sabato 7 aprile 2018

«...rigoroso psicoanalista lacaniano:
Il gesto di Caino nasce da un fenomeno di fascinazione: Abele è il suo ideale irraggiungibile.
noi sappiamo bene quanto sia essenziale nel cammino formativo di un figlio l’esperienza della sconfitta, della caduta, dello smarrimento».
La Stampa 7.4.18
“La cultura è il solo vaccino contro il terrorismo e la paura”
Lo psicanalista direttore del festival di psicologia di Torino: “La società deve ripartire dalla scuola”
intervista di Raffaella Silipo


«Il nostro tempo vive in una condizione di profonda angoscia», dice Massimo Recalcati. L’angoscia percepita è probabilmente superiore a quello che richiede il momento storico, nel passato - anche recente - ben più minaccioso di oggi. Ma Recalcati, rigoroso psicoanalista lacaniano e allo stesso tempo magnifico divulgatore di temi psicologici, sa bene che quello che viene percepito non conta meno di quello che accade. Per questo, come primo atto da direttore scientifico del festival della Psicologia torinese in corso in questi giorni, ha deciso di dedicare questa quarta edizione alla paura. «Un tema che interseca la psicologia individuale e quella sociale, quindi la psicologia del singolo con quella collettiva». E c’è da giurare che a Torino andrà in scena una grande seduta analitica collettiva, dove molta parte del pubblico, forse anche gli addetti ai lavori, cercherà conforto, oltre che comprensione delle dinamiche umane.
Del resto Recalcati, 59 anni, docente di Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia e di Psicoanalisi e scienze umane a Verona e fondatore di Jonas – Onlus che promuove la democratizzazione della psicanalisi – è uno di quegli oratori capaci di tenere chiunque incollato alla sedia. Grande appassionato di arte e di letteratura americana, si occupa di nuovi sintomi (bulimia, anoressia, dipendenze, attacchi di panico) e di rapporti tra genitori e figli, un tema che ha affrontato in molti saggi sulla paternità (dal Complesso di Telemaco alle Mani della madre fino al Segreto del figlio) hanno scalato le classifiche. La sua marcia in più è saper mettere insieme varie discipline e non a caso al festival ci saranno, oltre «ai colleghi psicoanalisti e psicoterapeuti, intellettuali, filosofi e scrittori».
Partiamo dal terrorismo, per cui lei tiene oggi a Torino la lectio magistralis «Violenza e terrore». Quali sono le radici psicoanalitiche del terrorismo?
«Il gesto di Caino nasce da un fenomeno di fascinazione: Abele è il suo ideale irraggiungibile. Il suo odio è fomentato da un eccesso di idealizzazione. Esiste però anche un’altra radice della violenza: lo straniero è odiato perché differente, difforme, per nulla ideale. L’odio può essere anche la manifestazione esterna dell’angoscia che troviamo di fronte all’ingovernabile, di cui lo straniero è l’emblema».
La paura del diverso è quella che oggi nelle elezioni in molti Paesi dell’Europa occidentale fa vincere il populismo. Come mai siamo così spaventati? Forse perché abbiamo molto da perdere? Come superare la paura?
«Il populismo porta con sé la tentazione o, se si preferisce, l’illusione del muro. In questo senso è tendenzialmente sempre nazionalista, sovranista, persino, in certi casi, etnicamente omogeneo. Lo stato di emergenza provocato innanzitutto dalla crisi economica e dalle diseguaglianze sociali, unite al fenomeno dell’immigrazione e del terrorismo alimenta fatalmente il rafforzamento di una concezione chiusa dell’identità. Il contrario di quello che sostiene la psicoanalisi che ci invita a riconoscere che senza esperienza dello straniero (interno ed esterno) l’identità può diventare una malattia».
La rabbia e l’invidia oggi sembrano due sentimenti molto diffusi, eccitati e amplificati dall’uso dei social media e dal continuo confronto con gli altri, che mettono in evidenza le diseguaglianze. Come si risponde alla rabbia sociale che rischia di avvelenare intere generazioni?
«Mi pare che il punto centrale sia quello del rancore. Il rancore alimenta la rabbia e la violenza. E’ come una brace. Un tempo la brace era costituita dall’ideologia, dall’appartenenza e scatenava il conflitto politico. Oggi è costituita da un sentimento di non appartenenza e di esclusione e scatena l’odio e la violenza xenofoba e razzista».
A proposito di generazioni, sembra di vedere che è saltato il passaggio di testimone tra genitori e figli, come anche tra colleghi anziani e più giovani. Perché è così difficile oggi trasmettere sapere? Forse gli adulti sono più insicuri? O non vogliono mollare i privilegi?
«Nel nostro tempo il sapere, inteso come sforzo di ricerca, è stato sostituito dall’informazione immediatamente accessibile. La trasmissione del sapere implica un lavoro complesso che è a carico innanzitutto della scuola. Il problema è che oggi i genitori sono diventati i difensori dei figli, spesso contro gli insegnanti. È come se il patto educativo che saldava le generazioni e stabiliva l’alleanza simbolica tra genitori e insegnanti si fosse rotto».
Un’altra paura molto tipica del nostro tempo e che pesa soprattutto sugli adolescenti è quella del fallimento. Come mai gli insegniamo a dare così tanta importanza alla performance e al successo invece che alla ricerca della felicità? Quanta parte ha il narcisismo nella nostra società?
«I genitori hanno sempre più aspettative narcisistiche sui loro figli, che vorrebbero destinati al successo. Di conseguenza i figli hanno sempre più difficoltà ad accettare il fallimento e la frustrazione. Innanzitutto perché sono i loro genitori a non tollerarla. Eppure noi sappiamo bene quanto sia essenziale nel cammino formativo di un figlio l’esperienza della sconfitta, della caduta, dello smarrimento».
Qual è la cosa che le sembra più urgente per creare condizioni di vita migliori? Da dove si può ripartire?
«Dalla scuola. Bisogna sempre ripartire dalla scuola. La scuola oggi non è il luogo dove si esercita la repressione, ma, al contrario, è il luogo dove sopravvive il pensiero critico e la possibilità di dare una forma alla vita dei nostri figli. Lo diceva a suo modo Pier Paolo Pasolini: il solo vaccino in grado di prevenire la caduta della vita del figlio nella distruzione è il vaccino della cultura. È la cultura che anima il desiderio di vita. Senza cultura c’è solamente desiderio di morte».

Corriere 7.4.18
Chi siamo davvero
Il concetto di identità personale sta cambiando. Età, sesso, nazionalità non sono più le «caselle» da riempire per definirsi
Lo storytelling ha imboccato altre strade. Di maggior libertà
di Daniela Monti 


Nel 1993 sul New Yorker uscì una vignetta con un cane seduto al pc e la didascalia «su Internet nessuno sa che sei un cane». Detto in altro modo — con le parole di David Birch in «Identity is the New Money» (Laterza) — dagli albori del mondo digitale l’identità è andata in pezzi: «Non è più unica, né fissa. Usare personaggi diversi a seconda dei diversi tipi di transazioni diventerà naturale: avremo identità per le situazioni lavorative o personali, come oggi abbiamo indirizzi mail diversi per lavoro e per i messaggi extra lavorativi». Ma off line?  Nome, età, sesso, luogo di nascita, nazionalità, religione: le caselle da riempire per definire la propria identità, senza forzature ma sentendosi davvero «dentro la propria pelle», sono sempre meno. A partire dal nome: anonimato come strumento estremo di libertà. «Amo il mio paese, ma non ho spirito patriottico e nessun orgoglio nazionale. Digerisco male la pizza, mangio pochissimi spaghetti, non parlo ad alta voce, non gesticolo, odio tutte le mafie, non esclamo “Mamma mia!”», ha esordito sul Guardian Elena Ferrante, la scrittrice che ha risolto la questione alla radice oscurando l’identità e raccontando la propria italianità al di là degli stereotipi. Sono italiana e insieme non lo sono.  I blind recruitment , i colloqui al buio utilizzati da multinazionali di tutto il mondo per selezionare i dipendenti, impongono di fare a meno di ogni informazione «sensibile» sui candidati che possa far cadere gli esaminatori nella trappola dei pregiudizi consci e inconsci, distraendoli da ciò che conta davvero: le abilità tecniche e l’esperienza sul campo. Niente nome nel curriculum, né età, sesso, luogo di nascita. «Consapevoli che una forza lavoro diversificata permette di ottenere performance aziendali migliori», ha scritto Business Insider , molti selezionatori oscurano anche l’Università presso cui si è formato il candidato. Funziona? L’esempio di scuola è quello della Toronto Symphony Orchestra, che fino al 1980 era composta quasi esclusivamente da maschi bianchi: ha optato per le selezioni «al buio», facendo suonare i candidati dietro uno schermo (un tappeto aveva il compito di cancellare il suono dei passi, così da non distinguere un tacco da una camminata maschile) e il risultato fu un riequilibrio che diede nuova linfa.  Dai colloqui di lavoro al buio, in cui si rinuncia alla propria identità a vantaggio di ciò che «si sa fare», alle nuove definizioni di sé al di fuori delle caselle canoniche che dall’Ottocento inchiodano dentro una classificazione rigida e bloccata nel tempo. «È sempre più difficile definire un individuo come giovane, adulto, vecchio, secondo i criteri dei dati anagrafici, perché si tratta più di scelte personali che di dati che costringono il percorso della vita», scrive l’intellettuale e uomo d’affari francese Hervé Juvin in un libro, «Il trionfo del corpo» (Egea), che è un’analisi spietata di come il concetto di identità abbia subito negli ultimi decenni una mutazione. «Gli europei — continua — avranno l’età che sceglieranno di avere». La causa intentata da un gruppo di attrici hollywoodiane, che chiedono la cancellazione delle date di nascita dal sito di informazione cinematografica IMDb, racconta quanto l’età anagrafica sia ormai una casella «vuota», un dato che non racconta nulla di essenziale circa se stessi e la propria identità (anzi, porta fuori strada, prestando il fianco a discriminazioni).  Ci sono caselle che «saltano» e ci sono vecchie rigidità che si ammorbidiscono, storytelling di se stessi che mescolano elementi eterogenei, creando nuove identità. Annamaria Testa su Internazionale ricorda la descrizione che, dopo l’elezione, diede di sé Sadiq Khan, il sindaco di Londra ed è «una specie di trattato in poche righe su che cosa sia il senso d’identità individuale e quali ne siano i fondamenti»: Khan si definisce «musulmano di origini pachistane» (fede e radici), «britannico» (appartenenza), «europeo» (cultura di riferimento), «laburista» (ideali), «avvocato» (competenze e capacità), «padre» (affetti e relazioni). Qualche volta aggiunge: «Tifoso del Liverpool» (passioni). Il puzzle che definisce l’identità è ora un insieme di pezzi accuratamente selezionati, emancipazione dalla gabbia anagrafica, ritratto di chi si è scelto di essere.  E il sesso? L’ansia di liberarsi dagli stereotipi di genere, ritagliandosi spazi nuovi, ha messo in discussione la drastica divisione binaria. Lorenzo Bernini, autore de «Le teorie queer» (Mimesis) e docente di Filosofia politica e sessualità all’Università di Verona, si muove con cautela: «Non è vero che si stia andando verso la “cancellazione” delle identità maschili e femminili — avverte —. Ma finalmente, per chi sente stretta questa alternativa, si sta aprendo la possibilità di essere riconosciuto altrimenti». La sentenza della corte costituzionale tedesca, che afferma la necessità di introdurre un terzo sesso, è l’esito di una stagione di lotte dei movimenti intersex e trans. Così come la proposta linguistica, nel Nord America, di utilizzare al singolare il pronome They (neutro) oltre a He , lui, e She , lei. «I due generi tradizionali vanno bene per certe persone, non per altre. Ma per lungo tempo sono stati imposti a tutti in modo coattivo. L’identità sessuale non sta scomparendo: grazie alla presa di parola delle minoranze sessuali, sta diventando meno rigida, rendendo il mondo più libero».

il manifesto 7.4.18
Gaza, una nuova strage
Israele/Striscia di Gaza. Almeno otto palestinesi sono stati uccisi e altri mille feriti dall'esercito israeliano nel secondo venerdì della "Marcia del Ritorno". L''Onu accusa Israele di fare uso non necessario di forza letale.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Doveva essere la giornata del “kawshù”, la giornata della gomma, ossia dei ‎pneumatici dati alle fiamme che, con il loro fumo nero e denso, avrebbero impedito ‎ai tiratori scelti israeliani di prendere di mira i manifestanti della “Marcia del ‎Ritorno” organizzata a Gaza. Invece è stata una nuova giornata di sangue simile a ‎quella del 30 maggio. Sotto i colpi sparati dai militari israeliani sono caduti almeno ‎otto palestinesi, tra i quali un 16enne Hussein Madi, e oltre mille feriti, stando ai ‎dati del ministero della sanità palestinese. Negli ultimi otto giorni, lungo le linee di ‎demarcazione tra Gaza e Israele, sono stati uccisi 30 palestinesi. L’esercito ‎israeliano ha di nuovo scaricato ogni responsabilità sui palestinesi, sul movimento ‎islamico Hamas che, a suo dire, sarebbe il regista della “Marcia del Ritorno”. Il ‎portavoce militare ha riferito di tentativi palestinesi di attaccare la recinzione e ‎infiltrarsi in Israele, di ordigni esplosivi e bottiglie molotov lanciati, attraverso la ‎barriera. “Atti di terrorismo” al quale l’esercito avrebbe risposto con ‎«moderazione» ‎facendo uso di cannoni ad acqua, ventilatori antifumo e di armi da fuoco ma solo ‎nelle situazioni più critiche. Una reazione ‎«contenuta» che non trova riscontro nei ‎tanti morti e feriti palestinesi. Ieri a Ginevra l’Alto Commissariato Onu per i diritti ‎umani ha espresso preoccupazione per le nuove violenze, parlando di “dichiarazioni ‎inquietanti” rilasciate dalle autorità israeliane. La portavoce Elizabeth Throssell ha ‎sottolineato che il 30 maggio l’equipaggiamento e le difese delle forze israeliane ‎‎”non avrebbero dovuto portare ad un uso della forza letale”. Ieri è andata allo stesso ‎modo.‎
 La giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a, uno ‎dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno. Migliaia di persone ‎sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei giorni scorsi. I più giovani hanno ‎cominciato ad accatastare in vari punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. ‎Qualcuno indossava delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri ‎oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha spiegato a ‎una televisione locale di essere andata all’accampamento ‎«per onorare le persone ‎uccise‎». Ha aggiunto di avere paura ma che sarebbe ugualmente avanzata verso le ‎barriere di confine: ‎«Siamo qui per dire all’occupazione che non siamo deboli‎». ‎Quindi i manifestanti, i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato ‎fuoco ai pneumatici.‎
In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo nero che spinte dal vento si sono ‎dirette verso le postazioni israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i ‎cannoni ad acqua per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi ‎gruppetti di giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei ‎soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata una replica del ‎‎30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est di Khan Yunis, divenuto ‎tristemente noto durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per ‎l’elevato numero di vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici. Il primo a ‎cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb, 29 anni. Poi ‎sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed Saleh, 33 anni, Ibrahim ‎Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri sera non era stata ancora accertata ‎l’identità. È stato uno stillicidio di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia ‎di sangue potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in condizioni ‎gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti, colpiti secondo i media locali, ‎nonostante fossero chiaramente identificabili come operatori dell’informazione. A ‎Khuzaa poco dopo è andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ‎ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di sostenitori che ‎scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha annunciato che il mondo presto ‎si troverà di fronte a ‎‎«una nostra grande mossa, con cui violeremo i confini e ‎pregheremo nella moschea di Al-Aqsa‎», riferendosi al principale sito religioso ‎islamico a Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e non ‎solo per per i palestinesi.‎
 Se questo – oltrepassare le linee di demarcazione con Israele – sia davvero ‎l’obiettivo di Hamas non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia ‎del Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen – piuttosto ‎tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a Gaza – e rafforzato gli ‎islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi impulsi e rinunciare ad imporre ‎nuove sanzioni contro Gaza, in risposta all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah ‎e al fallimento, almeno sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le ‎sue mosse rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino al ‎‎15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione popolare ‎l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.‎

La Stampa 7.4.18
A Gaza tra il fumo nero dei copertoni e i cecchini israeliani alla frontiera
Ancora un venerdì di sangue con sette palestinesi morti e mille feriti I militari: Hamas costringe i militanti a venire con mogli e figli
di Giordano Stabile


Il fumo nero, denso, si leva dietro i filari di aranci, si sente l’odore acre. Dietro la curva si vede il terrapieno del confine, a ridosso della recinzione, con le camionette dell’esercito che vanno su e giù. Due, tremila persone si accalcano nello spazio stretto fra le case del villaggio di Juhor al-Dik e la frontiera. Una zona di morte perché i soldati israeliani hanno l’ordine di sparare se i dimostranti cercano di forzare il confine. Dal lato israeliano le case dell’insediamento di Nahal Oz sono ad appena seicento metri. Dopo le tre il fumo diventa più denso, i palestinesi continuano a incendiare copertoni di auto, camion per creare una coltre spessa e impedire la visione ai cecchini, ai bordi dell’abitato, invisibili. La mattina era trascorsa senza incidenti di rilievo ma ora i cannoni ad acqua non bastano più a spegnere le fiamme né a contenere i manifestanti, che premono, in mezzo alle nuvole nere. Si sentono i colpi secchi dei fucili. Poi le sirene delle autoambulanze, che fendono la folla fin quasi alla recinzione.
Il venerdì è di nuovo di sangue. In sei manifestazioni al confine, almeno 20 mila persone, si contano a sera sette morti, compreso un ragazzo di 16 anni, e oltre 1000 feriti. È un altro Venerdì Santo, è la settimana della Pasqua ortodossa, che segna anche la fine della Pesah ebraica. Cominciata e finita malissimo. Le forze armate israeliane, la polizia, con i corpi speciali dalle divise nere, si sono preparati per sette giorni, hanno adattato le tattiche di contenimento, l’intelligence si è infiltrata per capire dove ci sarebbe stata la pressione più alta, e Naha Oz era uno di questi. Nelle retrovie c’è un impressionante apparato di camionette, blindati, camion dei pompieri, bulldozer. I soldati in rinforzo indossano i giubbotti antiproiettile e attraversano i frutteti. «Ogni vittima è una vittoria per Hamas», ammette il colonnello Jonathan Conricus responsabile delle sicurezza in questo settore: «Cerchiamo di sparare soltanto se non c’è altra possibilità per fermare le infiltrazioni. A seicento metri abitano cittadini israeliani, non possiamo permetterci alcun rischio».
L’Onu ha ribattuto che le armi da fuoco possono essere usate soltanto «nell’imminente rischio di essere feriti o uccisi». Ma Hamas, insiste il colonnello Cornicus, «gioca con le vite delle persone, paga le famiglie dei feriti, ha imposto a tutti i suoi militanti di venire con mogli e figli: è un tragico show a scopo propagandistico». I militari israeliani sottolineano che la mobilitazione è in calo, da 35 mila a 20 mila dimostranti, e il consenso per Hamas sta cedendo. Ma le voci che arrivano dalla Striscia sono di stanchezza sì, ma anche di disperazione che non promette niente di buono: «Ci hanno rubato tutto, la terra, la libertà, il futuro: tanto vale che ci ammazzino tutti». I militanti di Hamas partecipano, certo, alle manifestazioni ieri è arrivato anche il leader Yahya Sinwar, ma «assieme alla loro gente». La protesta andrà avanti e la giornata decisiva sarà il 15 maggio, quando la protesta diventerà «gigantesca».
Per i soldati israeliani è la più strana delle Intifade. «Quelli giocano con la vita, non gliene importa nulla: sono loro i responsabili delle morti», insistono. Non c’è battaglia, è un tiro al bersaglio. I due mondi non sono mai stati così lontani. Gaza, uno dei Paesi più poveri del mondo, ormai senza acqua potabile, perché gli egiziani hanno inondato i tunnel con acqua di mare, e le falde adesso sono salate. Dall’altra parte ci sono i soldati di leva di uno Stato che ha appena superato come Pil pro capite la Francia e la Gran Bretagna. La guerra, con i rischi da questo lato ridotti quasi a zero, sembra soprattutto un scocciatura, ma lascia i suoi segni. «Quando ho fatto il militare – racconta Sagui Gavri, uno dei pilastri della Ong Hearts for peace – ero un cecchino. C’era la prima Indifada. Puntavi il fucile e potevi vedere il volto dell’uomo che avevi nel mirino. Ero addestrato a farlo, in automatico. Non ci pensi, in quel momento, ci devi fare i conti dopo».
Gavri, già durante il servizio, si è fatto spostare al reparto medico. E lì ha scoperto la sua vocazione, fino a diventare cardiologo pediatra. «In dieci anni abbiamo curato 700 bambini palestinesi – racconta -. È il minimo che posso fare per Gaza: di là c’è una disperazione totale». Il nonno di Gavri è stato il fondatore dell’insediamento di Nir Am, negli Anni Trenta, attaccato alla Striscia. «Parlava arabo – ricorda -, trattava con i capi beduini e si era guadagnato il loro rispetto, tanto che gli avevano dato il titolo di moukhtar. Il massimo conflitto era allora per il furto di qualche mucca. Un altro mondo, che non tornerà più».

