Repubblica 6.4.18
1978-2018
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 5
Processo al prigioniero
Nella
cella dove la luce non si spegne mai, il leader della Dc diventa un
imputato senza difesa Le Br lo interrogano perché sveli i segreti
italiani e dell’“imperialismo internazionale” È questo, nella mente dei
terroristi, il vero nucleo dell’operazione Ma alle loro domande
ideologiche ricevono risposte politiche che non sono in grado di
comprendere
di Ezio Mauro
Gli hanno tolto la
benda, ma è ancora come se fosse al buio. Nella cella la luce non si
spegne mai, giorno e notte, e da stasera i carcerieri lasciano socchiusa
anche la porta, quando la casa dorme. Si sono accorti che non possono
tenere l’impianto di aerazione acceso la notte, fa troppo rumore, ma
senza l’aria che arriva dal tubo la prigione non può restare chiusa.
Gallinari è il responsabile della “base”, tocca a lui risolvere il
problema. Si infila il cappuccio nero, entra in cella. Moro lo conosce
come il secondo uomo, non il capo, l’altro, quello che porta il tavolino
con le gambe per il cibo, torna a riprenderlo, arriva con la bacinella
di plastica piena a metà d’acqua tiepida, gli asciugamani, il sapone e
il rasoio, svuota il water portatile, cambia la biancheria. Adesso parla
al prigioniero, mentre gli sta in piedi davanti: «Se lei mi garantisce
il silenzio, io le lascio la porta aperta».
Seduto sul letto, lui
cerca di capire: non fa altro tutto il giorno. Quella fessura dischiusa
non lascia passare nulla, se non un po’ di chiarore di giorno, il rumore
di passi quando si avvicinano. Parlano sottovoce, nelle altre stanze?
Montano la guardia armata, lì fuori? Vanno e vengono, o sono chiusi
nella casa insieme con lui? E i vicini, non si insospettiscono di nulla?
Il prigioniero immagina l’appartamento intorno a lui dai pochi rumori,
il campanello che non suona mai, un bisbiglio lontano che sembra di
televisione, l’odore di cucina la sera. Non può vedere, tenta di
decifrare.
Ma è sul mondo di fuori che pesa l’oscurità totale.
Moro è abituato ad analizzare i fenomeni, a studiare il sociale, a
indagare il politico. Ha inventato una formula che racchiude il suo
metodo: “l’intelligenza degli avvenimenti”, e cioè la conoscenza che
nasce dalle cose, l’interpretazione della realtà, indispensabile per
agire. Osservare, con pazienza democristiana, conoscere, con
perseveranza cristiana, quindi capire e poi governare. Adesso tutta
questa attrezzatura gli manca, è rimasta fuori dalla cella. Non sa nulla
di ciò che accade nel Paese dopo il suo rapimento, l’ultimo pezzo
d’Italia che ha visto è la curva in salita per imboccare via Stresa a
gran velocità, dopo la strage.
Chiede subito i giornali, abituato
com’è a trovare tutta la mazzetta sul sedile posteriore della sua “
130”, procurata dalla scorta di prima mattina. Gli dicono di no.
Vogliono che il sequestrato sia interamente alla loro mercé, svuotato di
ogni cognizione autonoma del mondo esterno, privato di qualsiasi
contatto, anche indiretto, ad esclusione di quello con i suoi
carcerieri, concentrato soltanto sulla sua detenzione e sulla sua sorte,
pronto per il prossimo passo. Quello che trasforma il prigioniero in
imputato.
È il processo, il vero nucleo centrale dell’“ operazione
Fritz”, che nella mente brigatista giustifica e spiega il sequestro e
l’eccidio, ridotti altrimenti a gesti clamorosi ma simbolici, che si
esauriscono mentre si compiono. No. Per i terroristi il processo è
portatore di senso per l’intera operazione, le dà una dinamica politica,
un percorso, e le attribuisce un significato. Attraverso il processo
saranno le Br a svelare i segreti del sistema imperialista
internazionale, la catena di comando del capitalismo fatto Stato,
l’intreccio di interessi e di legami tra i poteri mondiali
controrivoluzionari, il ruolo dell’Italia, le responsabilità della Dc.
Nelle
attese dei sequestratori il processo diventa l’appuntamento metafisico
della rivoluzione con la storia italiana, il disvelamento dei suoi
misteri, la messa a nudo delle sue storture. Uno strumento politico di
propaganda formidabile, che impatta e rovescia in una tragedia mimetica
il processo di Torino a Curcio e ai capi storici, tenendo anche quello
in ostaggio da una cella larga novanta centimetri.
