne
abbiamo avuto un assaggio anche nelle ultime elezioni in Italia, dove i
richiami all’Europa sono rimasti confinati al campo della retorica o
dell’idealità. Pesa su questo il portato di strutture di consenso e
culture di riferimento che sono anch’esse nazionali, influenzando la
formazione e l’agire delle classi dirigenti. Ma in questo modo la
sinistra tradisce la sua storia e la sua missione. La globalizzazione,
che aiuta a superare le barriere fra gli esseri umani, è nel Dna della
sinistra: la sfida è saperla governare, per ridurre le disuguaglianze.