Corriere 7.4.18
Secondo venerdì di sangue
Battaglia infinita a Gaza: 9 morti
di Lorenzo Cremonesi


Ancora un venerdì di sangue nella Striscia di Gaza. Nove palestinesi morti negli scontri con l’esercito israeliano e migliaia i feriti. Le proteste erano iniziate una settimana fa con la Marcia del ritorno. Onu e Ue: uso improprio di armi. Le proteste continueranno fino al 15 maggio.

TEL AVIV Per il secondo venerdì consecutivo i confini della Striscia di Gaza sono tornati a vivere ore di scontri violenti tra i manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano. Oltre 20.000 giovani si sono mobilitati nelle cosiddette «marce del ritorno» in cinque località sparse da nord a sud lungo i 64 chilometri di frontiera con il territorio israeliano. Sono zone di campi aperti, dove i cecchini israeliani, coadiuvati da sofisticati sensori elettronici e droni di ultima generazione, hanno gioco facile nel controllare i movimenti al di là della rete metallica e il filo spinato. Proprio per diminuire il rischio di essere colpiti, i manifestanti ora danno fuoco ai copertoni nella speranza che il fumo li nasconda almeno un poco. Ma con scarsi risultati. Ieri sera i palestinesi segnalavano almeno 9 morti.
Settimana scorsa tra i 15 e 20 palestinesi avevano perso la vita oltre a centinaia di feriti (sino a 750 secondo le fonti locali). I numeri però in questi casi vanno presi con le dovute precauzioni, anche se vengono da fonti mediche a Gaza e talvolta sono confermati dagli osservatori locali dell’Onu: fanno parte di una guerra antica, che gioca anche a gonfiare o diminuire i bilanci delle vittime a seconda delle circostanze. Ieri sera l’ambasciatore palestinese all’Onu, Ryad Mansour, segnalava almeno nove nuovi morti (incluso un bambino) e più di mille feriti. Sempre secondo la stessa fonte, i morti palestinesi nell’ultima settimana sarebbero una trentina.
Per il momento la popolazione israeliana appare comunque distratta, come se le nuove violenze fossero un fatto lontano, episodico, circoscritto. Il Paese è piuttosto assorbito dalle vacanze pasquali, con i religiosi che celebrano le feste in famiglia e il pubblico laico preso dalle passeggiate in Galilea e dai primi bagni sulle spiagge già affollate. Per i dirigenti del gruppo islamico Hamas, che dal 2007 governa su due milioni di palestinesi intrappolati nella «striscia della disperazione», le manifestazioni sono per contro un tentativo fondamentale per rilanciarsi ad ogni prezzo sia tra il loro pubblico che sullo scenario internazionale. Il momento è propizio. Le crisi in Siria e Iraq paiono sopirsi, Isis per ora appare battuto. Così la questione palestinese può tornare a dominare sulle notizie dal Medio Oriente. E a Gaza la situazione per la popolazione non fa che deteriorare. Il blocco israeliano, assieme a quello imposto col pugno di ferro dall’Egitto contro Hamas alleata dei Fratelli Musulmani, rende l’esistenza dei civili sempre più difficile. I tagli all’elettricità sono endemici, manca acqua potabile, gli ospedali denunciano la mancanza di farmaci fondamentali, la disoccupazione e l’impossibilità di movimento aggravano la frustrazione.
I risultati per Hamas del resto non mancano. Già sia l’Unione Europea che le Nazioni Unite chiedono un’inchiesta sull’eventuale «uso improprio» delle armi da fuoco da parte dell’esercito israeliano. L’inviato americano, Jason Greenblatt, invece chiede ai palestinesi di marciare «in modo pacifico» e soprattutto restare lontani dalle reti di confine. I palestinesi danno fuoco ai copertoni, lanciano bottiglie molotov e per lo più tirano sassi con le fionde. Il presidente Abu Mazen condanna le uccisioni mentre gli israeliani rispondono duri. «Hamas vuole approfittare delle marce per inviare terroristi nel nostro territorio. Non lo permetteremo. I nostri soldati mantengono le stesse regole d’ingaggio, sparano contro chi cerca di passare. Ma prima di tutto i soldati utilizzano lacrimogeni e proiettili di gomma», dichiarano i portavoce dell’esercito.

Repubblica 7.4.18
A Gaza altro venerdì di sangue. L’Anp invoca l’Onu e l’Europa
Morti 7 palestinesi. Israele: stop infiltrazioni. Abu Mazen: uccisioni contro protesta pacifica
di Marco Ansaldo


ISTANBUL Copertoni bruciati per alzare alte colonne di fumo e specchi rifrangenti per confondere la visuale. Mezzi tutto sommato artigianali, usati nel tentativo di nascondersi dal mirino dei soldati israeliani, nel secondo venerdì di protesta per ricordare il cosiddetto “Giorno della Catastrofe”, i 70 anni della creazione dello Stato ebraico che cadranno il 18 maggio. Strumenti dunque rudimentali, incapaci di impedire nuovi morti sulla Striscia di Gaza: sette soltanto ieri, contro i 21 della scorsa settimana.
Una strage annunciata. Vista la volontà dei palestinesi di Gaza – e del movimento Hamas – di proseguire la protesta a tutti i costi, «poiché non abbiamo nient’altro da perdere se non la nostra vita » , come proclamavano alcuni. E constatata dall’altra parte la determinazione delle Forze di Difesa israeliane a non cedere di un punto contro i dimostranti che si avvicinano alla barriera di divisione fra la Striscia e Israele, brandendo sassi e lanciando bottiglie molotov.
Dopo la consueta preghiera musulmana del Venerdì si aspettava perciò soltanto il via ai disordini. Scattati puntualmente. Poi, il bollettino dei caduti e dei feriti veniva aggiornato di continuo, dagli ospedali o dai media palestinesi e israeliani. Un vero stillicidio: prima due morti, poi tre, quindi cinque, infine sei e in ultimo sette. Oltre mille i feriti, in tutta la Striscia - dalla stessa Gaza City a Rafah, dal campo profughi di al Bureji a Khan Younis - dove già la scorsa settimana i focolai organizzati erano cinque, distribuiti lungo il territorio chiuso dai 65 chilometri di recinzione. Fra le vittime anche un membro del braccio armato di Hamas.
In serata un portavoce militare israeliano diceva che sono stati sventati tentativi di condurre « attacchi terroristici attraverso il lancio di ordigni esplosivi e di molotov » , e che « i nostri soldati hanno impedito le infiltrazioni » . Hamas, invece, che governa Gaza, annunciava la prossima vendetta « colpendo in profondità il cuore degli insediamenti » . Il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato « le uccisioni e la repressione svolte dalle forze di occupazione israeliane a fronte della manifestazione di massa pacifica » . Da Ramallah un comunicato della presidenza ha infine chiesto all’Unione europea, all’Onu e alla Lega Araba « di fermare questa brutale uccisione e volontaria dell’esercito di occupazione, a fronte di innocenti e indifesi che sono andati in una marcia pacifica per difendere il loro diritto di vivere».
Difficile che tutto questo ora si fermi, nonostante l’alto tributo di sangue. Le due parti sono destinate a proseguire ognuna la propria battaglia, senza alcun segno di compromesso. Al mattino, prima che il grosso dei manifestanti ( circa 20 mila) per la ‘ Marcia per il ritorno’ dei profughi palestinesi in ricordo del 1948 si riversasse sulla barriera, inviti alla calma erano arrivati da tutto il mondo: dall’inviato del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente, Jason Greenblatt, dall’Unione europea, dal vicino Egitto. Era poi arrivata anche la notizia della morte del ventunesimo dimostrante tra i feriti del venerdì precedente. Un corrispondente del portale Middle East Eye presente nella Striscia riferiva che le forze israeliane prima di aprire il fuoco avevano chiesto ai giornalisti, tramite altoparlanti, di evacuare l’area. Infine il copione è stato rispettato, come purtroppo ci si attendeva, anche se con entità lievemente inferiori rispetto al primo confronto. Tutto, adesso, fa pensare a un’escalation. La Marcia culminerà il prossimo 15 maggio, e molto sangue potrà ancora scorrere fino ad allora.

Repubblica 7.4.18
Chi guida Hamas
L’ultima Marcia di Sinwar, il leader dai 4 ergastoli
di Vincenzo Nigro


Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, con la “marcia del ritorno” si gioca il suo futuro e quello del suo movimento nella partita che ha avviato con Israele. Sinwar venne scarcerato da Israele nel 2011, insieme a ben 1000 prigionieri palestinesi liberati in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit. Era stato condannato a 4 ergastoli, scontò 22 anni in prigione, adesso è il primo leader dell’ala militare del movimento ad assumere anche un ruolo politico. La dirigenza di Hamas a Gaza da anni ha iniziato a diluire la leadership, quasi ad offuscare le varie personalità, anche per evitare che Israele abbia pochi leader, pochi bersagli ben individuabili per le sue “uccisioni mirate”. Ma a Gaza sicuramente Sinwar è il leader, ed è a lui che si fa risalire l’organizzazione dietro quella “marcia del ritorno” che andrà avanti fino a metà maggio.
Sinwar ieri ha lanciato la sfida a Israele parlando ai suoi sostenitori riuniti a Khan Yunis: «Gaza è pronta ad esplodere in faccia agli occupanti, il mondo deve attendersi il momento in cui noi romperemo i confini e andremo a pregare alla moschea di Al Aqsa».
Che è la moschea di Gerusalemme, il luogo santo che sovrasta il muro del pianto israeliano.
Lorenzo Kamel, professore all’università di Bologna e responsabile di ricerca allo Iai, ha seguito da settimane il nascere del movimento che ha portato alla “marcia del ritorno”: «La mia interpretazione è che Hamas si sia impossessata di questa protesta come avvenne al tempo della prima Intifada, un movimento nato dal basso che venne cavalcata dai capi palestinesi. I 2 milioni di persone a Gaza non hanno tutte legami o simpatia politica per Hamas. Che rappresenta molto meno di quanto si creda. Ma che adesso certo combatte una sua battaglia decisiva».
La battaglia di Hamas e della sua dirigenza è contro la manovra a tenaglia che ormai soprattutto i principali Stati sunniti hanno messo in piedi contro il gruppo erede in Palestina dei Fratelli musulmani. Quando l’anno sorso Egitto ed Arabia Saudita hanno deciso di mettere nel mirino il Qatar, uno dei primi contatti che hanno fatto saltare è stato proprio quello degli uomini dell’emiro di Doha con Hamas. Con i suoi finanziamenti e il suo sostegno politico. Da allora il movimento è rimasto ancora più solo, con l’appoggio dell’Iran, sotto l’assedio di Egitto ed Israele. La dirigenza di Hamas ha scelto quindi di rilanciare, di portare il popolo di Gaza in prima linea al confine con Israele. Bisogna capire fino a quando il popolo di Gaza la seguirà.

Il Fatto 7.4.18
Stessa rabbia, stessi metodi Israele uccide 7 palestinesi
Idranti, lacrimogeni e pallottole nel secondo venerdì di proteste di Hamas a Gaza
di Fabio Scuto


In mezzo a spesse nuvole di fumo causate dai pneumatici in fiamme e dai gas lacrimogeni, migliaia di abitanti di Gaza sono tornati a manifestare vicino alla barriera di confine con Israele. In centinaia si sono scontrati con l’esercito israeliano che cercava di tenerli “a distanza di sicurezza”, con idranti e munizioni vere. Sette morti e centinaia di feriti il bilancio di questo secondo venerdì che celebra la “Marcia del ritorno” e culminerà il 15 maggio, il Giorno della Nakba. La data della nascita di Israele nel 1948. La “catastrofe” per il palestinesi.
La protesta ieri è stata certamente minore di quanto avevano previsto gli organizzatori. Hamas, che governa questa minuscola fascia costiera impoverita e abitata da 2 milioni di persone, aveva invitato i manifestanti a presentarsi in numero ancora maggiore rispetto alla scorsa settimana, quando l’Idf aveva ucciso 16 palestinesi nel giorno più sanguinoso per Gaza dalla guerra del 2014. Stavolta, i manifestanti hanno cercato di ostacolare i cecchini israeliani bruciando cumuli di pneumatici e usando specchi per riflettere i raggi del sole negli occhi dei soldati, mentre altri tra la folla bersagliavano i soldati con pietre e bombe incendiarie. I militari israeliani hanno usato cannoni ad acqua e un gigantesco ventilatore per dissipare il fumo delle gomme ma hanno anche sparato munizioni vere contro chiunque abbia tentato di avvicinarsi alla Barriera.
L’esercito israeliano ha stimato l’affluenza di ieri in circa 20.000 persone. I portavoce di Hamas sostengono che la paura di inalare il fumo delle gomme bruciate ha certamente ridotto la folla. Le proteste mirano a mettere in luce la situazione dei profughi palestinesi, mentre gli Stati Uniti – ignorando le risoluzioni Onu – si preparano a trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme a metà maggio. Le manifestazioni raccolgono la rabbia di molti abitanti della Striscia: l’economia di Gaza affonda sotto il peso dei danni di guerra, dell’embargo imposto da Egitto e Israele e le sanzioni imposte dal governo palestinese in Cisgiordania.
La nuova strategia Hamas, che punta sulle proteste di massa è stata adottata dopo che la sua minaccia missilistica è stata ampiamente neutralizzata dal sistema israeliano di difesa missilistico “Iron Dome” e i suoi tunnel di attacco stanno per diventare obsoleti per la Barriera, anche sotterranea, che Israele sta costruendo lungo il confine. “Oggi inviamo un messaggio: la nostra lotta è senza armi e pistole, e aspetteremo e vedremo se il mondo riceve il messaggio e spinge Israele a fermare i suoi crimini contro il nostro popolo”, ha detto ieri uno dei leader di Hamas, Mahmoud al-Zahar . “Il nostro messaggio è semplice”, ha risposto parlando ieri con i giornalisti Nitzan Nuriel, ex direttore della Divisione antiterrorismo presso l’ufficio del premier, “puoi dimostrare quanto vuoi, ma non puoi toccare la Barriera di sicurezza verso Israele. Diventi un bersaglio”.

Il Fatto 7.4.18
Povero Dio: ora gli tocca la disputa sui carciofi
Le comunità ebraiche discutono sugli ortaggi e sul loro essere “kosher”. E l’Altissimo decide di cambiare canale
di Stefano Disegni


Il terzo giorno Dio creò il carciofo. E il quarto giorno se ne pentì perché essendo Onnisciente, quindi conoscendo passato, presente e futuro, vide chiaramente che qualche milione di anni più tardi il carciofo gli avrebbe procurato seccature. Gente di là da creare avrebbe litigato a colpi di Libro su quale carciofo fosse degno dell’Altissimo e quale potesse scatenare le Sue ire perché contraffatto, magari dai cinesi che di Dio non gliene può fregare di meno, infatti sono aperti anche durante le Feste Comandate. A quel punto Dio si chiese se fosse davvero il caso di creare l’Uomo, evidentemente nevrotico e rompicoglioni per natura.
Ma il Progetto era il Progetto e doveva essere portato a termine, sennò non sarebbero esistite le Terre, il Cielo e le Acque e io non sarei qua a scrivere. Così, toccando ferro, Dio creò l’Uomo e la Donna, sperando che la litigata sull’ortodossia del carciofo di qualche milione di anni più tardi fosse stata un abbaglio, quando uno vede contemporaneamente tutto quello che è successo prima, tutto quello che succede adesso e tutto quello che succederà poi, ci può anche stare che confondi una disputa religiosa sulla santità del carciofo con il risultato dell’andata di Manchester-Borussia Dortmund. Così Dio guardò più da vicino a sei milioni di anni di distanza. Quelli si accapigliavano proprio sul carciofo. Per la precisione sulla testa, del carciofo, disquisendo con estenuante pignoleria se la testa del carciofo di Roma (bella città, forse ci avrebbe aperto un Centro) fosse in linea con la Sua Volontà o non fosse più in linea la testa del carciofo di Gerusalemme (gli era venuta bene pure quella, ci sarebbe successo qualcosa ma adesso non ricordava cosa). A differenza di altri casi, in cui a metterlo in mezzo erano gruppi diversi, questi che polemizzavano sul Quoziente di Divina Conformità del Carciofo appartenevano tutti allo stesso ceppo!
Dio non aveva mai capito perché, se lui gli uomini li aveva creati tutti uguali (vabbè, qualche variazione cromatica da esposizione solare disomogenea, ma in sostanza due gambe, due braccia e una testa per tutti, modello base) gli uomini s’erano poi dati un gran da fare a dichiararsi diversi, a vestirsi in fogge eterogenee e improbabili, ad appioppargli i nomi più bizzarri dichiarandosi unici ed esclusivi Suoi tifosi e rappresentanti (pure se Dio non ricordava di aver mai creato e rilasciato licenze a nessuno).
Questi qua invece appartenevano tutti a quelli che spuntavano il pisello ai figli (una cosa che a Lui faceva molta impressione), si facevano crescere le trecce e in certi casi portavano colbacchi di pelo a Ferragosto, tanto che una volta Dio si andò a riguardare i progetti in cerca di errore, ma venne fuori che era una roba di Libero Arbitrio, non dipendeva da Lui.
E il trecentosettantaquattresimo giorno Dio si dispiacque. Ci rimase male. Perché Lui a fare l’Uomo ci si era impegnato, un po’ perché era a Sua Immagine e Somiglianza e non poteva mandare in giro dei cessi, Lui cui veniva unanimemente attribuito un grandissimo charme; un po’ perché era sicuro che il cervello, quella cosa molliccia, grigia e potente che gli era apparsa in dormiveglia sotto un baobab pleistocenico e che aveva poi installato nella scatola cranica dell’Uomo, fosse strumento di grandi e raffinate potenzialità. E questi si mettevano a berciare su qual era er mejo cuore di carciofo tra Roma a Tel Aviv! Sulla conformità divina degli insettini tra le fogliette!
Con tutto quello di cui avrebbero dovuto occuparsi, di qua i Palestinesi, di là le buche in cui spariscono navette di giapponesi! Ci rimase male sì, l’Altissimo.
Già una volta s’era dovuto sorbire un tizio che chiedeva un fulmine sull’occipite perché s’era mangiato un gamberetto. E adesso questi a litigare sui carciofi alla Giudìa! Non proprio un trionfo per lo strumento di speranza che gli aveva installato tra le orecchie. Ci rimase così male, l’Onnipotente, che cambiò canale sul Panvisore Universale HD e si guardò il ritorno di Manchester-Borussia Dortmund.

