il manifesto 5.4.18
Gaza senza più nulla da perdere si prepara al venerdì di sangue
Israele/Striscia
 di Gaza. Negli accampamenti sorti nella fascia orientale della Striscia
 i palestinesi predispongono trincee per proteggersi dagli spari 
dell'esercito israeliano. Il governo Netanyahu conferma la linea del 
pugno di ferro lungo il confine e attacca la ong dei diritti umani 
B'Tselem che ha chiesto ai soldati di non aprire il fuoco sui civili 
palestinesi
di Michele Giorgio 
GAZA «Non voglio
 morire, voglio vivere, ma è meglio la morte di questa vita da 
prigioniero, senza futuro». Non è una frase gettata lì, a caso. Karim, 
22 anni, dice ciò che realmente pensano lui e i suoi giovani compagni, 
riuniti in una tenda per la colazione. Qualche pezzo di pane preparato 
in casa, un paio di piatti con dell’hummus, qualche pomodoro. Tutti 
hanno dormito lì come testimoniano i resti di un falò a pochi metri 
dalla tenda. Sono le 9 e nell’accampamento “Abu Safie”, ad Est di 
Jabaliya, uno dei cinque allestiti la scorsa settimana nella fascia 
orientale di Gaza per la “Marcia del Ritorno”, fa già molto caldo. Il 
sole picchia forte sulle tende e le altre strutture alzate dai 
palestinesi a diverse centinaia di metri dalle linee di demarcazione 
con Israele. Dall’altra parte delle barriere ci sono i soldati, inclusi
 i tiratori scelti che venerdì scorso hanno ucciso 14 palestinesi e 
ferito altre centinaia con munizioni vere e rivestire di gomma. Altri 
quattro sono spirati negli ospedali dove restano ricoverate decine 
delle centinaia di persone colpite dal fuoco dei militari israeliani. 
«Due dei miei amici sono stati feriti, grazie a Dio non in modo non 
grave», ci dice Karim indicando un paio di ragazzi, uno avrà non più di
 14 anni e sta in piedi appoggiandosi a una stampella. «Venerdì sarà un
 giorno di sangue, gli israeliani ci spareranno contro ma non abbiamo 
paura. Non abbiamo nulla da perdere», spiega un altro giovane, Maher,
 mentre osserva il lento movimento, avanti e indietro, di una ruspa che
 ammassa terra lungo il lato orientale di “Abu Safie”. Lo stesso accade
 negli altri quattro accampamenti. 
 Questi terrapieni saranno le
 trincee dove domani i partecipanti della “Marcia del Ritorno”, 
cercheranno riparo se i soldati apriranno di nuovo il fuoco di nuovo sui
 palestinesi che proveranno ad avvicinarsi al confine. I filmati 
postati sui social nei giorni scorsi mostrano non pochi manifestanti 
colpiti quando si stavano allontando dalle barriere e persino a grande 
distanza da esse. «Per proteggerci daremo fuoco a cataste di vecchi 
pneumatici, il fumo nero non permetterà agli israeliani di prenderci 
di mira come hanno fatto venerdì», ci spiega sicuro del fatto suo Abu 
Tareq Salameh, un uomo sulla sessantina, in un’altra tenda assieme ad 
una decina di coetanei. «Siamo decisi a rompere l’assedio (di Gaza). 
Perciò resteremo qui, non ce ne andremo, anche se ci ammazzaranno 
tutti», aggiunge Abu Tareq lamentandosi, come tutti i palestinesi, 
giovani e anziani, del debole appoggio che la “Marcia del Ritorno” ha 
avuto dai leader arabi. «La Lega araba non conta nulla, (martedì) si è
 riunita solo per scrivere parole vuote su pezzi di carta. I leader 
arabi amano l’America, amano Trump e pure Israele», conclude l’uomo 
riferendosi all’avvicinamento dell’Arabia saudita allo Stato ebraico.
