Repubblica 5.4.18
Russia, Iran e Turchia
Così va in scena la Yalta della Siria
di Daniele Bellasio
La
 nuova Yalta della Siria e in prospettiva del vicino Oriente nasce da 
una regola semplice del grande gioco delle potenze: in politica, tranne 
forse che in quella italiana, un vuoto viene sempre colmato da qualcuno.
 Ed ecco che ieri il summit trilaterale ad Ankara ha mostrato Erdogan, 
Putin e Rouhani intenti a spartirsi le zone di influenza e ad accordarsi
 su come risolvere i problemi in futuro. Così, a quasi nove anni dal 
discorso dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo,
 quello dell’auspicato “nuovo inizio” nelle relazioni tra l’America e il
 mondo arabo-musulmano, e a meno di tre dal conflitto sfiorato tra 
Russia e Turchia, quando Ankara abbatté un velivolo di Mosca che aveva 
violato lo spazio aereo, ciò che sembrava impossibile è avvenuto: tre 
nazioni con antiche diffidenze e non lontani rancori reciproci – 
Turchia, Russia e Iran – appaiono come il direttorio di comando 
dell’intera regione, una regione peraltro vicina a noi europei, diciamo 
almeno a portata di rotte dei migranti.
Tutto ciò accade anche 
perché i principali protagonisti alternativi sono assenti o immobili. 
Partiamo dall’assente: Donald Trump.
La strategia della sua 
Amministrazione è dichiarata fin dal motto “America First”. La Casa 
Bianca si appoggia sugli storici alleati Arabia Saudita e Israele, 
rafforzando i legami su armamenti e difesa con Riad e quelli politici 
con Gerusalemme capitale e lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. 
Per il resto – pensa Trump – meglio uscire o quasi dall’intesa 
anti-nucleare con l’Iran, meglio uscire o quasi dalla guerra civile 
siriana e dalla lotta all’Isis, meglio uscire o quasi dal conflitto 
israelo-palestinese: prima di tutto l’America e per il resto facciano 
loro. E loro tre infatti fanno.
Certo, tensioni tra i membri del 
nuovo direttorio ci sono e ci saranno. Per esempio l’Iran non vuole che 
le forze turche restino in territorio siriano e continua a proteggere 
l’integrità (almeno di facciata) del regime di Bashar el Assad, ma in 
fondo Teheran schiera nell’area la sua forza di pronto intervento 
rapido, le rinvigorite milizie degli Hezbollah, molto vigili, e dunque 
può anche scendere a patti con Turchia e Russia. Pure tra Erdogan e 
Putin permangono diffidenze e una sorta di malcelata competizione sulla 
regione, ma le commesse militari, una forte presenza russa a bordo 
Mediterraneo, e l’interesse del Cremlino ad avere un alleato e 
confidente nella Nato diventano convenienze convincenti per superare, 
almeno per ora, gelosie e sospetti.
E tutto ciò può accadere anche perché l’Europa, l’altro protagonista possibile, non ha una voce, un piano, un ruolo.
Alle
 prese con Brexit, in piena crisi diplomatica con Mosca, dopo le 
contrastanti vicende dell’ex spia russa avvelenata, impossibilitata a 
usare la prospettiva di ulteriori allargamenti per conquistare cuore e 
menti di nuovi paesi, e sotto il ricatto turco per quanto riguarda i 
flussi migratori, l’Unione europea non riesce a mettere sul tavolo una 
vera e forte strategia per il Mediterraneo, se non una dispendiosa linea
 di contenimento tattico dei flussi migratori. Le fragilità continentali
 si riflettono inoltre sulla Nato, quasi ferma anche per la carenza di 
risorse che le economie europee post crisi non possono o non vogliono 
investire nella difesa comune. Assente l’hard power americano, immobile 
il soft power europeo, non resta che il potere di quei tre. Poco 
rassicurante.
 
