La Stampa 5.4.18
Nei lager di Tripoli alla ricerca di un migrante scomparso
L’impossibile
promessa alla sorella arrivata in Italia. Gliuomini costretti a pagare
per lavorare fuori dalle carceri, le donne alla mercé dei miliziani
di Domenico Quirico
Sono
venuto a Tripoli a cercare un uomo, un ragazzo di ventiquattro anni, un
migrante. Adesso che, all’aeroporto, mi incolonno nella folla pigiata
di viaggiatori, rivenduglioli, salafiti, spie, miliziani mi accorgo di
quanto il mio scopo sia assurdo. Mi hanno chiesto di ritrovare una
pagliuzza nell’immenso mucchio della migrazione, impigliata nella rete
che noi e i libici abbiamo teso sulla spiaggia del mare. Di lui ho
soltanto un nome, Lehi, una data e un luogo di nascita, Yassap in Costa
d’Avorio.
E un numero di telefono, libico, che quasi certamente
non potrò usare per non metterlo in pericolo, per non allertare coloro
che lo hanno forse rapito imprigionato reso schiavo. Ecco. Ora che sono
qui quello che provo assomiglia all’eccitazione che si avvertiva quando a
scuola il professore cominciava la lezione di geometria con queste
parole: prendiamo un punto nell’infinito.
L’auto corre sul
lungomare, la vicinanza del deserto si avverte nei colori dell’aria che è
chiara e celestina, il cielo di un azzurro pallido, leggero, di un rosa
che sfuma ormai nel tramonto vale di più della città che gli deve
quanto ha di meglio. Vedo intorno le solite case strette come scaglie di
pigna di una architettura spuria, strade senza carattere, senza
bellezza né ricchezza, l’immondizia a mucchi, i murales della
rivoluzione, «alla fine liberi», sudici e illeggibili. Devo cercare, nel
gran gioco del caso e della sorte, uno di coloro che hanno solo terre
straniere e nemmeno una patria, che vivono con linguaggi presi a
prestito, trascinati dal vento. Sapevo che avrei dovuto immergermi non
nella Tripoli palese ma in una Tripoli incavernata e occulta, quella
delle milizie e dei loro traffici, degli accordi opachi scritti da noi
nel 2017 per mettere sotto controllo la migrazione. L’aereo che mi ha
portato da Tunisi è appunto uno di quelli che vengono usati, due volte
la settimana, martedì e giovedì, per i «rimpatri volontari». Fuori è
nuovo, dentro, sui sedili, c’è attaccata l’abitudine a folle di poveri,
l’usura e l’odore di abiti usati, di sporte stracariche, di misere cose.
Scorrono
i palazzi di Gheddafi, non ultimati o distrutti, scheletri di cemento
che il tempo ha già reso scuro, cumuli di rovina alti come grattacieli.
In lontananza sembrano castelli intatti. Poi mano a mano che ci si
avvicina si decompongono e si dissolvono in ruderi confusi con gli altri
edifici: come se lo sfacelo non fosse già avvenuto ma avvenisse in
quegli attimi. Essi danno infinite volte la stessa esibizione, morire
sotto i nostri occhi tutte le volte che li si guarda.
La promessa
Ho
accettato questo compito perché ho incontrato una giovane donna, Sabine
e la sua bambina. È la sorella del ragazzo che sono venuto a cercare.
Lei ha attraversato il mare in barcone, il marito è sparito in Libia e
non ne sa nulla da due anni. Un altro fratello è morto in mare. Resta
Lehi, scomparso e poi riaffiorato a novembre con una telefonata in cui
raccontava di esser nella casa di un libico e chiedeva aiuto. Chiuso in
un centro di detenzione, stremato, malato, era stato portato via dal suo
padrone che per non riportarlo in prigione voleva denaro: ottocento
euro subito e poi, trecento, ogni mese. È il nuovo business, in attesa
di riprendere quello dei barconi e del mare. Sabine e i parenti hanno
mandato il denaro; poi da gennaio, improvviso, il silenzio. Se non
avessi guardato negli occhi Sabine, se non l’avessi ascoltata
aggrapparsi a un indizio, a un dettaglio, a una briciola di informazioni
per riaccendere le speranza, non avrei accettato.