Si sono preparati con cura. Nelle carceri i detenuti politici per mesi si erano passati di mano in mano
il
libro di Jacques Vergès che da Socrate a Dimitrov, al Fronte di
Liberazione Nazionale algerino racconta come gli imputati politici hanno
“rotto” il processo trasformandolo in una tribuna, contestando
l’autorità dello Stato, spettacolarizzando lo scontro. Una teoria messa
in pratica a ogni udienza nell’aula bunker. Qui, nella cella di Moro,
tutto è diverso. Ma la tesi di Vergès sul processo pedagogico, strumento
di propaganda, è arrivata fino a via Montalcini, interno 8.
«
Chiedetegli dello scandalo Montesi » , dicono gli operai delle fabbriche
occupate di Milano, nel reportage di Giorgio Bocca. In realtà l’elenco
delle domande che i brigatisti si sono preparati e che Gallinari ha
scritto è lungo. Gli undici morti di Portella della Ginestra, la “legge
truffa” di De Gasperi, il governo di destra di Tambroni, l’affare Sifar e
il golpe De Lorenzo, piazza Fontana, poi i legami con la Cia, gli
ordini del Fondo Monetario Internazionale, lo spettro della Trilateral.
Gallinari è andato personalmente per giorni nelle librerie di Roma a
cercare testi sulla Dc, analisi e studi che potessero spiegare il modo
di ragionare e di procedere di quel partito, lo studio è complicato,
altri libri li ha dovuti trovare Anna Laura Braghetti negli ultimi
giorni, con Moro già in prigione.
Tutto è pronto in questo abuso
di processo dove non c’è difesa, dove l’accusa coincide con la giuria,
dove il giudice è il carceriere, dove si discute di politica ma la posta
in gioco è la vita. Dove, soprattutto, il suprematismo ideologico delle
Br sfiora l’onnipotenza. Se Moro è ciò che loro dicono, perno e
terminale italiano del comando imperialista mondiale, processandolo
possono scoperchiare l’intero meccanismo del potere occidentale. Sono
davanti al loro miraggio, hanno nelle loro mani il testimone del mondo
che vogliono abbattere, con le chiavi di funzionamento di quella
dimensione fino a ieri inarrivabile.
Ecco perché il processo è un
atto quasi rituale, in cui i due estremi si toccano, e lo sfidante deve
scardinare attraverso le sue domande l’universo chiuso del detentore del
potere. Sarà una sola persona a interrogare Moro, il capo delle Brigate
Rosse, Mario Moretti, portatore diretto della “linea” decisa
dall’Esecutivo. Sempre lui, con il cappuccio di cotone sul volto, per
non essere riconosciuto ma anche per rappresentare in forma impersonale
l’Organizzazione, che nel processo celebra l’incontro tra la sua teoria e
l’azione. Dall’altra parte un uomo inerme chiamato a rendere conto di
un intero sistema, abituato a maneggiare le formule della politica, ma
questa volta costretto a farlo per giocarsi la sopravvivenza. Chissà se
nella cella gli sono venute in mente le sue stesse parole pronunciate un
anno prima nell’aula di Montecitorio, per difendere la Dc dalle accuse
per lo scandalo Lockheed: «Non ci faremo processare nelle piazze».
Adesso
Moretti gli dà del “tu”, organizza sedu te molto lunghe, spiega che lui
fa le domande ma l’imputato deve rispondere alle Brigate Rosse,
titolari dell’accusa e del giudizio finale: come se quel soggetto
collettivo fosse presente nella cella, incappucciato. L’impianto
ideologico è costruito nel dettaglio per arrivare al suo esito, la
condanna, perché come dice Prospero Gallinari quel processo è senza
appello, sigillato com’è da un’accusa capitale. Ma dietro lo stereotipo
brigatista c’è la vicenda reale del Paese, piena di contraddizioni e di
ombre, tuttavia spiegabile anche nelle sue miserie e nei suoi tradimenti
con una lettura storica. E davanti a Moretti c’è Moro, che conosce nel
profondo quella storia. L’interrogatorio dà al prigioniero l’ultima
libertà, con l’unica arma possibile nel carcere, la parola. Che prende
subito corpo riempiendo i vuoti dello schema Br, proponendo
collegamenti, recuperando antecedenti, aggiungendo circostanze,
disegnando un mondo: e con ciò spostando il quadro generale delle
questioni, inclinandolei brigatisti ipotizzavano con le loro domande.
La
lingua democristiana, complessa, articolata, elusiva, conciliante ma
insistente avvolge il ferreo linguaggio brigatista, lo arrugginisce.