il manifesto 7.4.18
Bolzaneto, poliziotti e medici dovranno risarcire lo Stato
G8. La Corte dei conti di Genova condanna 28 persone a risarcire l’Italia per le violenze del 2001
di Eleonora Martini


Che fu «tortura», perpetrata su donne e uomini inermi e spesso feriti, lo ha definitivamente stabilito, poco più di cinque mesi fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto a 61 persone recluse nella caserma di Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova, il diritto ad essere indennizzate dallo Stato italiano. Ora la Corte dei conti del capoluogo ligure a sua volta ha condannato 28 esponenti delle forze dell’ordine e personale medico sanitario a risarcire lo Stato per i danni materiali (ma non quelli d’immagine davanti al mondo) causati all’Italia da quella barbarie.
Tra i poliziotti, i carabinieri, gli agenti e i dirigenti della polizia penitenziaria, i medici e i sanitari che dovranno restituire ai cittadini italiani 6 milioni di euro in totale, ci sono anche personaggi come il dottor Giacomo Toccafondi, coordinatore delle attività sanitarie del sito penitenziario di Bolzaneto, il generale Oronzo Doria, ex capo area della Liguria dei poliziotti penitenziari chiamato al pagamento – in via sussidiaria – di 800 mila euro, e l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma, Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dap, che, sempre in via sussidiaria, dovrà pagare un conto di circa un milione di euro. Sabella, raggiunto dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza.
Una condanna che segue di poco quella inflitta a fine gennaio, dagli stessi giudici contabili della Liguria, all’ex comandante del VII Reparto Mobile di Bologna, Luca Cinti: 50 mila euro per i danni di immagine causati alla Polizia per alcuni arresti eseguiti in Piazza Manin, sempre durante le giornate del G8 di Genova.
Nella sentenza di ieri la Corte ha accolto solo in parte la richiesta della procura, formulata durante l’udienza di un anno fa, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro per i danni patrimoniali recati alle 252 persone che transitarono in quei giorni nelle celle di Bolzaneto, e altri 5 milioni per il danno di immagine all’Italia. A conti fatti, il danno reale è stato poi quantificato in “soli” 6 milioni, che graveranno soprattutto sui vertici delle istituzioni coinvolte. Coloro che, secondo i giudici, «erano necessariamente consapevoli delle violenze commesse», quelle fisiche e quelle psichiche commesse su persone inermi, minacciate di morte e di stupro.
Dal punto di vista penale il processo per le violenze di Bolzaneto si era concluso con 33 prescrizioni, 8 condanne e 4 assoluzioni, ma le amministrazioni di appartenenza degli imputati avevano dovuto ugualmente risarcire le parti civili. Ma da un altro punto di vista, come aveva sottolineato in udienza la procura contabile, quei giorni di Genova «hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica». Ecco perché a pagare è stato condannato anche Alfonso Sabella, malgrado la sua posizione giudiziaria fosse stata archiviata. L’ex dirigente Dap infatti avrebbe dovuto controllare e vigilare per evitare abusi. Tanto più in una situazione così inusuale, con una caserma trasformata di fatto in carcere.
Durante l’udienza di un anno fa, il procuratore contabile Claudio Mori aveva però spiegato come fosse più facile punire per danno d’immagine il dipendente pubblico che lascia il posto di lavoro per recarsi al bar di fronte l’ufficio piuttosto che gli agenti e i militari protagonisti delle violenze di Genova. «Con l’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile – aveva spiegato Mori – forse si andrà oltre». E invece nel conteggiare il risarcimento dovuto allo Stato la Corte dei Conti non ha inserito il danno d’immagine. Quello, continueremo a pagarlo tutti, cittadini e istituzioni italiane.

il manifesto 7.4.18
Torture e polizia, la credibilità è tutta da ricostruire
G8 Genova 2001. Ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni del pm Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende
Genova 2001, dopo l'assalto delle forze dell'ordine alla scuola Diaz
di Lorenzo Guadagnucci


Pochi giorni fa il pm Enrico Zucca è stato sottoposto a un durissimo attacco mediatico e istituzionale per avere ricordato alcune antipatiche verità riguardanti il G8 di Genova del 2001. Nel Palazzo non piace che si ricordino le vicende di quel tragico luglio e soprattutto i processi che ne sono seguiti.
Ma non esiste al momento un silenziatore abbastanza efficace da cancellare i fatti e ora tocca alla Corte dei Conti ricordarci la disfatta morale, politica e anche economica causata dai responsabili istituzionali con la loro scellerata gestione del dopo G8. La magistratura contabile ha condannato 28 persone – fra personale medico-sanitario e appartenenti a polizia, carabinieri e polizia penitenziaria – a risarcire i circa sei milioni di euro pagati alle parti civili nel processo per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto e solo un malizioso cavillo normativo – definito a suo tempo «irragionevole» dal procuratore ligure Ermete Bogetti – ha impedito di contestarne altri 5 per il danno alla reputazione dello Stato. Il pm, nel chiedere la doppia condanna, aveva specificato che le violenze sui detenuti a Bolzaneto «hanno determinato un danno d’immagine che non ha pari nella storia della Repubblica».
Sono parole molto dure ma anche molto simili a quelle scritte dai giudici di Cassazione il 5 luglio 2012 nella sentenza che ha condannato in via definitiva 25 funzionari e dirigenti di polizia nel processo Diaz: «(…)una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociandosi così da una condotta che aveva gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero e di rimettere in libertà gli arrestati, avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze».
Non vanno poi dimenticate le parole spese dalla Cassazione nel motivare il no alla richiesta di affidamento ai servizi sociali presentata da Gilberto Caldarozzi, condannato nel processo Diaz e oggi vice direttore della Direzione investigativa antimafia; la Cassazione in quel documento biasima il «dirigente di polizia, tutore della legge e della legalità che si presta a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici» e ricorda, con riferimento alla Diaz, «il clamore provocato dalla vicenda e il conseguente discredito internazionale caduto sul nostro paese».
Dovremmo tenere a mente tutti questi passaggi ogni volta che si parla di dignità e credibilità delle nostre forze di polizia, l’una e l’altra gravemente danneggiate dalle scelte compiute dai vertici istituzionali non solo durante ma anche dopo il G8 del 2001. La Corte europea per i diritti umani ha rimarcato come nel processo Diaz «la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria»…
Che c’è di peggio, per un apparato dello Stato, di un giudizio del genere?
Il capo della polizia Franco Gabrielli l’altro giorno ha definito «oltraggiose» le affermazioni di Enrico Zucca, tutte riprese da sentenze passate, sulla debole «statura morale» della nostra polizia, dimostrando di non aver compreso, o di non voler accettare, la dura verità che scaturisce dal G8 di Genova. In quei giorni e negli anni successivi fino a oggi, con l’inopinato reintegro dei condannati nel processo Diaz, abbiamo assistito a un pervicace rifiuto di tutelare l’onorabilità dei corpi di polizia nell’unico modo possibile: ammettendo le proprie colpe, allontanando i responsabili degli abusi, facendo opera di prevenzione (do you remember i codici sulle divise?), chiedendo scusa – ma davvero, non con la mezza e tardiva frase di Antonio Manganelli – a tutti, proprio a tutti: le vittime dirette delle violenze, i cittadini italiani, i lavoratori onesti dei corpi di polizia.
Oggi è troppo tardi e la credibilità perduta è tutta da ricostruire: perciò ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni di Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende.
*Comitato Verità e Giustizia per Genova

Il Fatto 7.4.18
Moro, la commissione e il lavoro non finito
di Sandra Bonsanti


Quella parola che ti aspetti finalmente la trovi verso la metà della relazione finale. È innegabile, hanno scritto i membri dell’ultima commissione sull’uccisione di Aldo Moro che “con il concorso di forze diverse si venne a creare una posizione processuale particolarmente garantita” nella quale il ruolo di testimone di Valerio Morucci scoloriva in una opaca funzione di consulente, “quasi realizzando concretamente una trattativa che veniva pubblicamente negata”.
Una trattativa per chiudere gli anni del terrorismo brigatista. Lo Stato, impersonato da pubblici ministeri, Servizi di sicurezza e uomini politici, ha trattato con le Brigate rosse una verità “dicibile” sulla morte del presidente della Democrazia cristiana. Tutti costoro hanno nomi e cognomi. Ma quello su cui ancora forse non abbiamo avuto il tempo di riflettere è che si propose allora (un periodo che va tra la fine degli anni Ottanta e la fine dei Novanta) qualcosa di molto simile all’altra trattativa: quella che pochi anni dopo vide coinvolti alcuni degli stessi protagonisti politici in un patto con i boss di Cosa Nostra.
Viene da pensare che sia un “vizio” delle nostre istituzioni, quando si tratta di spiegare vicende troppo scomode se fossero completamente conosciute, si cercano accordi che chiudano per sempre quella fase storica, e consentano di aprirne un’altra, con nuovi interlocutori. Due trattative dunque, diverse eppure con elementi in comune: le carceri, i presidenti Cossiga e Scalfaro, i servizi segreti e gli uomini della P2, e sempre sullo sfondo Gladio e le verità negate e altre vittime senza una pace.
Ho pensato a questa storia che si ripete riflettendo sulle conclusioni della Commissione su Moro. Una volta affermatasi, di processo in processo, la verità di Valerio Morucci (poi condivisa da tutti o quasi i capi brigatisti) e ricondotta l’uccisione dello statista a un doloroso capitolo di terrorismo nostrano, sono di colpo spariti tutti quei collegamenti con i servizi segreti stranieri, con le centrali in Francia, con le minacce e le intrusioni degli anglo-americani, con i referenti italiani della P2, con gli ambienti infiltrati dell’Autonomia, con il dover fare i conti con la verità indicibile: Moro fu ucciso e la sua scorta sterminata perché il suo progetto politico era insopportabile per gli interessi delle potenze straniere. Ed è importante il racconto che si snoda nel libro di Giovanni Fasanella (Il puzzle Moro, Chiarelettere) che già contiene le conclusioni della Commissione.
A questo punto però resta una domanda importante: la Commissione non ha potuto oppure non ha voluto fare qualche passo avanti, individuare gli strateghi e i mandanti stranieri e italiani, mettendo alle strette i pochissimi testimoni ormai rimasti?
Un lavoro importante, dunque, quello della commissione Fioroni, purché non sia considerato definitivo o ci si affidi alla speranza che la magistratura avrà più coraggio. Attorno a noi giornalisti impegnati nella cronaca dei 55 giorni, così vicino alle nostre strade, si stava svolgendo l’atto di terrorismo più grave del Ventesimo secolo. Era impossibile capire tutto allora. Così come era difficile, nel ’92, intuire tutte le finalità e i beneficiari dell’uccisione di Falcone e Borsellino. Ma oggi non possiamo dimenticare e nemmeno accettare uno Stato che insista a rinunciare alla verità per trattarne una di comodo con i soliti mandanti, strateghi ed esecutori.

il manifesto 7.4.18
Lula resta tra i suoi sostenitori: «Vengano qui ad arrestarlo»
Brasile. L’ex presidente brasiliano nella sede del sindacato metalmeccanici. Ore concitate a San Paolo, Sem terra e Sem tetto pronti a circondare l’edificio: «Non un passo indietro, difendiamo la democrazia»
di Claudia Fanti


Sono ore febbrili quelle che si stanno vivendo, mentre il giornale va in stampa, presso la sede del sindacato dei metalmeccanici di São Paulo, a São Bernando do Campo, dove l’ex presidente brasiliano Lula si è recato nella serata di giovedì, dopo l’emissione del mandato di cattura da parte del giudice Sérgio Moro.
SEMBRA ORMAI CERTO che Lula decida di non costituirsi, respingendo così la richiesta in base a cui, «in considerazione della dignità della carica svolta in passato», avrebbe potuto presentarsi volontariamente, entro le 17.00» (le nostre 22.00) di ieri, alla sede della Polizia federale di Curitiba, dove a Lula è stata preparata, per l’inizio dell’esecuzione della pena, una «cella riservata» nella quale, si legge nel decreto di arresto, l’ex presidente «sarà separato dagli altri detenuti, senza alcun rischio per la sua integrità fisica e morale».
«Costituirsi è un’ammissione di colpa, e non è questo il caso», ha commentato il senatore del Pt Lindbergh Farias, convinto della necessità «che vengano a prenderlo qui, in mezzo a questo mare di gente», perché sia evidente agli occhi del mondo «la vergogna» dell’«illegale detenzione di Lula».
SONO IN MIGLIAIA, infatti, i sostenitori accorsi a São Bernando do Campo, a cominciare dai militanti del Movimento dei senza tetto e del Movimento dei senza terra, decisi a circondare la sede del sindacato per impedire l’arresto del presidente. Non a caso l’hasthag #OcupaSaoBernardo appare come il quinto dei trending topics di Twitter nel mondo.
Ed è una «resistenza democratica» quella che ha promesso il pre-candidato presidenziale del Partito socialismo e libertà (Psol) Guilherme Boulos: «Stare qui oggi – ha detto – è stare dalla parte della democrazia. E la storia giudicherà chi si è schierato da un lato e chi dall’altro». E ha assicurato: «Non ci muoveremo di un passo. Ancora una volta, questo sindacato sarà una trincea della democrazia in questo Paese». E non sarà il solo, considerando che in queste ore si stanno attivando manifestazioni di protesta e blocchi stradali in tutto il Paese.
CHE SI TRATTI DI INGIUSTIZIA lo conferma anche la velocità lampo con cui, nei confronti d Lula, ha agito la sempre assai lenta giustizia brasiliana. Neppure si è atteso, per decretare l’arresto, che i legali dell’ex presidente presentassero gli ultimi possibili ricorsi presso il Tribunale federale regionale di Porto Alegre (Trf-4), qualificati sprezzantemente da Moro come «un patologico tentativo di procrastinazione che dovrebbe essere eliminato dal mondo giuridico». E sempre con estrema rapidità il Tribunale superiore di giustizia ha respinto il nuovo ricorso d’urgenza presentato dagli avvocati dell’ex presidente perché venisse sospeso il mandato emesso dal giudice Moro, perché in anticipo rispetto alla conclusione dell’iter processuale presso il Trf-4.
È ANCHE POSSIBILE, del resto, che la detenzione di Lula duri appena pochi giorni. La questione della costituzionalità o meno dell’arresto dopo la condanna in secondo grado non è stata affatto risolta con la decisione del Supremo tribunale federale di respingere l’habeas corpus presentato dai legali dell’ex presidente.
IL MINISTRO MARCO AURÉLIO Mello, uno dei cinque che hanno votato a favore di Lula e il più critico nei confronti della «strategia» della presidente della Corte suprema Cármen Lúcia, ha annunciato infatti di voler proporre al plenario del Stf, nella sessione di mercoledì 11, l’analisi di un provvedimento di urgenza diretto a impedire l’arresto dei condannati in secondo grado. A richiederlo sono stati i noti avvocati Antônio Carlos de Almeida Castro, Cláudio Pereira de Souza Neto e Ademar Borges de Sousa Filho, secondo i quali «nessuno può restituire agli individui i giorni passati in carcere in maniera illegittima».
Sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai tre avvocati già nel 2016 (ma all’epoca respinta dal Stf), in cui si invocava il rispetto di un articolo del Codice di procedura penale che vieta l’arresto prima che la sentenza passi in giudicato, viene oggi proposta una soluzione intermedia: che l’inizio dell’esecuzione della pena avvenga dopo l’analisi dei ricorsi da parte del Superiore tribunale di giustizia, il terzo grado di giudizio.

il manifesto 7.4.18
Un’aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana
Lula. Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in «Dei delitti e delle pene», chiamò «processo offensivo» dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo»
di Luigi Ferrajoli


Il 4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del cittadino Lula che sono state violati.
L’intera vicenda giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50 milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto aveva invece il compito di difendere.
Il senso non giudiziario ma politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo, emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9 anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19 anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di questo arbitrio partigiano.
Il primo aspetto è la campagna di stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma il consenso popolare.
L’anticipazione del giudizio ha inquinato anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale Superiore della 4^ regione (TRF-4) di fronte al quale la sentenza di primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che tale sentenza era «tecnicamente irreprensibile».
Simili anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò «processo offensivo», dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo», e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce».
Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e, insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che la contraddicono.
Di qui l’andamento tautologico del ragionamento probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel maggio scorso una «confessione premiata» per ottenere la liberazione, ma la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema bancario.
Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula, secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione.
Il terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima alla condanna definitiva e così, in base alla legge «Ficha limpia», impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione.
E’ infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile – l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la campagna giudiziaria contro Lula – e che fa della loro convergenza un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. E’ un’operazione alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente rimarginabile.
L’indignazione popolare si è espressa e continuerà ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto, essere ottimisti.

Corriere 7.4.18
La resistenza di Lula con gli scudi umani
di Rocco Cotroneo


Lula non si consegna alle autorità per essere portato in carcere a Curitiba, dopo la condanna per corruzione. L’ex presidente brasiliano è rimasto barricato nel quartier generale della Metalworkers Union di São Bernardo do Campo. I suoi avvocati hanno iniziato una trattativa per definire i termini dell’arresto e della detenzione. In tutto il Paese diverse le manifestazioni di protesta a favore di Lula.
RIO DE JANEIRO Il bunker della resistenza finale è una brutta palazzina di quattro piani circondata da altro cemento, nella periferia di una delle più sterminate metropoli del mondo. Ma la sua insegna è un pezzo di storia del Brasile, ed è qui che Lula decide di ignorare i giudici e rendere drammatico il suo ultimo giorno di libertà. La sede del sindacato metalmeccanici di San Paolo è la culla della storia politica dell’ex tornitore che ha perso un dito sotto una pressa, poi ha sfidato la dittatura da leader operaio e molti anni dopo è diventato presidente del suo Paese. È circondata da militanti con le bandiere rosse, oltre che giornalisti e fotografi. Sono poche migliaia i fedelissimi, non il cordone umano che potrebbe proteggerlo dalla «giustizia ingiusta e serva delle élites», come nella narrativa di parte di questa lunga vicenda giudiziaria. Non le decine di milioni di brasiliani che lo hanno votato in cinque occasioni. Ma in qualche modo la scenografia ottiene il suo scopo: a fronte di una persecuzione c’è un martire rinchiuso in un luogo simbolico di lotta.
Lula dunque non si è consegnato spontaneamente entro le 17 ore locali di ieri (le 22 in Italia), come il giudice Sergio Moro gli aveva suggerito. Avrebbe dovuto presentarsi a Curitiba, sede dell’inchiesta giudiziaria che l’ha travolto, e in cambio ottenere un trattamento di favore. Niente manette e telecamere, e come cella una specie di ufficio al quarto piano della sede della Polizia federale: 15 metri quadrati, con bagno privato, letto e un tavolo di lavoro. Era un dormitorio per agenti in trasferta, non ci sono sbarre: il giudice Moro ha ammesso l’eccezione in considerazione del ruolo svolto in passato dal leader brasiliano e chiesto alla polizia di preparare una stanza speciale. Lula prigioniero avrà diritto a due ore d’aria al giorno e una visita di familiari e amici per settimana. Nessun contatto con gli altri detenuti, come il suo ex ministro dell’Economia, Antonio Palocci, o il costruttore che gli aveva regalato il famoso attico al mare, Leo Pinheiro. La pena da scontare è lunga, 12 anni e un mese, anche se sulla durata effettiva della detenzione di Lula fioccano previsioni di ogni tipo. Anche poche settimane, sostiene qualcuno, conoscendo i meandri del sistema giudiziario brasiliano.
Saputo dell’ordine di arresto, Lula ha scelto di passare la notte tra giovedì e ieri nella sede del sindacato, con amici e avvocati, dormendo poche ore nella stanza della presidenza senza tornare a casa. Poi è cominciata una giornata lunghissima. Un elicottero della tv ronzava sulla palazzina, i manifestanti fuori, i giornalisti in maratone davanti alle telecamere e alcuni momenti curiosi, come l’arrivo di un furgone con casse di birra, carne e sacchi di carbonella, come per ogni «churrasco» (grigliata) che si rispetti. In strada due camion-palco, dai quali militanti del partito e dei movimenti sociali si alternano a parlare per ore e ore, strappando applausi via via più annoiati. Nel corso della giornata, la polizia concede a Lula di presentarsi, sempre entro le 17, nella sede di San Paolo, da dove poi un aereo l’avrebbe immediatamente portato a Curitiba. Mentre gli avvocati giocavano le ultime disperate carte per trovare un giudice di una istanza più alta in grado di sospendere la detenzione: due le nuove istanze, entrambe respinte.
Passato l’ultimatum, senza alcun segnale che Lula intendesse lasciare la sede del sindacato, la polizia ha fatto sapere di escludere un blitz per andarlo a prendere con la forza. Troppi rischi di scontri con i manifestanti, un eccesso di drammaticità evitabile. Ma la previsione ieri sera era che la consegna fosse ormai imminente, secondo un accordo già raggiunto tra polizia e legali di Lula.