Vi era qualcosa
di così straziante in questo scavare nel passato, nel minuscolo
episodio di un tempo, purtroppo senza via di uscita, per trovare
un’ultima prospettiva, per credere e sperare, che ne sono rimasto
sconvolto. Lo confesso: all’inizio ho pensato ecco, questo è un caso
emblematico della migrazione, da raccontare… E poi ho accettato perché
ho capito che non ci sono casi emblematici nella migrazione, che questo è
il discorso che usano gli aforismi rozzi e ottusi degli xenofobi:
l’invasione dell’occidente i governi e gli umanitari imbelli i popoli
feroci avidi di denari e di donne… No! nessuna storia di migranti è
emblematica, di nulla. È singola, intoccabile, una storia umana e basta.
Cercare il ragazzo è un obbligo di fronte a questa animosità crudele
che sembra entrata nella circolazione sanguigna del mondo.
Al
ministero degli Interni a Tripoli, per i permessi, incontro una novità.
Stavolta non potrò andare in giro da solo. Mi accompagnerà sempre un
mukhabarat, un agente della sicurezza. È la conseguenza del filmato
della Cnn, con migranti venduti come schiavi. I libici corrono ai
ripari: basta indagini impiccione, viaggiatori curiosi. Il mio custode è
simpatico ma meticoloso, non mi lascia mai, è come una ombra. Ho
conosciuto ancora i paesi dei socialismi reali, le «guide», gli
«interpreti», gli accompagnatori-spia. E dunque anche stavolta, a
Tripoli, inizio il gioco di questa prigionia pratica, spicciola, una
perenne lotta tra la pazienza e la noia in cui dapprima vince la noia e
poi forse la pazienza. Ma per me, che devo cercare senza dirlo una
persona, tutto diventa più difficile.
Per il momento ho solo i
luoghi, l’atmosfera, l’aria che Lehi ha respirato, tutti i giorni, i
mesi in cui è stato qui dopo il viaggio nel deserto. Ci sono tutti,
questi luoghi di tragedia o di normalità, in cui è stato e in cui voglio
ritrovare la sua orma e sentirne l’eco. E per tutto questo, per tornare
sulle sue tracce, ripercorrere i suoi passi con i miei, immaginare ciò
che ha percepito, vissuto, sofferto, non ho bisogno di autorizzazioni né
di incontri. Questa storia è viva.
Il quartier generale
C’è
un punto da cui bisogna iniziare e il punto è Sekha, il «Centro per la
lotta alla immigrazione clandestina» nel cuore di Tripoli. Lehi deve
essere passato di qui perché tutti i migranti raccattati dalle milizie,
presi in mare, prima o poi, vi fanno sosta dolorosa. Strano: non mi
hanno posto difficoltà per venire qui, quasi desiderino che visiti
questo luogo. Ora capisco perché. Hanno organizzato oggi una festa, una
festa per bambini prigionieri con le loro madri. La strategia si fa più
sofisticata: cancellare l’immagine del lager per migranti, convincere
l’occidente che spende bene qui i suoi soldi, che nessuno viola «i
diritti umani». Infatti arrivano, giulivi, due rappresentanti delle
Nazioni Unite, accarezzano bimbi, assaggiano dolcetti. Sotto una tenda
ornata con palloncini, stanno le donne, stringono i bimbi in braccio,
cupe, silenziose. Hanno messo loro in testa buffi cappellini di
cartapesta. Nessuno si muove dal suo posto, girano le sorveglianti con
maschere da commedia dell’arte. Avanza con gran fracasso una orchestrina
con pifferi, piatti e tamburo. Un uomo mascherato da Minnie detta il
tempo, fa danzare bambini storditi, che cercano di tornare dalla madre,
getta coriandoli.
Era falso. Era come un balletto di bambole. Ed
era triste. Crudele. Mi fanno sedere tra le «autorità». Il responsabile
del centro pronuncia banalità bonarie e inesorabili. Accanto a me
rappresentanti diplomatici di alcuni paesi che hanno cittadini nella
prigione: Camerun, Centrafrica, Somalia. Guardano a terra, mesti, come
vergognandosi, mi rispondono a monosillabi. La massima crudeltà non è
mai calda. Si ha quando persecutore e vittima la usano e la subiscono
ormai senza passione.