Avuta la parola dai suoi carcerieri, Moro la usa esattamente in questo
senso: rispondendo ogni volta a un titolo ideologico con uno svolgimento
politico. Pazientemente il prigioniero svela il quadro complicato che
sta dietro una domanda elementare, pedantemente riporta i brigatisti al
largo. La sua politica è mare aperto, onde e correnti, vento e
profondità, mentre loro cercano il messaggio segreto nascosto in qualche
bottiglia democristiana. Nello spazio ristretto della stessa cella,
dove Moretti ha portato una sedia, due mondi prendono i loro contorni
separati e subito si allontanano, l’universo prigioniero della vittima
diventa presto irraggiungibile per i suoi carnefici, più ancora
incomprensibile, dunque inafferrabile: un pianeta sconosciuto, che
mentre si mostra da vicino rivela nelle Br un’inedita impotenza
interpretativa del Palazzo, disegnato così facilmente da lontano.
L’effetto
è spiazzante. Il processo scivola su un piano diverso e imprevisto, la
macchinazione mondiale che i brigatisti vedevano come un blocco unico si
frantuma in mille spezzoni, ognuno con motivazioni autonome, cause
proprie, responsabilità indefinite, in un labirinto democristiano dove
c’è una spiegazione per ogni cosa, un’attenuante per qualsiasi colpa,
una giustificazione per tutti i peccati, un doppiofondo per qualunque
certezza. Moro parla, anche troppo, ma ai brigatisti sembra ogni volta
che non dica niente.
All’inizio Moretti è deluso, sfiduciato. «
Aveva l’impressione che Moro ci portasse un po’ in giro – dice oggi
Adriana Faranda –, soffriva la diversità di linguaggio, tutto quel
politichese. Non riusciva a sintonizzarsi » . Chiede chi ha messo le
bombe a piazza Fontana, Moro risponde con un’analisi sulla politica in
quel periodo. Moretti incalza, vuole sapere i meccanismi della
Trilateral, la catena di comando del Sim, nomi e cognomi,
responsabilità, Moro risponde partendo da lontano, poi disegnando una
larga curva, in salita. È come se dicesse ai suoi carcerieri: non c’è
risposta alle vostre domande, c’è solo una storia politica del Paese,
nella quale sta a voi trovare spiegazioni, chiarimenti, conferme. Come
se aggiungesse: la politica spiega tutto, bisogna saper cercare. Come se
volesse far capire che la realtà è più umile, faticosa, contraddittoria
della meccanica ideologica, e soprattutto meno automatica e più
complessa.
Un giorno, ad un Consiglio Nazionale Dc, Moro aveva
sfinito la platea parlando fino alle quattro del pomeriggio, quando si
ribellarono gli autisti, suonando tutti insieme i clacson governativi
delle auto sulla piazza, come scrisse Giampaolo Pansa. Adesso stava
facendo qualcosa di simile con le Brigate Rosse, impadronendosi
dell’interrogatorio. A un certo punto Moretti sente il bisogno di
collegare un amplificatore al registratore che porta nella cella, in
modo che i suoi compagni possano ascoltare la discussione dall’esterno,
per condividere la difficoltà. Ma Anna Laura Braghetti confesserà che
una volta ha smarrito il filo mentre era seduta sul piccolo divano dello
studio fissando l’altoparlante, non è riuscita a seguire, ha trovato
tutto molto poco interessante. Insomma non bisognerebbe dirlo davanti
alla portata strategica del processo, ma lei stasera si è persa.
Ormai
i terroristi capiscono che la caccia al tesoro politico del segreto sui
crimini di Stato è perduta. Gallinari e Germano Maccari, che nei primi
giorni provavano a sbobinare gli interrogatori, trascrivendo il testo,
si arrendono, il lavoro è inutile, e soprattutto è impossibile.
Il
processo è diventato una discussione politica, dove Moro non dà ai
brigatisti nulla di quello che loro cercano, mentre li porta col suo
racconto dentro un Palazzo che non conoscono nelle sue mille stanze,
cantine e solai, ma dove comunque non sono in grado di entrare. Così si
perdono passaggi importanti: come quando Moro accenna alla struttura
segreta della Nato in Europa, la “Gladio” che verrà resa nota soltanto
anni dopo, o come quando rivela che i terroristi non devono aspettarsi
interventi americani per la sua liberazione, perché gli Usa sono da
sempre contrari alla sua politica di apertura a sinistra, e per salvarlo
“non muoveranno un dito”.
Tocca a Moretti rompere l’ipnosi
democristiana in cui il prigioniero sta trascinando i suoi carcerieri.
Seduto al solito tavolo della cucina, dove i brigatisti mangiano i loro
pasti, fa un primo bilancio degli interrogatori, che porterà anche a
Firenze alla riunione dell’Esecutivo. Spiega che le Br sono capaci di
analisi approfondite sulla natura dello Stato ma non sanno decifrare i
meccanismi del potere, i loro incastri, perché solo chi frequenta il
Palazzo ne conosce il codice. Poi dice a Braghetti, Maccari e Gallinari
che l’interrogatorio ha un valore politico e propagandistico in sé,
indipendentemente dalle risposte, e che il processo rovescia ruoli,
funzioni e poteri nel momento stesso in cui si celebra.