Corriere 7.4.18
Il capo dei Sem Terra «Lo libererà la piazza, faremo marce e scioperi»
di R. Co.


«Dovesse succedere, incendieremo il Brasile!». È lo slogan che la militanza dura e pura del «lulismo» agitava da tempo, in previsione di una giornata storica come quella di ieri. Ma poiché la capacità di mobilitazione del Pt (il Partito dei Lavoratori fondato da Lula) è ormai limitata, l’unico movimento in grado di far sentire la sua voce a livello nazionale è quello dei contadini senza terra. Ieri lo storico Mst (Movimento Sem Terra) ha bloccato con picchetti varie strade nel grande Paese. Il suo leader João Pedro Stedile è un vecchio amico di Lula, sin dalle prime battaglie negli anni Ottanta. È nato nel Sud del Brasile, da una famiglia di origini trentine.
La prigione di Lula è una partita perduta?
«Per nulla. Il campionato è lungo ed è arrivato il momento di reagire e stimolare la reazione popolare ad una evidente ingiustizia. Non abbiamo i grandi media, quelli che hanno orchestrato questa offensiva, ma i social network che sono i nostri muri, l’unico luogo dove possiamo scrivere liberamente. Lula verrà liberato dai suoi militanti, da grandi manifestazioni di massa. Vedrete».
Ieri si è radunata gente a San Paolo, dove Lula ha passato le ultime ore di libertà nella sede del sindacato. Ma nel resto del Brasile?
«I senza terra hanno organizzato marce e blocchi stradali in decine di città e Stati. Ma la mobilitazione deve continuare e allargarsi al sindacato. È ora di tornare a grandi scioperi. La prigione di Lula è un altro attacco dei poteri forti dell’economia contro il nostro popolo».
Come è possibile che tutte le accuse contro Lula non abbiano alcun fondamento?
«Tutto è nato in televisione, anzi in un’unica tv, la rete Globo. Una volta la borghesia aveva le sue scuole, le chiese, oggi il pensiero unico passa dalla tv monopolista, il vero partito ideologico delle élites. Mentono dalla mattina alla sera. Cosa possiamo fare? L’unica è spegnere la televisione, denunciare le sue menzogne. E un giorno il popolo chiederà il conto».
Come andrà a finire con le elezioni di ottobre?
«Con l’esclusione forzata e illegittima di chi è chiaramente in testa alle preferenze di voto e non potrà competere, si rischia un processo elettorale del tutto anomalo. Il popolo brasiliano aveva già scelto, vuole il ritorno di Lula che è stato il miglior presidente della sua storia».

Il Fatto 7.4.18
Assedio all’ex presidente “Resisteremo per Lula”
Voci dalla “roccaforte” del leader della sinistra sotto mandato di arresto ma difeso da migliaia di cittadini per strada
Difesa popolare – La folla sotto l’edificio dove è asserragliato Lula
di Giuseppe Bizzarri


“Siamo qui. Resisteremo. Contiamo su di voi”. Sono le parole registrate in un rapido video in Rete dalla presidente, anzi l’ex guerrigliera, Dilma Rousseff, la quale invita i militanti della sinistra ad aggiungersi alla moltitudine presente di fronte alla sede del Sindicato dos Metalúrgicos a São Bernardo do Campo, divenuto il bunker del carismatico Inacio Lula da Silva. Lula, l’ex presidente più amato e votato della storia brasiliana (2003-2011), si è asserragliato nella storico sindacato assieme ai leader del partito, il Pt, deputati, dirigenti sindacali e i capi dei principali movimenti di base, i quali l’hanno persuaso a opporsi al mandato di arresto spiccato dal giudice Sergio Moro, capo dell’equipe d’inchiesta della Lava Jato che indaga il giro di mazzette legato alla statale Petrobras. Lula è stato condannato in secondo grado a 12 anni di prigione per corruzione e riciclaggio.
L’ex metalmeccanico – divenuto un mito per il popolo brasiliano e che si trova in vetta alle statistiche elettorali per le presidenziali previste ad ottobre, si considera innocente. La condotta del processo è stata criticata anche da organismi internazionali. Moro – che avrebbe emesso il mandato di prigione a tempo record e senza rispettare i termini giuridici, ossia attendere il nullaosta del Tribunale federale regionale di Porto Alegre – ha ordinato a Lula di costituirsi entro le 17 di venerdì alla polizia federale di Curitiba.
Fino alla pubblicazione di questo articolo, non c’erano segni che Lula si sarebbe consegnato agli agenti della Polizia Federale che, probabilmente, dovranno ricorrere alla forza per entrare dentro l’edificio, dove si trovano non solo militanti, ma anche deputati, intellettuali, artisti. Il mandato d’arresto è stato spiccato poche ore dopo il travagliato verdetto emesso dagli 11 giudici del Supremo tribunale federale che per un solo voto hanno negato a Lula la protezione dell’habeas corpus che l’avrebbe protetto sino all’ultima istanza processuale richiesta dalla difesa presso il tribunale di Porto Alegre, lo stesso organo giudiziario che avrebbe ignorato il giudice Moro per emettere il mandato d’arresto. La difesa di Lula ha dichiarato che ricorrerà all’Onu per impedire la detenzione. Secondo Stellamaris Pinheiro, militante all’interno della “roccaforte” di Lula, i militanti “hanno ben chiaro” che l’arresto del “maggiore presidente della storia brasiliana” non dovrà avvenire.
Militanti del Movimento sem terra hanno bloccato strade in altri Stati del Brasile, dove si registrano manifestazioni e scontri tra oppositori e difensori di Lula. “Siamo qui per Lula, per il Brasile e per la democrazia duramente conquistata. Diversi partiti, parlamentari, movimenti sociali, gente comune, artisti, seguono la lotta per la libertà e per il diritto di Lula d’essere candidato alle presidenziali”, afferma Pinheiro convinta che, come milioni di brasiliani, l’ex metalmeccanico sia stato condannato senza prove e senza il rispetto della costituzione brasiliana.
“Non possiamo permettere che il golpe si sviuluppi oltre. L’arresto, tutto il processo, è stato politico, ha avuto come obiettivo d’impedire a Lula di vincere l’elezione per invertire il disegno neo-liberale in corso”, aggiunge Pinheiro. Dopo l’impeachment della presidente Rousseff, considerato un “golpe branco” per milioni di brasiliani, la crisi politica, sociale e della sicurezza pubblica si è aggravata in Brasile, dove la ripresa economica stenta a ripartire.
E preoccupa anche l’ingerenza dello stato maggiore dell’esercito nella vita democratica del paese, spalleggiati da una parte dei conservatori, i cosiddetti “Coxinhas”, ma soprattutto dalla classe imprenditoriale.

Repubblica 7.4.18
La caduta dell’ex presidente del Brasile
Lula e il crepuscolo degli dei
La sua parabola riassume l’ennesima tragedia di una sinistra che ansima da sempre tra entusiasmi e feroci delusioni
di Vittorio Zucconi


Fu chiamata la “ Marea Rosa”, lo tsunami di una grande speranza per l’America Latina, oggi infranta nell’assedio umiliante all’ex presidente condannato e renitente, a Lula in Brasile. Era la marea di una nuova sinistra democratica e riformista non rossa, più indigena che guevarista, che aveva investito l’America Latina dal Venezuela alla Patagonia con la promessa di una nuova alba di giustizia sociale. Ma la grande onda che sembrava destinata a sommergere il continente si è spenta e l’acqua si ritira lasciando visibili i relitti di un’altra grande illusione.
La parabola di Inácio Lula da Silva, la storia della ascesa e della caduta di questo amatissimo e ancora oggi molto popolare personaggio dentro e fuori il Brasile, riassume in sé l’ennesima tragedia di una terra che ansima perennemente fra entusiasmanti speranze e feroci delusioni, fra scosse populiste epocali e delusioni concrete quotidiane. Nessuno, non in Ecuador, in Perù, in Venezuela, in Bolivia, ovunque la “Marea Rosa” si fosse alzata, era riuscito a incarnare meglio di lui, di questo presidente del popolo, di questo affascinante “uomo qualunque”, le speranze della nuove politiche di redistribuzione della ricchezza ed era riuscito a produrre più risultati. Dunque nessuno rappresenta meglio di lui e della disperazione dei suoi fedeli rimasti a far quadrato per impedirne l’arresto, l’abisso del nuovo, ennesimo autunno di un altro patriarca.
Dalla caduta de L’Avana nelle mani di Fidel Castro il primo gennaio del 1959 all’arresto di Lula da Silva ieri quasi sessant’anni dopo è scritta la storia di una Sinistra latina prigioniera di una terra sempre “troppo lontana da Dio e troppo vicina all’America”, al Grande Norte, come scriveva il poeta messicano Octavio Paz. Generazione dopo generazione, si sollevano movimenti e illusioni, leader e organizzazioni che tra la violenza guerrigliera alla Tupamaros, o ancora prima alla Zapata, alla via democratica dei Lula e degli Allende promettono quello che inesorabilmente non riescono a mantenere, senza abbandonarsi al peronismo che da due generazioni intossica l’Argentina. Ma sprofondano nelle sabbie mobili delle prepotenze esterne, della corruzione interna, di investimenti stranieri speculativi che accorrono e fuggono dopo avere rapinato, del fatalismo, della impossibilità. Zapatistas e Barbudos, Chavistas e Caracazos venezuelani, le onde si alzano e poi la palude vince. I corvi dei fondi d’investimento “becca e fuggi” chiedono le loro libbre di carne e volano via.
Con molta fretta e qualche acre gioia, lassù nel Grande Norte, in quegli Stati Uniti oggi più ferocemente arcigni di prima nelle mani di un Presidente che detesta tutto il mondo di “stupratori, spacciatori e ladri” a Sud della “Frontera” del Rio Grande, qualcuno pronuncia già il requiem anche per le nuove sinistre latine, annunciando la fine di questo esperimento di rivoluzione sociale ed economica non violenta.
L’appello dei successi e dei risultati, obiettivamente, è deprimente. Il Venezuela di Maduro è una tragedia umana, prima che politica, che il mondo preferisce malevolmente ignorare o vuole ignorare perché il “Chavismo” consumi in un ultimo falò la minaccia al Nuovo Ordine Mondiale che aveva portato. Ogni giorno, mentre i resti della vita democratica sono puntualmente schiacciati, file di venezuelani attraversano la frontiera con la Colombia non per emigrare ma per cercare alimenti e medicinali da riportare a casa.
In Bolivia Evo Morales, il sindacalista dei coltivatori di piante di coca che era riuscito, con nazionalizzazioni draconiane a ridurre la povertà di un massiccio venticinque per cento godendo di un favore immenso, è riuscito a farsi rieleggere con appena un punto percentuale sopra l’avversario, mentre la sua ex favorita e amante, Gabriela Zapata è sotto accusa per avere ricevuto una supertangente di 500 milioni di dollari dai cinesi. Brasile e Argentina, che avevano temporaneamente goduto del boom delle materie prime, fra petrolio e agricoltura, dei primi anni del Duemila, restano imprigionate dalla corruzione che inesorabilmente riaffiora e divora la ricchezza. Anche i più coraggiosi, i più sinceri, come Rafael Correa, l’ex presidente dell’Ecuador con sangue indio, cresciuto dai salesiani e dalle università cattoliche, figlio di un corriere della droga che lui difese spiegando che gli spacciatori spesso erano “madri di famiglia, padri disoccupati e alla fame”, devono difendersi dal ritorno di avversari politici conservatori.
Ma l’annuncio della morte delle nuove sinistre centro e latino americane, incluso il Messico dove è possibile il ritorno della opposizione progressista al governo dopo trent’anni, può essere largamente prematura. Il tradimento delle persone, dei Lula, dei Maduro, della Dilma Rousseff delfina di Lula, non comporta l’abbandono delle speranze che la “Marea Rosa” aveva sollevato. Milioni di boliviani, ecuadoriani, brasiliani, colombiani, venezuelani hanno assaggiato il sapore di nuove politiche di redistribuzione della ricchezza e dell’uscita dalla miseria e quel gusto rimane. Oltre la nausea per gli errori e le debolezza degli uomini e delle donne che li avevano traditi. Le maree vanno e poi ritornano.

Il Fatto 7.4.18
Ungheria stregata a vita dalle botte di Orbán
Anti-migranti e Ue - La parabola del premier “illiberale”: da pupillo delle élite a capo-popolo delle classi povere favorito nel voto di domani
Orbán è diventato il leader dei Paesi dell’Est critici con l’Unione
di Andrea Valdambrini


“Mostrami un giovane conservatore e ti dirò che è senza cuore. Mostrami un vecchio progressista e ti dirò che è senza cervello”. L’adagio, falsamente attribuito a Churchill, pare perfetto per racchiudere la storia di Viktor Orbán, anzi di Orbán e il suo doppio. Il primo è un ragazzo di 26 anni magro, capelli fluenti, come emerge da una foto del 1989, quando pochi mesi prima del crollo del regime arringava la folla inneggiando della libertà di espressione e del libero mercato. Il secondo è un uomo sulla sessantina, volto più tondo e pancia prominente, che difende i valori cristiani contro l’invasione dei migranti in nome del nazionalismo magiaro, critica i tecnocrati di Bruxelles, flirta con Mosca, controllando i media e mette in atto misure dirigiste definite dai suoi avversari esempi di “populismo economico”. Cosa è successo nello spazio di tempo quasi trentennale che separa il primo dal secondo politico?
Premier in carica dal 2010, in corsa per il quarto mandato (il primo era stato tra il 1998 e il 2002), che dovrebbe ottenere senza difficoltà domani, l’Orbán di oggi si comprende più considerando il pragmatismo delle scelte che la presunta folgorazione ideologica sulla via del sovranismo. Dopo i primi successi, Fidesz, il partito da lui fondato, subisce un’amara sconfitta nel 1994.
Da allora il giovane leader smette di rivolgersi alle élite urbane – già rappresentate da altre formazioni – bensì a quelle classi sociali provinciali e marginalizzate da cui lui stesso proveniva. E che rimangono la base del suo ampio consenso.
Perfino il contrasto andato in scena negli ultimi mesi con George Soros è l’esempio di un clamoroso cambiamento. Fu proprio il magnate filantropo, ebreo di origine ungherese, a finanziare sul finire dell’era comunista i primi passi dell’attuale premier. Eppure contro Soros, sostenitore della necessità dell’immigrazione per l’Europa, Orbán non ha esitato a scatenare una violenta e lunga campagna d’opinione, culminata nella legge che impone forti restrizioni all’azione delle ong – tra cui la fondazione Open Society riconducibile al magnate – e attirandosi per questo anche le accuse di antisemitismo. Proprio l’opposto di quanto accaduto con un altro antico alleato come l’oligarca Lajos Simicska, che ha voltato le spalle a Orbán, dichiarando il supporto per l’estrema destra di Jobbik, ma soprattutto scatenandogli contro la stampa di sua proprietà per denunciare uno grosso scandalo legato a fondi Ue che coinvolgerebbe esponenti del governo. Una campagna non in grado di impensierirlo, dato che il controllo sui media rappresenta un corposo capitolo dell’atteggiamento quantomeno disinvolto di Orbán verso la democrazia liberale.
A partire dal 2010, il premier ha messo sotto stretto controllo l’intero sistema radiotelevisivo pubblico e privato, nonché i principali quotidiani nazionali e locali. Caso esemplare, l’acquisto nel 2015 di un canale nazionale da dell’oligarca e già produttore hollywoodiano Andy Vajna -, tassello di una rete di fedelissimi alla testa dell’informazione, di cui tira le fila il sottosegretario Antal Rogán, conosciuto come “ministro della Propaganda”.
Stampa amica funzionale a sostenere la traiettoria in rotta di collisione con le politiche delle capitali occidentali invece accondiscendente con i valori (e gli interessi economici) della Russia diventata amica da nemica che era per chi fu anti-sovietico come lui. Basti pensare all’esaltazione dell’Ungheria cristiana, “ultimo bastione contro l’islamizzazione dell’Europa”, come ha tuonato il leader di Fidesz nel discorso sullo stato della nazione di febbraio, in cui ha anche biasimato chi minaccia lo stile di vita magiaro come “i politici di Berlino, Parigi e Bruxelles“. “L’Europa è sotto invasione e chi non la ferma andrà in rovina”, ha rincarato il premier di recente.
Nel 2015 il governo ha voluto una barriera di filo spinato di quasi 180 chilometri sul confine serbo per fermare il flusso dalla rotta balcanica. Contro le quote di ripartizione dei migranti volute dall’Ue, Orbán ha perfino indetto un referendum nell’ottobre 2016: quorum del 50% mancato, ma il 98% dei votanti gli ha dato ragione. “L’immigrazione non è un fatto positivo e non rientra nel novero dei diritti umani”, chiarisce se mai ce ne fosse bisogno il portavoce del premier Zoltán Kovács
“L’Ungheria non è in senso stretto una dittatura, ma neppure più una democrazia liberale”, ha scritto il politologo britannico Timothy Garton Ash. “È un regime ibrido, in parte autoritario, che pone domande fondali sulla natura dell’Unione europea”. La quale è consapevole della popolarità degli autocrati che coltiva in seno. Ma mentre contro la Polonia, Bruxelles ha mostrato il pugno duro, l’atteggiamento verso il leader ungherese è molto più morbido. Sarà che Fidesz fa parte della grande famiglia del Partito popolare europeo di Angela Merkel, osservano in molti. Così, tra realpolitik e cinismo, l’Ue vuole illudersi che Orbán – uno e bino, liberale da giovane, teorico della “democrazia illiberale” ora – sia in fin dei conti meno brutto di quanto appare.