I funzionari dell’Onu se ne vanno
distribuendo lodi. Le guardiane respingono, sgarbatamente, donne e
bambini nella loro gabbia. Minnie si rivela un agente barbuto. Gira per
il cortile ancora per metà in maschera. Alcuni somali, nella confusione,
hanno avvicinato il loro diplomatico, un giovane elegante. È arrivato
su un’utilitaria, con l’autista, ma piena di toppe e sfregi, il motore
in agonia, il guidoncino somalo legato a un provvisorio bastone di
ferro. Ha prestato il telefono a un migrante che sta cercando di
chiamare i genitori. Minnie, furibondo, urla e a pugni e spintoni li
ributta nella prigione. Ecco: cosa accade in questi luoghi un minuto
dopo che il cancello si è chiuso dietro i visitatori? I migranti, fitti,
le mani appese alle grate mi fissano senza parlare come si fissa in
un’ora di abbandono e di solitudine la vicenda delle onde del mare.
Il racket
Tripoli
è il caos, una gigantesca rete di estorsione, un trust che va dal
banale racket di quartiere alle banche ai migranti venduti a noi o alle
famiglie, al gasolio imboscato e caricato su navi cisterna e venduto a
Malta in Italia in Grecia in Turchia. Ma un caos che non si vede: gente
che vocia sul lungomare davanti ai ristoranti che espongono il pesce,
pesce grosso sanguigno appena pescato, file di sangue rosso filettano le
teste argentee e colano dalle ceste; salafiti obesi muovono ventri
prominenti verso i fragili paradisi di una pasticceria; un gruppo di
neri attende un ingaggio con l’esca di badili e cazzuole; lunghe file si
allungano pazienti al complicato prelievo di piccole somme consentite
nei bancomat.
Bisogna continuare, altre discese tra le ombre. Fare
in fretta: qui stanno cancellando le tracce con i rinvii «volontari».
Tanto ne restano, di migranti, settecentomila nelle vie, nei tuguri,
nelle galere private delle bande: su cui calerà il nostro silenzio, e di
cui fare ciò che si vuole. Ad al Matar, la via del vecchio aeroporto,
mi assicurano che ci sono ivoriani. Ottocento rinchiusi in due hangar,
un pagliericcio accanto all’altro, ciotole di cibo in cui mangiano
accucciati a terra, a gruppi, con le mani. I guardiani, divise nere,
teste rasate o barbe e capelli alle Guevara giocano con un calcio
balilla: «Si consegnano volontariamente i negri… non dobbiamo nemmeno
cercarli… non ce la fanno più...».
Cerco, senza fare troppe
domande. Uno degli ivoriani mi sussurra un nome: Tajoura, vai lì, ci
sono quelli che hanno catturato da poco. Il tempo è cambiato, un freddo
salato e sferzante, da inizio di temporale, che ricorda ogni volta la
presenza del mare. Dieci chilometri e siamo a Tajoura. Arrivo insieme a
una delegazione dell’Unione europea, alla guida un diplomatico
ungherese. Sono venuti ad assistere al rimpatrio di un centinaio di
nigeriani e senegalesi. Davanti al capannone i migranti sono allineati
in questa mattinata spietata di pioggia e gelido vento in quadrati ben
ordinati, stanno seduti sui ginocchi come solo gli africani sanno fare,
in mano il documento arancione di espulsione. I bus sono già pronti, il
motore acceso: in piedi in fila per uno salite buon viaggio e a non più
rivederci… I diplomatici rabbrividiscono in giacchetta e cravatta, si
vede che hanno fretta di tornare al tepore delle Mercedes. Non mi
lasciano entrare nell’hangar dei migranti. Fanno uscire una ragazza,
somala. Ha sedici anni, è piccola, il corpo esile avvolto da un lungo
vestito, i piedi chiusi in pantofole nere come quelle delle bambole. La
sua straordinaria bellezza si intuisce, dunque, dal volto e dalle mani.
Il volto è lievemente solcato da qualche ruga agli angoli degli occhi,
la fronte è alta, si vedono pulsare le vene che la percorrono dall’alto
in basso, la bocca piccola, gonfia e palpitante, anche quando, anzi
soprattutto quando sta in silenzio. E gli occhi… non ho mai visto uno
sguardo come questo. All’inizio pensavo fosse cieca perché gli occhi
attraversavano me e le cose come se cercassero qualcosa che era dietro
di esse. Gli occhi dei profeti. E delle vittime. È partita da Galkaio
quando aveva 14 anni, da sola. Fuggiva il padre che è uno shebab: «Io
sono Ahnam, ma Ahnam non esiste più si è perduta... Vogliamo uscire di
qui, vedere città, vivere…».
Dal padiglione degli uomini emerge un
nigeriano, una specie di kapò, ha le chiavi, collabora con le guardie,
tiene buoni i migranti. L’ultima possibilità, lo abbordo, gli sussurro
il nome di Lehi. Mi guarda senza parlare.