Il “
processo del popolo” domina così il “ comunicato numero 2”, diffuso
nelle quattro città dove operano le colonne brigatiste ( Genova, Torino,
Milano e Roma) per annunciare che l’interrogatorio “è in corso”, e deve
“chiarire le politiche antiproletarie della Dc, individuare le
strutture della controrivoluzione, svelare il personale politico-
economico militare sulle cui gambe cammina il progetto delle
multinazionali” e accertare “le dirette responsabilità di Moro, per le
quali verrà giudicato con i criteri della giustizia proletaria”. Anzi,
mancando rivelazioni da trasformare in imputazioni, è la stessa carriera
politica di Moro che diventa un atto d’accusa “per la sua presenza a
volte palese, a volte strisciante, negli organi di direzione del
regime”, di cui “dovrà rendere conto al Tribunale del popolo”.
Tutt’attorno,
le indagini si muovono a vuoto. Dalla Procura filtrano voci di 34
sospetti, i super- ricercati sono sette, tra cui Corrado Alunni, Mario
Moretti, Prospero Gallinari e Patrizio Peci. Girano gli identikit, ma a
Genova poco prima di un’assemblea sindacale si scoprono al porto
duecento volantini che rivendicano l’azione delle Br, tutto il mondo
parla del sequestro, il
dedica due pagine alla madre di Curcio,
Jolanda, fotografata con due barboncini per le strade di Hampstead, dove
vive: «Mio figlio – spiega – è un idealista e un rivoluzionario, come
tutti i grandi della storia è imprigionato per quello in cui crede».
Anche
l a politica procede a tentoni: «Siamo davanti a qualcosa che ricorda
l’assassinio dei due fratelli Kennedy e la fine della loro strategia per
il futuro – dice il deputato Dc Luigi Granelli –. Anche per questo
abbiamo bisogno che Moro torni, perché se c’è qualcuno che non può avere
successori è proprio lui » . L’ex segretario del Psi Giacomo Mancini
invita a non dimenticare la Cia, «perché dagli Usa era venuta alla Dc
un’ingiunzione aperta a non fare maggioranze con il Pci, la Dc l’ha
fatta. E lo scandalo Lockheed è un preciso ammonimento a un partito che
non obbedisce più». L’altra superpotenza, l’Urss, respinge pubblicamente
i sospetti di un coinvolgimento del Kgb nell’affare Moro: «È un vecchio
trucco degli ultrareazionari per deviare l’attenzione dai loro loschi
affari», dice la Pravda.
«Le raffiche di mitra sono musica
prelibata solo per le destre». Qualcuno va a cercare il giudice Mario
Sossi rapito dalle Br il 18 aprile del ’74 e liberato dopo 35 giorni di
processo. «Ormai siamo in guerra – spiega –, bisogna dichiarare lo stato
di pericolo pubblico, applicare le norme dei corpi militari in stato di
guerra, attuando la ritorsione e la rappresaglia. I brigatisti non
portano divise, potrebbero essere fucilati sul posto».
I
brigatisti per ora sembrano imprendibili. E continuano a sparare. A
Torino il 24 due killer aspettano sotto casa l’ex sindaco democristiano
Giovanni Picco all’ora di pranzo e gli scaricano tredici colpi nelle
gambe e nella spalla destra.
A Roma Anna Laura Braghetti anche
stasera sta spogliandosi della sua finta normalità per entrare
nell’altra dimensione, quella di terrorista, mentre apre la porta della
“base” di via Montalcini con due sacchi di plastica della spesa serale.
La fa due volte al giorno, spezzettandola tra un mercato per la carne,
la frutta e la verdura al mattino, e un negozio vicino a casa la sera
per il latte e le ultime cose che mancano, per non insospettire
commercianti e vicini con una borsa troppo carica, visto che
nell’appartamento dovrebbero vivere solo in due, lei e l’“ ingegner
Altobelli”. Ma questa volta è passata anche in cartoleria. Ieri, dopo
l’interrogatorio, il prigioniero ha chiesto carta e penna, vuole
scrivere, e adesso Braghetti posa sul tavolo di cucina, con le
provviste, anche un taccuino grande coi fogli a quadretti e due penne a
sfera. Dopo aver ritirato il vassoio della cena, Gallinari porta nella
cella il block notes, una penna Biro blu, una nera.
Stanotte, nel
silenzio della casa, mentre tre brigatisti dormono e uno veglia armato,
Moro scriverà la prima delle sue 97 lettere dal carcere per il mondo di
fuori.
- 5. Continua