La Stampa 7.4.18
Nel regno sovranista di Orban
“Vinco e mi occupo dei nemici”
Il premier attacca il rivale Soros, i migranti e “le potenze straniere” L’economia in crescita aiuta il leader. Opposizione assente sui media
di Monica Perosino


Il premier ungherese Viktor Orban sembra considerare il voto di domani una noiosa seppur necessaria formalità. Lui guarda già oltre, come se nulla potesse scalfire il suo regno ininterrotto e, apparentemente, incrollabile.
Strategia elettorale o convinzione poco importa, l’uomo forte dell’Ungheria non mostra tentennamenti, e il quarto mandato (il terzo consecutivo) per lui non è in discussione.
Per questo guarda già avanti e promette: «Dopo la vittoria mi occuperò dei miei nemici, con mezzi morali, politici e legali».
Lo sguardo volitivo del premier rimbalza all’infinito sui poster formato gigante che macchiano di verde e rosso le facciate dei sontuosi palazzi di Budapest. Sono ovunque, e dappertutto ripetono la promessa elettorale di Orban. Solo il logo del partito di ultradestra Jobbik compete in dimensione, non certo in numero. Appesi con scotch di carta ai lampioni, timidamente incollati ai cestini e ai muri delle vie laterali sono comparsi, nemmeno due settimane fa, i volti dei candidati all’opposizione. «Fino a ieri neanche sapevamo che faccia avessero - dice János Seres, che vende lattine di paprika ungherese al mercato -. Ma non siamo sorpresi, d’altronde è il governo che dà i permessi per le affissioni. Le elezioni qui sono inutili». I sondaggi sembrano dargli ragione, pochi dubbi che sarà ancora Orban, l’inventore della «democrazia illiberale», a guidare il Paese: l’ultimo attribuisce all’alleanza Fidesz-Cristiano democratici il 47% dei voti, un risultato che, se dovesse avverarsi, fornirebbe a Orban una solida maggioranza nel Parlamento magiaro. Molto staccato il principale rivale, il partito ultranazionalista di Jobbik, con il 18%. Il Partito socialista si attesterebbe sul 14%.
I nemici di Viktor
La promessa di abbattere «i nemici dell’Ungheria» è stata la cifra di una campagna elettorale che negli ultimi 8 mesi ha raggiunto picchi di tensione altissimi, culminati in scandali finanziari, accuse di spionaggio, propaganda e contropropaganda, fake news, corruzione. Sono stati chiusi giornali di opposizione, e «gli oligarchi amici di Orban - spiega l’analista Ivett Korosi - si sono comprati quasi tutti gli altri». Da lunedì, a scanso di sorprese elettorali, la battaglia continuerà.
I nemici sono innanzitutto i migranti, che «vogliono invadere l’Ungheria e cancellare i valori cristiani», contro i quali Orban ha già innalzato un muro di 175 chilometri e, due anni fa, ha indetto un referendum per fermare la ricollocazione chiesta dalla Ue. È contro «l’invasione» che si è concentrata la campagna elettorale. Il governo ha diffuso storie terribili di malattie tropicali diffuse dai profughi, ha mostrato foto di fantomatici ghetti islamisti (a Vienna, Parigi, Berlino e Stoccolma) paventando un destino simile per l’Ungheria e ha diffuso «dati», come quello della percentuale di nigeriani malati di Aids («l’80%»). Pochi giorni fa Zoltan Lomnici Jr., portavoce del Com, movimento pro-Orban, ha arringato la folla a Budapest sostenendo che la maggior parte degli africani è malato di Hiv e in Svezia 4 donne su 5 violentate dai migranti hanno contratto il virus.
L’attacco straniero
La retorica funziona. Molti ungheresi credono alla narrativa di Orban secondo la quale il Paese sarebbe sotto attacco da varie potenze straniere «aiutate dai media internazionali» e dal miliardario filantropo americano-ungherese George Soros, attraverso i suoi «agenti», ovvero le Ong internazionali che difendono i diritti umani. È Soros il nemico pubblico numero uno: alla guida di «un impero che lavora, con duemila “mercenari” in tutta l’Ungheria, per trasformare l’intero continente e i suoi Stati in Paesi di immigrati».
Daniel Makonnen, portavoce della Fondazione Open Society di Soros a Budapest, snocciola l’infinita serie di fondi destinati a organizzazioni umanitarie, educazione, media indipendenti e organizzazioni anti corruzione. L’anno scorso si sono sfiorati i 4 milioni di euro: «La fondazione lavora anche per promuovere l’informazione: nel Paese, Budapest a parte, le uniche fonti sono i giornali locali, controllati dal governo, e la tv nazionale, infarcita di pubblicità di Fidesz in mezzo ai programmi di cucina. Questa campagna elettorale è stata durissima, le voci del dissenso praticamente annullate». Non stupisce che la base degli elettori, soprattutto nelle aree rurali, «non abbia neanche idea di un’alternativa a Orban».
Il suo elettorato non è più quello delle élite filo-europee delle grandi città, ma quello dei ceti medio-bassi e dei contadini. Le indagini demoscopiche rivelano che su tre aventi diritto solo due dichiarano l’intenzione di andare a votare: la bassa affluenza favorisce Fidesz che ha una base solida di circa 2 milioni di votanti certi. Il 30-35% dell’elettorato, infine, sarebbe incerto su chi votare. Se, ipotesi improbabile, i partiti di opposizione riuscissero a chiamare questa parte di elettori alle urne, una sorpresa non è esclusa.
L’economia
La forza persuasiva del premier sta soprattutto nell’economia: come l’alleata Polonia, l’Ungheria ha una crescita fortissima (+4% nel 2017), anche se pesantemente dopata dai 5 miliardi di euro dell’Europa. Il risultato è un «benessere» che però non si rispecchia nella realtà nazionale. Un quarto della popolazione è a rischio povertà, con salari bassissimi e una flat tax che piega soprattutto le classi più basse, tanto che nel 2017 la Commissione europea ha indicato in Ungheria l’aumento peggiore delle diseguaglianze in tutta l’Unione.
In campo economico Orban ha progressivamente abbandonato le politiche liberiste dei primi anni, orientandosi verso un potenziamento del settore pubblico. Ammiratore di Putin e Trump («finalmente con lui finisce il multiculturalismo»), lo stesso Bannon ha definito Orban un «eroe» per la sua rivoluzionaria visione di «democrazia illiberale» e nazionalista.
Il paradosso europeo
Sebbene il premier ungherese sia considerato un euroscettico (anche se il suo Fidesz è nel Ppe), e l’Europa lo consideri un pericolo per lo stato di diritto, Orban sta molto attento a non spingersi troppo oltre, anche perché è consapevole che gli ungheresi sono fortemente europeisti. Non solo, Martin Michelot, vice direttore del think tank «Europeum», e curatore di un rapporto pubblicato dall’Istituto Delors di Parigi, spiega che «Orban non combatte l’Europa», e «sa benissimo che il Paese dipende dai fondi europei e dagli investimenti stranieri, inclusi quelli delle banche italiane, così come dipende dalla libera circolazione dei lavoratori».

Corriere 7.4.18
Il voto in Ungheria
Orbán e la corsa con un solo rivale
di Paolo Valentino


Gergely Karácsony, 40enne ecologista alla guida di una coalizione rosso-verde, unica alleanza nel panorama devastato della sinistra magiara, è il solo avversario credibile del premier Viktor Orbán nelle elezioni ungheresi di domani.
Quando uno speaker troppo entusiasta lo introduce a un migliaio di persone come il «prossimo primo ministro ungherese», Gergely Karácsony offre un sorriso timido. Il giovane sindaco del 14mo distretto di Budapest non si fa illusioni sull’esito del voto. Eppure è lui, quarantenne ecologista trovatosi alla guida di una coalizione rosso-verde, unica alleanza nel panorama devastato della sinistra magiara, il solo avversario credibile di Viktor Orbán nelle elezioni di domani.
I sondaggi lo danno intorno al 20 per cento dei consensi, metà del Fidesz, il partito di Orbán, e più o meno la stessa percentuale di Jobbik, la destra più estrema che prova a indossare un improbabile doppiopetto. Ma poiché più della metà dei 199 seggi dell’Orszaggyulés, l’Assemblea nazionale, viene eletta in collegi uninominali a maggioranza semplice, l’eventuale desistenza tra le forze di opposizione in favore dei candidati con più chance, potrebbe fare la sorpresa.
E’ già successo in febbraio, in un comune roccaforte di Orbán, dove l’unità tra oppositori, Jobbik compreso, ha inflitto una clamorosa sconfitta al candidato di Fidesz. Ma a livello nazionale, la partita è un’altra. E per quanto forti siano le voci di accordi segreti in corso, è molto probabile che Orbán vinca il terzo mandato consecutivo.
Non a braccia levate, comunque. Difficile infatti che ripeta l’exploit di quattro anni fa, quando Fidesz, con il 44 per cento dei voti e grazie a una legge elettorale confezionata su misura, ottenne due terzi dei deputati e la possibilità di cambiare la Costituzione, opportunità di cui Orbán ha ampiamente approfittato in senso autoritario.
«Orbán non governa, regna — mi dice Karácsony, appena sceso dal palco —. Non fa nulla per educazione, salute, sicurezza sociale, domina un sistema corrotto e per pochi, meglio se sono suoi parenti. E nel frattempo restringe gli spazi di libertà». «E voi cosa offrite?», chiedo: «Un nuovo modello democratico per l’Ungheria, il nostro programma propone soluzioni concrete: buone scuole, buoni ospedali, salari migliori, prospettive per le centinaia di migliaia di giovani che oggi emigrano, un buon rapporto con l’Europa. Da Orbán non ne abbiamo ascoltato nessuno, tranne quello della paura: la sua campagna è stata costruita su menzogne e fake news».
Che Viktor Orbán abbia puntato tutto sulle emozioni è un fatto. Agitando davanti agli ungheresi la visione di un futuro distopico, dominato dallo scontro fra le civiltà e dalla minaccia di «dieci milioni di migranti in marcia verso l’Europa da Africa e Medio Oriente», il premier magiaro ne ha solleticato le ansie profonde, facendo sanguinare ferite mai rimarginate, dalla dominazione ottomana al Trattato del Trianon, corollario della Pace di Versailles, che dopo la Prima guerra mondiale tolse all’Ungheria due terzi del suo territorio e popolazione. «L’Europa è sotto invasione. Bruxelles non ci difende e vuole trasformaci in terra d’immigrazione, eliminando la nostra identità e modo di vita, ciò che ci distingue dal resto del mondo. Ma è impossibile per culture diverse coesistere», è il refrain di Orbán, che si vuole defensor fidei e paladino dell’Occidente contro gli infedeli.
Si è scelto anche un nemico fisico, vero convitato di pietra della campagna elettorale: il finanziere e filantropo americano George Soros, di origine ungherese, che in cento comizi e migliaia di manifesti Orbán ha accusato di avere architettato un piano segreto per favorire «l’invasione islamica» dell’Europa. Quasi una nemesi, visto che fu Soros a finanziare la borsa grazie a cui il giovane Orbán studiò per un anno a Oxford.
Perfino un velato tono antisemita fa capolino nella retorica del premier, membro del Partito popolare europeo: «Combattiamo un nemico diverso da noi, non aperto ma nascosto, non onesto ma abietto. Che non crede nel lavoro ma specula col denaro. Che non ha patria ma si sente a casa in tutto il mondo», ha detto il 15 marzo, anniversario della rivolta del 1848 contro gli Asburgo. Vocabolario da intenditori.
Ne aveva bisogno? L’economia cresce più della media europea, la disoccupazione è sotto il 4 per cento, i fondi di coesione della Unione europea affluiscono generosi. Ma intanto aumenta la corruzione, diminuisce la qualità della democrazia, mentre quasi 400 mila giovani tra 20 e 30 anni hanno piani concreti per emigrare. Vincerà lo stesso, Viktor Orbán, ma sulla paura non si costruisce il futuro del Paese.

il manifesto 7.4.18
Nel cuore orientale d’Europa il populismo si fa «Stato» e regime
Tempi presenti. «L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi polacco e ungherese», il libro di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu, per Bonomo editore
Frans Masereel, da «La città, un viaggio appassionato»
di Tommaso Di Francesco


Se il populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato, che cosa è quando, raggiunto il potere nelle forme o del partito o del movimento politico, diventa sistema e regime?
Un interrogativo attuale, alla luce del risultato elettorale in Italia, al quale risponde il saggio L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi polacco e ungherese di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu (Bonomo Editore, pp. 125, euro 15), che attraversa genesi e forme ormai istituzionali di un populismo al potere in due società dell’Est Europa, Polonia e Ungheria. Che mostrano perfino una articolazione delle loro fondanti degenerazioni-ragioni «ideologiche», con elementi a comuni, come la riscoperta dell’integralismo nazionalista e dall’autoritarismo, la xenofobia contro il diverso e il migrante tanto da costituire l’anima del Gruppo dei Paesi di Visegrad, ma anche con «ispirazioni» politiche difformi.
TUTTE COMUNQUE SORRETTE da una profonda quanto menzognera rilettura-revisione della storia del XX secolo, il «secolo breve» , che spazia dal periodo tra le due guerre mondiali, comprende il ruolo del nazismo – per il quale si rivendica la presunta innocenza delle due nazioni – e arriva fino al periodo del socialismo realizzato. Ungheria e Polonia vedono, dopo la caduta del Muro di Berlino, nell’avvento al potere di forze finalmente nazionaliste una «rivoluzione» realizzata – o controrivoluzione necessaria – rispetto ai limiti e ai «tradimenti» che sarebbero stati rappresentati dai governi democratici eredi diretti delle svolte dell’89. Fatto singolare, mentre la leadership di destra di Budapest deriva da una trasformazione in senso reazionario di una forza, il Fidesz, che alla nascita si dichiarava «progressista» e contendeva questo spazio alla formazione d’ispirazione socialdemocratica, in Polonia invece la continuità a destra resta confermata ma certo con una sterzata nella voragine della conservazione dell’integralismo cattolico del PiS al potere, che arriva ormai a mettere all’indice anche le espressioni più sociali e storiche di figure come Walesa, protagonista del fermento degli anni Ottanta che fu Solidarnosc. Quando infatti nel giugno dell’89 vennero fatti i funerali di Stato a Budapest all’ex segretario comunista Imre Nagy, impiccato dopo i moti del ’56, era presente tra la folla l’attuale presidente Viktor Orbán, un giovanotto con barba e capelli lunghi, un contestatario qualsiasi che avrebbe dato vita ad una formazione «progressista», la stessa che ora è autoritaria, revisionista storica e razzista.
NEL PREZIOSO SAGGIO di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu emerge che entrambi i «sistemi» che si insediano per esplicita «reazione», trovano legittimità in una nuova «volontà di nazione», come programmaticamente dichiara il Pis, il partito di Jaroslav Kaczyinski, per motivare la risposta autoctona alla sfida della crisi dei modelli occidentali importati e «accettati»: il capitalismo finanziario, la democrazia parlamentare e la difesa atlantica.
ALLA DERIVA delle privatizzazione che a Est – e ovunque – hanno ricostituito vere e proprie oligarchie economiche, si risponde con la riscoperta dell’intervento dello Stato, dove in Ungheria si insiste sul rilancio del «capitalismo ungherese» e del «lavoro ungherese» con una sorta di Ungheria first, e con il welfare da difendere ma nella logica dell’Ordo caritatis, un ordine della carità che sostiene «prima la tua famiglia, poi la tua nazione, poi gli altri».
I migranti economici così sono out, pena il declino della «civiltà occidentale, e quelli che in fuga dalle guerre pure, visto che Polonia e Ungheria dichiarano di non aver partecipato ai conflitti in corso, come in Siria. Un’altra menzogna, perché al conflitto in Iraq – l’inizio della fine – si arruolarono subito nella coalizione dei volenterosi nel 2003 al seguito di Bush.
E si risponde alla crisi dei partiti democratici e socialdemocratici al potere dopo l’89, con l’autoritarismo e la devastazione dello stato di diritto, con la messa sotto controllo della stampa, della magistratura e delle forme appena abbozzate della cosiddetta «società civile»,- così fragile da poggiare l’esistenza sul sostegno esterno come fa l’odiato magnate Soros con le Ong.
IL TERZO ELEMENTO, fondamentale è l’adesione alla Nato come punto qualificante d’appartenenza. In particolare per la Polonia, sia dal punto di vista interno, assicurando sul territorio polacco basi militari decisive come quella del nuovo sistema antimissile Usa a ridosso della frontiera russa, sia con il 2,5% del Pil di spesa per gli armamenti; con incremento degli addetti alle Forze armate e la creazione di una forza paramilitare su base volontaria di 53mila unità, una guardia nazionale parallela su imitazione di quella americana. Fatto significativo, nella Polonia che ha la memoria del golpe di Jaruzelski del 1981 e che partecipò all’invasione dell’ex Cecoslovacchia nel ’68, hanno fatto ingresso in pompa magna come fosse un trionfo nel gennaio 2017 circa tremila militari della Nato accompagnati da festosa sfilata di 80 carri armati. Come se non bastasse, l’arrivo di Trump in Europa per il G20, ha visto come prima tappa presidenziale proprio la Polonia: una apoteosi, con la partecipazione al secondo summit dell’iniziativa «Tre mari» (Trimarium, Baltico, Mar Nero e Adriatico) che schiera militarmente dodici paesi dell’Europa centro-orientale, tutto l’ex Patto di Varsavia, tranne per ora l’Ungheria) contro la Russia dopo l’eterodiretta crisi ucraina. Mentre l’Ue sullo sfondo appare più come copertura ideologica e fornitrice di assistenza monetaria; perché l’obiettivo per Budapest e Varsavia è una «Europa delle patrie» e va rigettata ogni dimensione sovranazionale che possa assomigliare alle unioni come l’Urss.
Nazional-populismi dunque da paura. Avvisaglia di guerra in Europa, ma intanto si consolidano come «Stato» e regime. Non più solo democrature come denunciava Predrag Matvejevic.

il manifesto 7.4.18
«Renzi ci lasci lavorare o ritiri le dimissioni». Nel Pd parte la mischia
Democrack. L’ex leader indeciso fra Martina e un futuro segretario più fedele Orlando lo attacca ma finisce sotto accusa dagli ultrà del giglio. Il senatore "semplice": «Non farò uscite pubbliche fino al 21 aprile quando parlerò in assemblea»
di Daniela Preziosi

ROMA  L’immagine di un futuro segretario in balia del predecessore e dei suoi ultrà non era edificante. Né quella del «caminetto renziano», ovvero i capicorrente di maggioranza Pd, riuniti in uno studio di Via Veneto per litigare su chi sarà il prossimo leader e come sarà eletto: dimostrazione plastica del fatto che Renzi stavolta non riesce a mettere ordine fra i suoi ma comunque non ha mai smesso di dirigere il partito. Nonostante le dimissioni e la promessa di «due anni di silenzio».
LA MINORANZA DEM ci ha messo una notte per realizzare che Martina, sul quale stava dirigendo i propri voti all’assemblea del 21 aprile, era gradito a Renzi proprio perché ritenuto «controllabile». Poi finalmente ieri mattina il ministro Andrea Orlando, all’uscita da Palazzo Chigi, ha acceso le polveri: «Renzi deve decidere: se ritiene che la colpa di questa sconfitta non sia la sua, che sia la mia o dei cambiamenti climatici, allora deve ritirare le dimissioni e continuare a esercitare il mandato avuto dagli elettori». In caso contrario si dimetta davvero e consenta «a chi pro tempore ha avuto l’incarico di poterlo esercitare».
CON ORLANDO si schierano Gianni Cuperlo e Francesco Boccia (area Emiliano): «Martina sta facendo un buon lavoro, dobbiamo tutti aiutarlo a gestire la transizione». Contro di lui invece sui social si scatena la contraerea renziana: «Orlando vorrebbe per Renzi ritiro a vita privata, come lo vorrebbero Di Maio Salvini Berlusconi Bersani», attacca Michele Anzaldi. Il ministro prova a replicare: «Convocare 3/4 della delegazione che è andata al Quirinale senza il segretario reggente produce un messaggio ben preciso che sono certo non ti sfuggirà». Ma la risposta è una goccia nel mare. Ciascuno regola un suo conto. Riescono fuori vecchie ruggini, come quella di Raffaella Paita, corregionale del ministro e sconfitta alla regione Liguria, che lo sfida a ripresentarsi a congresso: «Lì sì che potrai mostrare quanto vali al nostro paese».
MARTEDÌ È CONVOCATA la riunone dei gruppi parlamentari in vista del secondo giro delle consultazioni del Colle. Dal Nazareno spiegano che la linea resta quella: la strategia «dell’arrocco» voluta da Renzi sta funzionando: più il Pd sta fermo, più è chiaro che il problema non riguarda i dem. Tanto più che tutto il partito – tranne Emiliano – è sulla linea dell’opposizione. Almeno per ora.
Ma la partita del governo del paese rischia paradossalmente di finire in secondo piano rispetto a quella del governo del Pd.
IN QUESTE ORE RENZI fa la parte del paciere: «Calma e gesso». Insieme a Matteo Orfini: «Non abbiamo bisogno di alimentare tensioni e polemiche interne, che già tanto male hanno fatto in passato al Pd». E Lorenzo Guerini: «Consiglierei a tutti, a partire da me stesso, di darci una calmata». La verità però è evidente: è bastata una iniziativa dell’ex segretario – la convocazione della riunione della maggioranza – per far saltare la fragile tregua firmata dal partito intorno a Martina.
I RENZIANI SONO DIVISI fra quelli che preferiscono appoggiare un segretario considerato travicello come Martina, eletto dall’assemblea (dove l’ex leader controlla ancora quasi il 60 per cento dei delegati) e che fa proclami di «collegialità» ma di fatto si offre come garante di Renzi e dei suoi. E quelli invece che puntano su un nuovo segretario, possibilmente ancora più fedele a Renzi e in grado di sventare la «derenzizzazione» del partito. Ma senza convocare un congresso vero, con le primarie che garantiscono un mandato pieno, non si trova il candidato. Delrio si è già sfilato, Guerini pure, nel pomeriggio spunta l’ipotesi di Rosato ma rasenta la provocazione («Mister Rosatellum» partirebbe fra i fischi di mezza Italia). Matteo Richetti oggi a Roma farà il suo appello contro «il rischio di estinzione del Pd» ma per lanciarsi nella corsa chiede l’apertura dei gazebo. Dall’area della minoranza anche Nicola Zingaretti batte un nuovo colpo, per non rischiare di perdere il treno dell’eventuale congresso. La confusione è tanta. Delrio, che passa per un moderato, stavolta è sulle barricate delle primarie che fatalmente toglierebbero di scena Martina. Ma però poi racconta ai colleghi che «Maurizio non è indebolito».
MARTINA IN EFFETTI «REGGE» l’assalto di chi lo vuole archiviare. Ma soprattutto «regge» la linea politica dell’opposizione a prescindere, che è quello che gli chiede Renzi. Prova a mediare agitando un fazzoletto bianco mentre le opposte trincee si sparano colpi sul suo nome. «Chiedo di fermare discussioni e polemiche sbagliate e di rimanere concentrati sul nostro lavoro», dice, «Chiedo unità e offro collegialità, perché abbiamo bisogno di questo e non di dividerci», «Qui c’è da dare una mano insieme per costruire il nostro rilancio nel paese. Possiamo farcela».
RENZI NON HA ANCORA DECISO, chi sarà il prossimo segretario e come sarà eletto. Cioè di fatto il Pd non ha ancora deciso: «Per quanto mi riguarda non farò uscire pubbliche fino al 21 aprile quando parlerò in assemblea», confida ai suoi.

Il Fatto 7.4.18
La domanda è: ma perché Renzi odia così tanto il Pd?
di Antonio Padellaro


Mi giunge una vibrata protesta (di alcuni) tra i dieci lettori per la pochezza di questo diario. Non vi trovano (dicono) neppure una stilla di quei succosi retroscena che movimentano le informatissime cronache degli altri giornali. Mai nulla di insolito, di sorprendente, di veramente sensazionale come, ad esempio, lo strepitoso incipit del grande Francesco Merlo su Repubblica, direttamente dalla stanza presidenziale. Là dove “Mattarella ha stretto la destra di Di Maio con la sua destra e poi ci ha messo sopra anche la sinistra in modo da attrarlo a sé. Ed è stato”, leggiamo, “quel tocco delle mani, il momento di maggiore comprensione tra i due soggetti smarriti”.
Si resta senza parole di fronte a un’istantanea così autentica (sembrava di essere proprio lì, nel palmo delle due mani destre e di quella sinistra) che nell’intimità dell’atto coglie il reciproco turbamento del presente (non so cosa voglia dire ma suona bene). Attrazione del tocco e del ritocco che forse soltanto Tvboy aveva intuito nel famoso murale di Matteo Salvini che bacia in bocca Luigi Di Maio, sollevandogli il viso con le delicate manone. Il Capo Politico, dunque, che oggetto del desiderio politico trasversale, ancora oggi può scegliere tra forni diversi dove acquistare il pane, e fare un governo.
Concentriamoci un attimo sulla rivendita Pd, poiché solo se dovessero trovarla ancora sbarrata i Cinque Stelle passeranno al negozio successivo (governo con Salvini ma senza Silvio Berlusconi). Ma se anche qui andasse male non resterebbe (a tutti quanti) che il supermarket delle nuove elezioni.
Che al Nazareno e dintorni sia in corso la solita rissa tra contrari e favorevoli al dialogo coi grillini, è cosa nota. È pure stranoto che nell’Assemblea nazionale del 21 aprile si assisterà al solito regolamento di conti per impedire l’elezione alla segreteria dell’attuale reggente Maurizio Martina. Si cercherà quindi di convocare un congresso che, visto l’aria che tira, potrebbe essere l’Armageddon dei Democratici.
Allora la vera domanda è: perché Matteo Renzi – incarnazione dello spirito del no a tutto ciò che non è lui – odia tanto il Pd? Non è una provocazione, basta sfogliare il suo album personale. Prima foto: lui nella Margherita, il Pd non c’è ancora. Seconda foto: lui che scala il Pd per rottamarlo. Terza foto: lui che sogna il Partito della Nazione. Quarta foto: lui che progetta l’uscita dal Pd per costruire un nuovo partito sull’esempio del macroniano “En Marche!”. Quanto alla serie ininterrotta di disastri elettorali (nei prossimi giorni si replica in Molise e nel Friuli) viene in mente quella famosa battuta su Stalin: nessuno ha eliminato più comunisti di lui. Nessuno come Renzi ha eliminato più elettori Pd.
Del resto, l’odio come categoria della politica è stato trattato da Massimo Recalcati, psicoanalista renziano, quando si occupò dell’avversione “smisurata” che si era scatenata nel Pd contro l’allora segretario. Ma se odio chiama odio come potrà sopravvivere il partito (qualsiasi partito) a una tale furia autodistruttiva? E che ne sarà degli elettori superstiti (malgrado tutto quasi sei milioni), a cui nessuno sembra badare? Infine, esiste un nesso tra la comprensione tattile di Mattarella per Di Maio e l’odio nel Pd? Ora mi chiedete troppo.

Repubblica 7.4.18
Il congresso
I massoni: “Da noi non si entra con un clic, controlliamo tutti”
L’incontro annuale del Grande Oriente d’Italia: “Il governo? Speriamo si faccia l’interesse dei cittadini”
di Rosario Di Raimondo


RIMINI Uno spettro s’aggira tra gli stand che vendono squadre e compassi. Anzi, due. Perché non bastava «l’inquisizione» della commissione parlamentare antimafia, come la definiscono qui, che ha messo il naso negli elenchi degli iscritti alle logge. Ora c’è pure il senatore dei 5 Stelle che vuole vietare ai dipendenti pubblici di indossare il grembiule. Roba da matti, mormorano i fratelli, una legge « fascista » , «un attacco alla democrazia » . Tremila massoni del Grande Oriente d’Italia si riuniscono al Palacongressi di Rimini fino a domenica. In tutto sono 23mila, affiliati in 858 logge. Preferirebbero un dito in un occhio, i venerabili, piuttosto che parlare di politica. Il gran maestro Stefano Bisi, la carica più alta, dice soltanto: «Spero che l’Italia possa avere un governo che faccia gli interessi dei cittadini» . Di che colore non è affar nostro.
L’affiliato Giovanni ha guidato il suo furgone per dodici ore di fila. « Mille e sessanta chilometri da Messina a qui», racconta fiero mentre mostra la sua mercanzia: dei vetri coi disegni di Pinocchio e Topolino, perché «pure gli autori di questi personaggi erano massoni!». Nello spazio a fianco i suoi colleghi vendono gli attrezzi del mestiere: grembiuli, spade, guanti, la felpa personalizzata col nome della loggia preferita e il “collare” per sentirsi venerabili maestri. I librai espongono volumi come Sciamanesimo dei nativi siberiani e Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz. Uno scrittore definisce i suoi romanzi « ad alto tasso di esoterismo».
Però c’è ben poco da scherzare. Soprattutto se si parla di politica. Qui tira una brutta aria. A dicembre la commissione guidata da Rosi Bindi svela che quasi duecento fratelli siciliani e calabresi sono in odor di mafia. Comincia un lungo braccio di ferro per ottenere i nomi degli affiliati alle logge. Stefano Bisi, sessant’anni, ex giornalista, si difende: « Si parla di 193 mafiosi ma nel computo ci sono pure gli assolti, i prosciolti e quelli che noi abbiamo respinto. È una caccia all’uomo. Ma da noi non si entra con un clic, bisogna avere la fedina penale pulita».
E ora pure l’altra grana, di cui gli uomini in giacca, cravatta e grembiule parlano durante la pausa caffè. Il senatore M5s Elio Lannutti vuole che chi esercita pubbliche funzioni non possa iscriversi. « Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica e massone, non avrebbe insegnato all’università. E il gendarme eroe che in Francia si è offerto come ostaggio al posto di una donna non avrebbe lavorato nella polizia » , continua Bisi.
Il “ tempio” del Grande Oriente, luogo di culto per i massoni, è un enorme stanza piena di simboli della tradizione. Il sole e la luna, l’occhio, il cielo stellato, il pavimento a scacchi. Qui i massoni si riuniscono anche quest’anno. Tra gli ospiti d’onore c’è Daniele Capezzone, ex parlamentare di Forza Italia. Qui è considerato un paladino della libertà.

Il Fatto 7.4.18
Due partiti in un corpo solo: i dem esplodono
La minoranza - Orlando sfida l’ex premier: “O lascia lavorare Martina, o ritira le dimissioni”
Andrea Orlando, ministro della Giustizia, all’attacco frontale a Renzi
di Wanda Marra


Maurizio Martina offre “collegialità” e chiede “idee prima di tutto”. Esattamente le due caratteristiche antitetiche al Pd, che dopo il primo giro di consultazioni fa registrare il suo “plot” più consueto: tutti contro tutti, in un caos di dichiarazioni, riunioni di corrente, iniziative pubbliche, nelle quali ciascuno segue la sua linea.
Comincia Andrea Orlando, in mattinata: “Renzi deve decidere: se ritiene che la colpa della sconfitta non è la sua, può ritirare le dimissioni. Altrimenti deve consentire a chi pro tempore ha avuto l’incarico di poterlo esercitare”. Il riferimento è soprattutto alla riunione con i fedelissimi fatta da Matteo Renzi, nell’ufficio delle società di Andrea Marcucci. Una sorta di segreteria ombra da opporre a Martina e ai big insieme ai quali si muove in questo momento (dallo stesso Guardasigilli a Franceschini). Obiettivo: trovare una strategia per evitare di perdere definitivamente il Pd. A Orlando seguono tweet e dichiarazioni delle rispettive tifoserie. Il moderato Lorenzo Guerini minimizza così le riflessioni dell’ex segretario: “Discutere se arrivare in assemblea con la decisione di indire il congresso o con l’elezione di un nuovo segretario è rispetto dello Statuto”.
Indire subito il congresso, però, significa non avere un segretario nella pienezza dei suoi poteri nella fase della formazione del governo. Anche perché Renzi per l’Assemblea del 21 non ha un candidato: non Graziano Delrio, non lo stesso Guerini. Indisponibili (almeno per ora). Non Matteo Richetti, né Debora Serracchiani che vogliono correre a eventuali primarie. E allora, c’è pure chi pensa a Ettore Rosato, vicepresidente della Camera. Ma l’ex premier non ha un nome vero né per adesso né per dopo. “Per fare un altro partito servono uomini e idee. Cose che non si trovano facilmente”, commenta un parlamentare che sarebbe renziano. Spie del fatto che l’area dell’ex premier potrebbe rapidamente sfaldarsi.
Indizio: martedì è stata convocata l’Assemblea dei gruppi per discutere la linea da portare al Colle. L’incontro viene definito come una banale informativa. Ma se si dovesse arrivare a una conta, si capirà esattamente quale percentuale dei gruppi ancora controlla l’ex premier. E ancora: oggi a Roma ci sono due iniziative. Una di Richetti all’Acquario, l’altra dei giovani Dem, promossa da quel Peppe Provenzano che rifiutò il posto in lista in Sicilia dietro a Daniela Cardinale. Presenti Orlando e Gianni Cuperlo. Martina andrà a tutte e due: tentativi di allargare il fronte dell’opposizione interna a Renzi.
La corrente di Michele Emiliano, intanto, con Francesco Boccia fa sapere di “star valutando” un suo candidato per l’Assemblea nazionale.
Nel gioco dei sospetti reciproci, ognuno accusa gli altri di parlare col nemico di turno: Renzi fa denunciare un giorno sì e l’altro pure la trattativa con Di Maio di Franceschini e soci. Orlando ieri ci ha tenuto a dire che la proposta di Di Maio è “irricevibile”. A Martina tocca rintuzzare le goffe avances di Danilo Toninelli condite di insulti: “Leggo che il capogruppo al Senato del M5S ritiene il Pd ‘responsabile del fallimento delle politiche di questi anni’. Queste parole dimostrano l’impossibilità di un confronto”. Nonostante gli abboccamenti reciproci, insomma, in campo ad oggi c’è al massimo un governo istituzionale.
Mentre gli anti-renziani sono convinti che l’ex segretario sia pronto a dare l’appoggio esterno dei suoi a un governo di centrodestra, magari guidato da Giancarlo Giorgetti, numero 2 della Lega. D’altra parte qualche contatto tra i due Matteo, Salvini e Renzi, c’è anche in questi giorni nonostante le dichiarazioni pubbliche. Per ora, però, l’ex premier pare soddisfatto dell’arrocco del Pd che – a suo dire – mette in evidenza i problemi dei “vincitori”. E infatti ha promesso silenzio fino all’Assemblea.

Repubblica 7.4.18
Di Maio
“Al Pd dico: sotterriamo l’ascia di guerra e diamo un governo al Paese”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Luigi Di Maio, lei è uscito dallo studio di Sergio Mattarella formalizzando una proposta a due forze alternative: la Lega e il Pd. Ma come può pensare di andare al governo indistintamente con chi è per i vaccini e chi è contro; chi sostiene la Russia di Putin e chi espelle due suoi diplomatici; chi è pronto a uscire dall’euro, e chi non ci ha mai pensato?
«Non mi risulta che le posizioni delle due parti siano queste. In ogni caso, il governo si fa per risolvere i problemi concreti della gente e abbiamo il dovere di provarci partendo dalla situazione uscita dalle urne: forze politiche distanti, ma che devono trovare una sintesi su temi cruciali, portando ognuna le proprie soluzioni e proposte. Con chi troveremo le convergenze maggiori, lavoreremo».
Ma come si fa ad aprire contemporaneamente a due forze opposte?
«Lega e Pd non devono sentirsi sullo stesso piano. So di parlare a due forze politiche profondamente diverse».
Che vuol dire che non sono sullo stesso piano? Con una delle due si possono trovare più convergenze?
«Non è quello che intendevo».
Crede che le politiche sull’immigrazione del Pd e quelle di Salvini siano scambiabili?
«Il punto non è questo, ognuno porta le sue idee, il contratto si scrive insieme. Per questo ci sediamo intorno a un tavolo, per ragionare e trovare insieme una sintesi che serva a dare risposte e non a scontrarsi muro contro muro».
In campagna elettorale il Movimento ha usato un linguaggio sferzante nei confronti del Pd e di Renzi.
Perché il Pd dovrebbe aprire?
«Io non sto rinnegando le nostre idee né le critiche che in più momenti abbiamo espresso anche aspramente nei confronti del Pd, e che anche il Pd non ci ha risparmiato. Credo però che ora il senso di responsabilità nei confronti del Paese ci obblighi tutti, nessuno escluso, a sotterrare l’ascia di guerra. A noi viene chiesto l’onere di dare un governo al Paese, ma tutti hanno il dovere di contribuire a risolvere i problemi della gente e di mostrare senso di responsabilità».
Immagini che Martina si sieda al tavolo con lei per discutere di un governo e le chieda di confermare Jobs Act e Buona scuola: come risponderebbe?
«Che se rimaniamo ognuno sulle proprie posizioni non si va da nessuna parte. Renzi stesso ha ammesso che la buona scuola non ha funzionato del tutto e doveva essere migliorata. Io credo che ci potranno essere molte più convergenze di quel che si crede».
In questi giorni ha parlato con Martina. Cosa vi siete detti?
«Ci siamo sentiti in occasione dell’elezione del presidente della Camera ed è sempre stato un confronto franco. Martina è una persona con cui si può parlare e spero che il Pd si sieda al tavolo».
Perché ha tolto il veto su Renzi? È stato un segnale nei confronti del capo dello Stato?
«Io non ho mai posto veti o parlato di Pd “derenzizzato” come qualcuno ha scritto. Quello che abbiamo sempre contestato è la linea di totale chiusura decisa dal Pd all’indomani delle elezioni. Oggi il nostro appello sincero a mettere da parte le asperità per il bene del Paese è il segnale che gli italiani ci chiedono per dimostrare che siamo una forza politica all’altezza della situazione complessa nella quale ci troviamo e capace di governare».
Per anni avete presentato ogni alleanza con la parola inciucio, è per questo che siete così spaventati da quella parola e parlate di contratto? Ci spiega la differenza?
«Le alleanze per anni sono state il mettersi insieme per autoconservarsi e autotutelarsi.
Stiamo proponendo invece di mettere al centro solo ed esclusivamente l’interesse dei cittadini. Il contratto è una garanzia in questo senso: dentro ci mettiamo le cose da fare per le persone fuori dai palazzi, e non quelle dentro i palazzi. E quelle cose facciamo».
Cosa ritiene irrinunciabile in questo contratto?
«Mi interessa mettere al centro le risposte più urgenti alle grandi emergenze del Paese, le stesse che ho ascoltato mille volte anche durante il lungo tour che ho fatto in campagna elettorale: lotta alla povertà e alla corruzione, il lavoro, le pensioni, un fisco più leggero e una pubblica amministrazione che agevola e non ostacola i cittadini e le imprese. E poi sostegno alle famiglie e naturalmente lotta agli sprechi e ai privilegi della politica».
Il reddito di cittadinanza è diventato più genericamente “misure contro la povertà”.
Avete rinunciato?
«Il reddito di cittadinanza tiene insieme strumenti per la lotta alla povertà, ma anche per la lotta alla disoccupazione e per rimettere in moto il lavoro, partendo dalla riforma dei centri per l’impiego».
Ha parlato di un contrasto non personale, ma politico, con Forza Italia. Accettereste i suoi voti se Berlusconi facesse un passo indietro?
«Forza Italia è Berlusconi. E Berlusconi rappresenta il passato.
Poteva cambiare l’Italia e non lo ha fatto. A noi non interessa rimanere fermi o guardare indietro, vogliamo guardare al futuro».
E però Berlusconi, Salvini e Meloni andranno uniti alle consultazioni. Negando quel che lei ha detto davanti al capo dello Stato, che non esiste un centrodestra unito.
«Salvini sta scegliendo la restaurazione invece della rivoluzione. Il segretario della Lega in questo modo sta chiudendo tutto il centrodestra nell’angolo. E rischia di condannarsi all’irrilevanza».Cosa apprezza di Salvini?
«Ha dimostrato di saper mantenere la parola data, ora vediamo se avrà la forza di dimostrare la sua autonomia politica da Berlusconi».
Lei dice di sentirsi legittimato da 11 milioni di elettori e di aver diritto alla premiership, ma non ha i numeri in Parlamento. Il Quirinale ha detto chiaramente che non ci sono vincitori.
«In Germania la Merkel governa con il 32%. In Francia Macron è il presidente con il 24% al primo turno. Insomma è evidente che in Italia si sono inventati una legge elettorale che doveva metterci in difficoltà. Ma resta un fatto: siamo la prima forza politica e quasi doppiamo la seconda. Cioè, gli elettori hanno dato un segnale fortissimo. Uno tsunami, avremmo detto qualche anno fa. Questo urlo di cambiamento va assolutamente ascoltato».
Se l’unica strada per andare a un governo fosse un suo passo indietro?
«Questo Paese ha avuto tantissimi presidenti del Consiglio che hanno preso zero voti dagli italiani. Ora c’è un candidato premier che ne prende 11 milioni e la prima cosa che si chiede è che si faccia da parte?».
Il governatore della Liguria Giovanni Toti dice che serve un “accordo minimo”. Ritiene possibile un governo a tempo?
«Non risolverebbe nulla».
Si è detto che il limite del secondo mandato per i parlamentari M5S non sarà applicato se la legislatura durerà poco. È così?
«Io non credo che si tornerà alle urne a breve, il tema non è all’ordine del giorno».
Il premier Paolo Gentiloni ha rimandato la presentazione del Documento di programmazione economica e finanziaria.
Immagini di essere a Palazzo Chigi: cosa c’è nel Def di Di Maio?
«Misure per rilanciare una crescita economica sostenibile, rispettosa del benessere sociale dei cittadini, ma tenendo il rapporto deficit pil all’1,5%».
Salvini propone di togliere le sanzioni alla Russia. È d’accordo?
«Ora è il momento in cui tutti sentiamo una responsabilità più grande. Sono certo che le posizioni di tutti potranno essere volte alla cooperazione tra nazioni su ogni decisione».
Somiglia a più a no. E cosa pensa dei dazi cari a Trump e ventilati anche dalla Lega?
«Il protezionismo ideologico non è la soluzione e non ci interessa, ma qualche intervento selettivo e temporaneo può servire per proteggere lavoratori e imprese dai costi della globalizzazione. Ci muoveremo con pragmatismo a seconda del contesto internazionale».
Nell’ottica della democrazia diretta, perché non far decidere agli iscritti sul blog con chi stringere il patto di governo?
«Per tutta la campagna elettorale ho detto che se non avessimo avuto i numeri per governare da soli avrei fatto appello a tutte le altre forze politiche per parlare di temi e così ho fatto».
Davide Casaleggio nega conflitti di interessi, ma voi siete legati per statuto praticamente immodificabile all’Associazione Rousseau. Quell’associazione è nelle mani del capo di una società privata che persegue i suoi interessi, anche commerciali. E nessuno ha eletto Casaleggio, che ricopre nel Movimento una posizione centrale e non contendibile.
Come fa a dire che non c’è conflitto?
«Davide Casaleggio non assume decisioni politiche».
Ma lei si consulta con lui anche su quelle, o no?
«Assolutamente no».
Con le nuove regole lei può decidere tutto, anche sulla guida dei gruppi parlamentari. Siete passati dall’uno vale uno all’uno vale tutti?
«Non è così. Semplicemente, alcune decisioni spettano al capo politico».
Dopo questo primo giro di consultazioni, vede la possibilità di un ritorno al voto più o meno probabile?
«Il M5S non avrebbe nulla da perdere se ora si tornasse a votare, anzi. Ma noi vogliamo dare un governo a questo Paese».

Il Fatto 7.4.18
Meno di venti deputati
Lunedì si decide se dare a LeU la deroga per fare un gruppo


Nelle scorse legislature è stata praticamente sempre concessa e chissà che lunedì non arrivi anche per gli eletti di Liberi e Uguali: una deroga al Regolamento della Camera, secondo il quale si può costituire un gruppo parlamentare se vi sono almeno 20 aderenti. Quelli di LeU ne hanno solo 14 (tra cui l’ex presidente della Camera Laura Boldrini) ma non vogliono rimanere nel calderone del gruppo misto. Così hanno chiesto all’ufficio di presidenza di Montecitorio di fare un’eccezione. Lunedì alle 17 la questione verrà esaminata. In passato i Cinque Stelle si sono più volte espressi con toni critici rispetto alle deroghe concesse, mentre la Lega nella scorsa legislatura aveva essa stessa ottenuto una deroga per i 19 deputati del Carroccio. Insieme al partito di Matteo Salvini la ottennero Sinistra Italiana (17), i Civici e innovatori (16), Scelta civica-Ala-Maie (16), Democrazia solidale–Centro democratico (14) e Fratelli d’Italia (11). Oltre a una cospicua serie di benefici (risorse economiche, personale, tempi per gli interventi in Aula) il Rosatellum prevede anche che le forze politiche che sono state rappresentate in un gruppo parlamentare, possono presentarsi alle elezioni senza dover raccogliere le firme.

Repubblica 7.4.18
L’analisi
La sfida persa della sinistra
di Emanuele Felice


La sinistra riformista è ai minimi storici un po’ dappertutto, non solo in Italia. Circola in proposito una spiegazione quasi fatalista, auto-assolutoria per gli sconfitti. La globalizzazione ha inevitabilmente colpito i ceti popolari, i più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti e alle conseguenze dell’immigrazione: è naturale che abbiano votato per chi promette di ristabilire le antiche sovranità. Ma questa diagnosi tralascia un punto importante. Il riformismo perde perché non ha saputo gestire la globalizzazione, rinunciando alla sua vocazione: trasformare la società con la politica. Ed è vero che è un problema non solo italiano.
L’errore di fondo risale agli anni Ottanta: è stata la liberalizzazione totale dei movimenti di capitale, anche quelli speculativi. Può sembrare una questione tecnica, o per addetti ai lavori, ma a ben vedere è da lì che discendono le disuguaglianze crescenti nei paesi avanzati e la difficoltà, per i singoli governi, di attuare politiche redistributive. Quella liberalizzazione è stata promossa dalla destra reaganiana e thatcheriana, ma sarebbe stata condivisa anche dalle forze riformiste, che non vollero cambiarla quando, negli anni Novanta, si ritrovarono quasi ovunque al governo: complice il clima generale dell’epoca, si lasciò che la finanza internazionale, senza più vincoli, diventasse più potente della politica.
Oggi ci vorrebbe un accordo, in sede di G20, per un nuovo sistema finanziario internazionale che, proprio come avveniva ai tempi di Bretton Woods ( 1944- 1971), ponga vincoli globali ai movimenti di capitale a breve termine; favorendo gli investimenti produttivi e permettendo ai singoli Stati (o magari all’Unione europea) di poter tornare a fare politiche redistributive senza la minaccia di una fuga di capitali. Non a caso l’epoca di Bretton Woods vide il miracolo economico e la nascita dei moderni “welfare states”. Si noti che, storicamente, queste sono le idee proprie della sinistra riformista e del liberalismo democratico: quelle di Keynes, per esempio, l’economista liberale che più di tutti contribuì a disegnare il mondo di Bretton Woods; o di quei filosofi politici che sin dall’Illuminismo mettono in guardia sui rischi (per la libertà di tutti) che comporta l’accumulo di potere nelle mani di pochi, senza adeguati controlli.
Il secondo errore consiste nel non aver saputo dare unità politica all’Europa. Anche questo era un compito soprattutto della sinistra, delle forze che dovrebbero rappresentare il mondo del lavoro: in uno spazio dove si possono muovere liberamente i fattori della produzione, ma le normative nazionali rimangono differenti, è il capitale a guadagnarci, mentre le politiche redistributive escono perdenti. È evidente quindi che l’unione commerciale e monetaria doveva completarsi nell’unione fiscale e politica. Invece sono passati vent’anni dall’entrata in vigore dell’Euro e ancora i partiti e le forze di sinistra si muovono quasi esclusivamente dentro logiche nazionali. Ne abbiamo avuto un assaggio anche nelle ultime elezioni in Italia, dove i richiami all’Europa sono rimasti confinati al campo della retorica o dell’idealità. Pesa su questo il portato di strutture di consenso e culture di riferimento che sono anch’esse nazionali, influenzando la formazione e l’agire delle classi dirigenti. Ma in questo modo la sinistra tradisce la sua storia e la sua missione. La globalizzazione, che aiuta a superare le barriere fra gli esseri umani, è nel Dna della sinistra: la sfida è saperla governare, per ridurre le disuguaglianze.

Il Fatto 7.4.18
Ora Alitalia vola con i soldi che deve ai suoi dipendenti
La denuncia - La compagnia non versa o versa poco al fondo di solidarietà pagato dai passeggeri. Risultato? Meno cassa integrazione per gli addetti
di Daniele Martini

“Non abbiamo toccato i 900 milioni di euro di prestito che il governo aveva concesso un anno fa all’Alitalia”, ripetono i tre commissari straordinari della compagnia, Luigi Gubitosi, Stefano Paleari ed Enrico Laghi, volendo suggerire che sono bravi e meritano gli applausi. Forse hanno ragione, anche se bisogna credere sulla parola a quel che dicono perché le informazioni ufficiali da Fiumicino al momento latitano e non c’è alcuna documentazione contabile a supporto di affermazioni del genere.
Di sicuro Alitalia in questi mesi si è di fatto finanziata con i soldi dei dipendenti, gli oltre 10 mila addetti in cassa integrazione a rotazione e i 300 a zero ore (giovedì la durata della Cassa è stata prorogato di altri 6 mesi). È paradossale, ma è così. Ogni mese molti lavoratori Alitalia riscuotono meno di ciò che per legge dovrebbero percepire. Nel frattempo Alitalia non versa o versa a spizzichi e con estremo ritardo ciò che dovrebbe dare a un Fondo di solidarietà del trasporto aereo, istituito a suo tempo proprio per accrescere gli importi della cassa integrazione normale. Non si tratta di spiccioli, ma di cifre nel complesso rilevanti: da almeno 36 milioni di euro secondo i calcoli più prudenti fino a oltre 70 da maggio a dicembre 2017, senza contare i tre mesi dell’anno in corso.
Tra i diretti interessati tutti conoscono quest’andazzo, dall’Inps ai ministeri dei Trasporti e dell’Economia, fino all’Enac, l’Ente dell’aviazione civile: tutti informati in via ufficiale della vistosa anomalia. Anche i sindacati sono ovviamente al corrente del trattamento riservato ai lavoratori, ma si voltano dall’altra parte, come dovessero rispettare un tacito accordo. Solo il Cub-Confederazione unitaria di base dei Trasporti di Antonio Amoroso sta rompendo il circolo vizioso del silenzio con un esposto di 6 pagine all’Ispettorato del lavoro di Roma e alla Procura della Repubblica di Civitavecchia, competente per territorio sulle vicende dell’azienda aerea di Fiumicino.
Il dirigente sindacale chiede all’autorità giudiziaria di “accertare e valutare se nel comportamento dei commissari e dei dirigenti Alitalia sia riscontrabile un’ipotesi di responsabilità contabile ovvero di peculato d’uso nell’ipotesi di accertato uso momentaneo e/o di mancato riversamento tempestivo del denaro pubblico”.
Sentita dal Fatto, Alitalia riconosce che “con l’apertura dell’amministrazione straordinaria il processo di pagamento ha subito un iniziale, fisiologico, rallentamento che tuttavia” sarebbe “ormai superato e i pagamenti in corso”.
Il Fondo di solidarietà del trasporto aereo è costituito presso l’Inps e alimentato in piccola parte da un contributo pagato dai datori di lavoro (0,375 per cento), dai lavoratori (0,125 per cento), e in misura preponderante con la cosiddetta addizionale comunale sui diritti di imbarco pagata dai passeggeri in partenza dagli aeroporti italiani. Funziona così: il passeggero acquista il biglietto di una compagnia, non solo Alitalia, ma pure Ryanair, Lufthansa eccetera, e una parte del prezzo viene versata dalla compagnia stessa al gestore dell’aeroporto che a sua volta la gira in qualità di semplice agente contabile al Fondo di solidarietà e in parte minore ai comuni sede di aeroporto e ai vigili del fuoco.
Istituito dalla legge finanziaria del 2004 il Fondo è stato ritoccato una decina di volte nel corso del tempo, 14 anni fa l’addizionale era di appena 1 euro, oggi è di 6,5 euro in tutti gli aeroporti italiani e 7,5 euro a Fiumicino e Ciampino. Al Fondo vanno 5 euro a biglietto negli scali nazionali e 6,5 euro in quelli romani.
Come riportato anche dall’agenzia specializzata Avionews, Alitalia da tempo non è in regola: o non versa del tutto o versa con estremo ritardo, ben oltre i tre mesi di dilazione consentiti dalle norme. La vicenda dei pagamenti irregolari di Alitalia fu rivelata dal Fattoquotidiano.it il 25 maggio di un anno fa. Il sito online del nostro giornale scrisse che Alitalia non stava pagando i diritti di imbarco in numerosi aeroporti italiani e che i gestori di questi ultimi minacciavano di bloccare sulle piste gli aerei della compagnia italiana. Il 2 luglio Alitalia comunicò agli aeroporti che avrebbe pagato e così è stato, dai versamenti ha escluso però le addizionali comunali, cioè soprattutto i soldi per il Fondo di solidarietà.
Prima della fine dell’anno la maggior parte dei gestori aeroportuali ha segnalato ufficialmente l’anomalia a tutti i diretti interessati, dall’Inps fino ai ministeri. Ma poco o niente è cambiato.

La Stampa 7.4.18
“È ora che il parlamento italiano riconosca il genocidio armeno”
Il presidente della Repubblica Sargsyan in visita istituzionale a Roma
“So che Mattarella vuole rendere omaggio alle vittime a Erevan ”
di Francesco Semprini


«I negoziati sul Nagorno Karabakh oggi non vanno avanti perché le aspettative dell’Azerbaijan non sono realistiche». È perentorio il presidente della Repubblica di Armenia, Serzh Sargsyan, dopo la sua visita istituzionale tra Vaticano e Roma.
Presidente, in occasione dei suoi incontri istituzionali quale messaggio ha portato e quali indicazioni ha avuto sulle principali tematiche del suo Paese, a oltre un quarto di secolo dall’indipendenza?
«Giovedì assieme al Papa abbiamo partecipato all’inaugurazione della statua di San Gregorio di Narek in Vaticano, proclamato dottore della Chiesa universale, un riconoscimento per la conservazione del patrimonio cristiano svolto dal popolo armeno. Dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ho appreso con piacere che sta programmando una visita in Armenia. Con i rappresentanti delle due Camere abbiamo sottolineato l’importanza dello sviluppo dei rapporti interparlamentari, soprattutto perché nell’ambito della nostra transizione a repubblica parlamentare ci siamo ispirati anche al modello italiano».
Ha incontrato anche leader delle formazioni politiche?
«Certamente, abbiamo avuto modo di parlare con le alte rappresentanze dei partiti. Sono molto contento nel constatare che anche loro, nel prossimo futuro, visiteranno l’Armenia. Siamo incoraggiati vista la posizione di queste personalità nei confronti del Paese».
Il presidente dell’Artsakh, Bako Sahakyan, ha chiesto all’Italia, in quanto presidente di turno dell’Osce, di fare quello che i predecessori non hanno mai fatto, ovvero recarsi in Nagorno Karabakh, lei cosa ne pensa?
«Il Nagorno Karabakh è una questione imprescindibile. Devo sottolineare che sia il presidente Mattarella sia la Presidente del Senato, Casellati, sostengono il formato dei copresidenti del gruppo di Minsk dell’Osce. C’è poi l’Accordo di partenariato globale e rafforzato tra l’Ue e l’Armenia che contiene per l’Artsakh le stesse definizioni utilizzate dai co-presidenti del gruppo di Minsk sul rispetto di tre principi base per la soluzione del conflitto. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, uguaglianza dei diritti ed autodeterminazione, integrità territoriale degli stati. Intesa che, dopo la ratifica, diventerà legge per tutti i Paesi Ue. I negoziati oggi non vanno avanti perché le aspettative dell’Azerbaijan non sono realistiche. L’Ue deve convincere Baku a rinunciare alle illusioni, in quel caso il gruppo di Minsk sarà efficiente. In questo senso ho chiesto al presidente Mattarella di sollecitare Bruxelles».
Potrebbe essere l’inizio di un processo per il riconoscimento dell’Artsakh?
«Certamente, il riconoscimento presuppone la sicurezza, quando questa sussisterà saremo i primi a riconoscere l’indipendenza dell’Artsakh. Farlo ora significherebbe interrompere i negoziati, la cosa importante è il riconoscimento da parte di Baku».
Aliyev però non appare collaborativo, anzi.....
«Non è la prima volta che Aliyev ricorre a toni aggressivi e non è il primo presidente azero a farlo. I suoi predecessori usavano spesso dire “tra una settimana andremo a prendere il tè a Stepanakert”. Per fortuna non è andata così. Un politico non dovrebbe mai porsi traguardi complicati da raggiungere, perché si fa male da solo. Quando Aliyev infine dichiara che il territorio storico dell’Armenia è in realtà un territorio dell’Azerbaijan, deve sempre ricordare che lo Stato dell’Azerbaijan è apparso per la prima volta sulla mappa politica cento anni fa, invece noi il prossimo autunno celebreremo i 2800 anni dalla fondazione della capitale Erevan».
Riguardo al genocidio, nel Parco del Memoriale del Genocidio “Tsitsernakaberd” i leader del mondo piantano alberi in omaggio alle vittime. Lo hanno fatto, tra gli altri, Giovanni Paolo II, Jacques Chirac, Vladimir Putin, ma non c’è nessun nome di presidenti italiani. Come mai?
«Perché in questi 25 anni nessun presidente italiano ha fatto visita all’Armenia. Io spero che con l’arrivo del Presidente Mattarella si aggiunga un altro albero. Questo sarebbe un importante messaggio politico, ma la decisone del riconoscimento del genocidio armeno deve essere presa dal Parlamento. Gli italiani hanno dato un grande contributo allo sviluppo dell’umanità, mentre il genocidio ne è la sua negazione».

Repubblica 7.4.18
L’iniziativa del re-sacerdote di Benin City
L’editto annulla il ricatto voodoo “ Libere in Italia le schiave nigeriane”
di Alessandra Ziniti


ROMA I video corrono di telefonino in telefonino. Chi non crede alle notizie che arrivano da Benin City può vederlo e sentirlo Oba Eware II mentre, davanti ad una platea di sacerdoti in rosso e di madri e nonne esultanti, pronuncia il solenne editto di annullamento di ogni giuramento dei riti voodoo e una potente fatwa contro chi gestisce la tratta delle donne nigeriane.
Libere, sono tutte libere dal ricatto che le aveva rese schiave del sesso nelle strade e nelle case d’Italia e d’Europa. Libere le ragazze arrivate convinte di fare le babysitter o le parrucchiere e finite invece nel giro miliardario della prostituzione per pagare il debito contratto per il viaggio, e libere persino le “maman”, le più grandi, che alla fine hanno accettato di trasformarsi da sfruttate in sfruttatrici e che adesso temono di incorrere nella maledizione del re-sacerdote.
A centinaia, nelle ultime settimane, stanno scappando dalle case in cui, sotto il ricatto del rito voodoo, sono costrette a prostituirsi, cercando aiuto e assistenza nelle tante associazioni che lavorano a difesa delle donne vittime di tratta.
Sempre di più, sempre più giovani, sempre più schiave. E ora in fuga dai loro aguzzini che non hanno più in mano la formidabile arma di una inossidabile credenza religiosa per alimentare il loro lucroso business.
«È una svolta storica, sta succedendo una cosa importantissima in Italia così come in molte altre città d’Europa — racconta da Londra Esohe Aghatise, presidente della associazione Iroko di Torino che fa parte della task force messa su dal re di Benin City nello stato di Edo da cui proviene il 95 per cento delle vittima di tratta — Da giorni siamo subissati da telefonate di ragazze, molte delle quali minorenni, che ci chiedono aiuto e assistenza. La maggior parte sono in fuga, altre sono state cacciate dalle case in cui venivano tenute prigioniere per prostituirsi e adesso non sanno dove andare. Chi può trova ospitalità temporanea in casa di amiche, ma sono tante e non c’è posto per tutte e allora si arrangiano a dormire in strada o nelle stazioni. Noi facciamo quel che possiamo ma non abbiamo né risorse né posti a disposizione per rispondere a tutte le richieste che ci stanno arrivando».
Il passaparola corre velocissimo.
I volontari delle associazioni ne trovano ogni sera decine nei loro giri notturni nelle stazioni, nei parchi, sotto i portici dei centri storici. Disorientate e impaurite da una libertà a cui avevano ormai rinunciato, senza documenti e senza alcuna idea di cosa fare. Le più coraggiose, temendo di essere raggiunte e riacciuffate dai connazionali che gestiscono un giro d’affari internazionale da trenta miliardi di dollari l’anno, si sono presentate in uffici di polizia per denunciare ottenendo la protezione prevista dalla legge.
Ma sono ancora poche. «Noi stiamo spiegando a tutte che possono denunciare chi le ha sfruttate — dice ancora Esohe Aghatise — ma non sono molte quelle che si sono convinte a farlo. Hanno paura. Ma questa è una paura che si può vincere.
Nulla a che fare con l’enorme pressione psicologica che esercita su di loro il rito a cui sono state sottoposte prima di partire ( il taglio di unghia, capelli e peli che vengono uniti a foto dei familiari e consegnati ad una sorta di santone), che è indissolubile, e che fa sì che non ci sia bisogno di nessun controllo fisico per tenerle legate ai trafficanti».
Da 20.000 a 50.000 euro. A tanto ammonta il debito che le ragazze ( la cui età nell’ultimo anno si è abbassata fino ai 13 anni) portate in Italia sono chiamate a restituire prostituendosi fino a dieci ore al giorno con prestazioni sessuali pagate anche solo 20 euro. Un debito adesso azzerato dall’editto del re-sacerdote, già ambasciatore nigeriano in Italia e Svezia, che con la sua iniziativa storica ha eliminato il ricatto su cui si basa il traffico che negli ultimi tre anni ha fatto segnare un aumento del 600 per cento degli sbarchi di ragazze nigeriane in Italia, più di 15.000 solo l’anno scorso. Un numero che l’editto sembra destinato ad abbassare drasticamente. Di più: le ragazze adesso, dopo aver provato sulla loro pelle qual era il vero destino riservato loro in Europa, vogliono tornare a casa. «Oba Eware II — spiega ancora la presidente dell’Associazione Iroko — sta favorendo i rimpatri. Con le risorse che ha a disposizione ha promesso un sussidio di tre mesi, l’ospitalità in comunità, corsi di formazione e avviamento al lavoro. Noi siamo qui per dare appoggio a chi vuole rientrare in Nigeria volontariamente.
Purtroppo non abbiamo mezzi e per questo facciamo un appello al governo italiano perché ci aiuti.
Sarebbe anche nell’interesse dell’Italia aiutare chi vuole tornare a casa in modo dignitoso».

Repubblica 7.4.18
Mengele, l’angelo della morte che visse due volte
di Susanna Nirenstein


Il romanzo di Olivier Guez sulla fuga del medico nazista
Per tre anni Olivier Guez , ebreo, giornalista, sceneggiatore nato a Strasburgo nel 1974, esperto di Germania nel dopoguerra, si è svegliato ogni mattina pensando a Josef Mengele; ha vissuto, rivendica, con questo criminale nazista di una mediocrità abissale, lottando contro lui e gridando il suo nome nella notte. Quel che voleva fare era rintracciare, in fondo alla sua fuga infinita, la psicologia del medico tedesco che per due anni, dal maggio ’43 al 17 gennaio ’45, ha incarnato il processo delle selezioni sulla banchina ferroviaria di Auschwitz, scegliendo chi mandare a morte nelle camere a gas e chi spedire ai lavori forzati, vagliando i convogli in entrata per scoprire eventuali gemelli con l’ordine Zwillinge heraus! (gemelli un passo avanti), la sua ossessione, visto che voleva scoprirne, quale medico primario di Birkenau, il segreto genetico per aumentare la prolificità della pura razza germanica. Bambini e adulti su cui sperimentò tutto, compreso il cambio dei colore degli occhi e l’unione dei corpi con organi in comune formando dei siamesi artificiali, o monitorando la morte per fame di neonati, uccidendoli alla fine dei suoi test con una iniezione di fenolo nel cuore, cercando anche individui con anomalie fisiche che potessero essere utilizzati per ricerche: questi ultimi dopo esser stati visitati venivano uccisi a colpi di arma da fuoco, i loro corpi dissezionati, le ossa inviate a Otmar von Verschuer, direttore dell’Istituto per la ricerca biologico-razziale che a fine guerra tornò in cattedra. Il loro scopo era dimostrare che la superiorità dei nordici era dovuta a fattori di ereditarietà. Mengele non è finito mai nelle mani dei cacciatori di nazisti e da questo libro capiamo tappa per tappa come ha fatto. Le connivenze, la famiglia alle spalle. Il governo tedesco nel 1956 gli ridette addirittura il suo documento di identità. La sua inafferrabilità divenne un mito ammantato di una definizione epica, l’Angelo della morte. Per Guez occorreva destrutturare la leggenda e calarsi nella sua miseria. È di pochi mesi fa il bel libro di Bettina Stangneth La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, una ricostruzione fattuale dei delitti commessi dell’ingegnere della deportazione e dello sterminio degli ebrei; ora Guez sceglie un metodo opposto, una storia documentata ma romanzata – sulle orme di A sangue freddo di Capote – che si svolge all’indomani della fuga di Mengele, dal rilascio del falso documento di identità a Termeno in Alto Adige e soprattutto dal suo viaggio sulla North King, la nave che, sotto il nome Helmut Gregor, meccanico italiano di lingua tedesca, lo porta da Genova a Buenos Aires. Gli ex camerati gli hanno promesso un arrivo facilitato in quella comunità di ex nazisti che in Argentina apre bar, giornali, locali Nuova Bavaria. Un universo protetto da Juan e Evita Perón, privilegiato e nostalgico, privo di rimorsi, che l’accoglierà, gli farà riprendere incredibilmente le sue vere generalità e lo proteggerà a lungo.
Se può essere di consolazione, la sua esistenza non sarà sempre dorata. Dalla cattura di Eichmann in poi, la fuga si farà sempre più affannata, disperata, solitaria, malata, in Paraguay prima, in Brasile poi, dove lo seguiamo passo passo. La mente malefica di Mengele è messa a nudo. Il risultato è compatto, disturbante.
Non c’è, come non ci poteva essere, redenzione.

Corriere 7.4.18
Maestri
Gillo Dorfles, la lezione infinita
A Milano l’omaggio per i 108 anni, che avrebbe compiuto questo mese
Martedì 10 aprile una serata nel Salone d’onore della Triennale: sulla torta un disegno scelto da lui prima di morire
di Aldo Colonetti


Gillo Dorfles avrebbe compiuto 108 anni il 12 aprile e per festeggiare il suo compleanno aveva già scelto un proprio dipinto da trasformare in una grande torta. La torta ci sarà e ci sarà anche l’ultimo suo libro, La mia America (Skira), alla Triennale di Milano il giorno 10, alla presenza di tutti i suoi più cari amici, perché il Palazzo dell’Arte, progettato da Giovanni Muzio, era anche un po’ la sua casa, tanto è vero che a giugno dell’anno scorso il suo penultimo saggio, Paesaggi e personaggi (Bompiani), fu al centro di una serata memorabile durante la quale improvvisò al piano a coda un piccolo concerto che stupì tutti i presenti, a cominciare dal sindaco Beppe Sala.
Ecco, direi che da questi brevi elementi di cronaca culturale emerge tutta la sua personalità, eclettica, contemporanea, aperta a tutte le discipline, attenta alla sperimentazione, curiosissima di tutto ciò che la vita gli ha offerto, ogni giorno sempre in attesa del nuovo, dell’inedito. Gillo con la sua scomparsa non ci lascia soli; basti pensare che la sua abitazione milanese, che è sempre stata anche il suo studio dove ha dialogato con tutti i protagonisti del Novecento e di questa prima parte del secolo, fino all’ultimo giorno, è piena di sorprese, di documenti, perché non ha mai voluto mettere ordine: «Sono i miei strumenti di lavoro, ho tante cose ancora da fare, archiviare è un po’ come storicizzare, trasformare un luogo vivo in un museo. No, è ancora presto, ci penseranno gli altri dopo di me».
È bello pensarsi, come noi lo abbiamo sempre pensato, «militante» nel suo significato più alto, ovvero c’è sempre qualcosa di originale in ciascuno di noi, bisogna saperlo cogliere. Per questo abbiamo ancora tantissimo lavoro da fare, non per rendere il suo pensiero e la sua vita un museo, ma per utilizzare al meglio il suo laboratorio che ci sorprenderà sempre di più, quando andremo a conoscerlo più direttamente.
Per questa ragione Gillo c’è, e lo dimostra l’ultimo volume, La mia America, curato con estrema attenzione e intelligenza filologica da Luigi Sansone, un libro che Dorfles non ha visto stampato ma che ha seguito fino in fondo, compresa la scelta della copertina, a stelle e strisce.
Il suo laboratorio è sempre stato il mondo reale, non tanto le «accademie», e lo dimostra il lungo saggio introduttivo di Sansone: Dorfles arriva negli Stati Uniti, la prima volta, il 16 settembre 1953, e viaggia da est a ovest, da nord a sud fino al 14 dicembre; la seconda volta, con una permanenza più breve, nel 1955, seguita da una serie successiva di inviti per conferenze, mostre e incontri. Gli amici che gli danno alcune dritte sono, in primo luogo, Leo Lionni e Leo Castelli, il più grande gallerista del secolo scorso, amico d’infanzia di Trieste, con cui, «dopo aver passato la giornata al Bagno Savoia, insieme a Bobi Bazlen, si andava a giocare a bocce con Italo Svevo».
Ecco, questo è Gillo; accanto alla scoperta e alla conoscenza diretta di artisti — come poi saranno i protagonisti dell’arte contemporanea americana, che sbarcheranno ufficialmente alla Biennale di Venezia solo nel 1964, in particolare il suo caro amico Robert Rauschenberg — alcune note di costume e di attenzione ai dettagli della vita quotidiana, scoprendo, come un vero «fenomenologo», anche un po’ archeologo della contemporaneità, che sono i particolari a farci riconoscere lo spirito del tempo. Un Dorfles un po’ hegeliano ma anche husserliano, come il suo grande amico Enzo Paci; visitando la casa di vetro di Philip Johnson: «Una casa dove vive da solo, con tutte le pareti di cristallo in mezzo a un magnifico bosco. Solo nel centro della grande stanza c’è un cilindro di mattoni in cui è ricavato il bagno», e subito la sua nota, «questo per fortuna chiuso!». Oppure quando, su invito di Lloyd Wright, visita il complesso di Taliesin West, in Arizona, e si sorprende, positivamente, del fatto che «alcuni locali sono davvero impressionanti tanto sono bene amalgamati con il deserto e le montagne circostanti», ma nello stesso tempo, in una lettera alla moglie Lalla, così si esprime a proposito del gusto personale del grande architetto: «Taliesin è un insieme di geniali trovate spaziali e di pessimo, indicibilmente abietto, cattivo gusto per quanto riguarda tutto quello che è furniture , decorazione e trucchi di materiali allo scoperto. Fa ribrezzo!».
Protagonista è il Dorfles che guarda altrove e già, forse, s’immagina una ricerca e un libro sul Kitsch, perché il mondo reale è un immenso laboratorio, dove la dimensione estetica ci fa capire anche l’antropologia della persona. Medico, psichiatra, più Jung che Freud, camminatore infaticabile con la mente e con il corpo, sciatore fino all’ultimo, chissà quante altre sorprese Gillo Dorfles ci offrirà in un futuro prossimo; noi saremo sempre qui in attesa di conoscere se finirà, o come si concluderà, la sua ricerca.

Corriere 7.4.18
Il musicista Usa aveva 89 anni
Addio al pianista Cecil Taylor, pioniere del free jazz
di Claudio Sessa


Dopo Ornette Coleman, scomparso nel 2015, il 5 aprile se ne è andato anche il grande pianista Cecil Taylor, l’altro «inventore» del free jazz. Aveva appena compiuto 89 anni, essendo nato a New York il 25 marzo 1929, e da qualche anno si era ritirato dall’attività, anche se continuava a essere presente sulla scena intellettuale della sua città.
Taylor aveva frequentato il New England Conservatory prima di iniziare a proporre la propria musica all’aprirsi degli anni Cinquanta, destando subito attenzione e sconcerto. La sua tecnica, nella quale si riconosceva anche l’attento studio dei compositori accademici contemporanei, era fuori discussione, ma non tutti ne coglievano il profondo legame con la tradizione del pianoforte jazz. Taylor rivendicava invece un rapporto essenziale con i maestri afroamericani: da James P. Johnson a Fats Waller, da Duke Ellington a Bud Powell e Thelonious Monk. Come Monk, esaltava la natura percussiva dello strumento; qualcuno definì il suo pianoforte «un’orchestra di ottantotto tamburi intonati». Ma Taylor intrecciava la propria musica anche ai movimenti corporei, al grande legame che il jazz ha da sempre con la danza; le sue dita si muovevano sulla tastiera come una complessa coreografia, capace di dare a ogni nota sonorità ed echi diversi.
Fu anche un grande leader e talent scout; nei suoi primi gruppi si rivelarono Steve Lacy, Bill Dixon, Archie Shepp, Roswell Rudd, più tardi i due musicisti con cui avrebbe avuto un’affermazione internazionale, Jimmy Lyons al sax alto e Sunny Murray alla batteria. Lyons rimase al suo fianco fino alla morte, nel 1986, mentre Murray fu sostituito dall’altro batterista Andrew Cyrille.
Fino agli anni Ottanta la musica torrenziale e incontaminata di Taylor ebbe poche occasioni per essere documentata discograficamente (ma ricordiamo i due classici album Blue Note, Unit Structures e Conquistador del 1966, e il piano-solo dal vivo a Montreux del 1974, Silent Tongues ). Premiato anche con il prestigiosissimo Kyoto Prize, Taylor nella sua musica ha saputo fondere per oltre mezzo secolo il senso della libertà più assoluta e la consapevolezza di una superiore, emozionante struttura complessiva.

Il Fatto 7.4.18
La 18enne rimorchiata in confessionale. “Sesso sul divanetto della sagrestia”
In cella - Don Michele Barone arrestato per violenza su minore durante gli esorcismi
di Vincenzo Iurillo


“Disse di essersi innamorato di me, mi riempiva di regali e disse che già da un anno voleva smettere di fare il prete. E dopo due o tre mesi mi convinse che dovevamo avere effusioni come due fidanzati normali”. Il resto del racconto diventa a luci rosse. E quel che accade, ovvero sesso orale e altro (ma senza un rapporto completo), accade sul divanetto del pian terreno de “La piccola casetta di Nazareth”, la sagrestia di don Michele Barone, 42 anni, il prete-esorcista di Casapesenna (in provincia di Caserta) in carcere con l’accusa di maltrattamenti, lesioni e violenze compiute durante gli esorcismi.
Lucia (il nome è di fantasia) è stata sentita il 9 marzo dagli agenti della Squadra Mobile di Caserta. Il verbale è stato allegato all’inchiesta dei pm di Santa Maria Capua Vetere Daniela Pannone e Alessandro Di Vico. Un pezzo di carta che trasforma in atto giudiziario le testimonianze raccolte dagli inviati de Le Iene, che hanno rivelato la vicenda delle violenze su una minore durante un esorcismo. E che sviluppa ulteriori sospetti sui metodi di don Michele, che approfittava della tonaca per attirare ragazze fragili e portarsele a letto. O sul divanetto della sagrestia. E se qualcuno bussava alla porta sul più bello? “Don Michele rispondeva che stava effettuando una confessione”.
Don Michele è accusato di violenza sessuale nei confronti di alcune donne e di maltrattamenti nei confronti di una ragazzina di 13 anni, affetta da un disturbo di conversione. Fu “curata” con i riti del prete e con il consenso dei genitori. L’ordinanza di arresto del 23 febbraio che ha svelato il caso della bambina ha avuto l’effetto di squarciare un velo di connivenze e protezioni. Ed altre presunte vittime si sono fatte avanti. Lucia è una di queste. E spiega fatti risalenti al 2002. Lei aveva 18 anni e viveva un momento difficile. Le conseguenze di un fidanzato lasciato da poco e di un rapporto conflittuale col padre. Don Michele si presenta come un amico che la vuole aiutare. Si reca in famiglia tutte le sere “per portare in casa la parola di Dio”, dice la ragazza. I genitori apprezzano. Poi, una sera, sull’uscio, il primo bacio. Qui finisce la storia del prete gentile e inizia quella di un uomo che cerca sesso. Anche virtuale. “Se non poteva vedermi mi telefonava chiedendomi di parlargli in modo che si masturbasse”. Le attività sessuali si trasferiscono a casa della ragazza “quando non c’era mia madre”. Lei ci sta. “Lui diceva di amarmi, che voleva avere una famiglia”. Lei però si rende conto che don Michele le sta mentendo. “Dopo un po’ capii che non avrebbe mai lasciato la tonaca. Gli dissi che volevo lasciarlo. Minacciò di suicidarsi”. Don Michele insiste, vuole un rapporto sessuale completo. Lei si rifiuta, vuole restare vergine, però acconsente ad andare in albergo a Giugliano per sottostare a rapporti anali. “Ma dopo un po’ mi rifiutai, provavo molto dolore”. La tresca finirà quando la madre di Lucia ne viene informata da un parente di don Michele. Tra le urla e gli schiaffi.