Si
 vedrà domani se gli accorgimenti per proteggersi dagli spari studiati 
dai palestinesi si riveleranno utili. Israele da parte sua ha fatto 
sapere che userà ancora il pugno di ferro. Martedì il ministo della 
difesa Lieberman ha avvertito senza usare mezze parole che coloro che 
si avvicineranno alle recinzioni metteranno «a rischio la loro vita». 
Qualche ora dopo un giovane palestinese, Ahmad Arafah, che si era 
spinto fin sotto alle barriere, è stato ucciso dal fuoco dei soldati. 
Ieri altri feriti, a est di Zaitun. Israele ha ribadito l’avvertimento 
in un messaggio per il movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, 
affidato al capo dei servizi di intelligence dell’Egitto, Abbas Camel, 
ricevuto due giorni fa a Tel Aviv dal direttore dello Shin Bet (la 
sicurezza interna) Nadav Argaman. Governo, partiti di destra, forze 
armate e la maggior parte dei media israeliani continuano a descrivere 
la “Marcia del Ritorno” non come una iniziativa popolare e pacifica 
organizzata dall’Alto Comitato per la fine dell’assedio di Gaza – 
include tutte le formazioni palestinesi, laiche e religiose – che andrà
 avanti fino all’anniversario della Nakba palestinese, il 15 maggio. 
Piuttosto la ritengono un piano di Hamas per lanciare «azioni 
terroristiche» contro Israele. Per questo hanno diffuso le foto in 
uniforme militare di alcune delle vittime palestinesi di venerdì, 
sostenendo che si trattava di militanti o simpatizzanti di Hamas e 
Jihad e sorvolando sul fatto che quando sono stati colpiti erano in 
abiti civili e disarmati (ad eccezione di due, del Jihad, responsabili 
di un attacco armato). Ieri Israele ha anche comunicato di aver 
arrestato una decina di palestinesi, sempre del Jihad, che, secondo i 
suoi servizi di sicurezza, si accingevano ad attaccare una motovedetta 
per catturare dei marinai. 
 Malgrado il sostegno di buona parte 
dell’opinione pubblica alla linea dura del governo Netanyahu, in 
Israele si alzano voci contro nuove stragi di palestinesi sul confine 
con Gaza. B’Tselem, noto centro per i diritti umani, ieri ha esortato i 
soldati a disobbedire agli ordini e a non sparare sui civili 
palestinesi se questi non porranno una minaccia per le loro vite. Si 
tratta di un passo raro se si tiene conto che l’esercito era e resta la
 spina dorsale della società israeliana e che disubbidire agli ordini 
militari è considerato un atto gravissimo. B’Tselem nei suoi trent’anni 
di vita non ha mai invitato a rifiutare gli ordini dell’esercito ma, 
afferma il suo portavoce, Amit Gilutz, ritiene che sia illegale oltre 
che disumano sparare ai palestinesi che pongono una minaccia per la 
vita dei soldati. B’Tselem non nega il diritto di Israele di 
difendere il suo confine ma ribadisce che lo Stato ebraico deve 
osservare le norme internazionali per l’uso della forza. «Avvicinarsi 
alle barriere e persino danneggiarle non fornisce i presupposti per 
l’uso di forza letale…che – ricorda il centro per i diritti umani – è 
limitato a situazioni che comportino un pericolo mortale tangibile e 
immediato e solo in assenza di altre alternative». La reazione del 
ministro Lieberman è stata furiosa. Ha definito “sobillazione” l’appello
 dell’ong israeliana da lui descritta come un gruppo di «mercenari che
 agiscono dietro finanziamento di fondi stranieri, mercenari intenti a 
colpire lo stato di Israele».
 È assai improbabile che ufficiali e
 soldati israeliani accolgano l’invito di B’Tselem e comunque 
nell’accampamento “Abu Safieh” neppure conoscono il centro israeliano 
per i diritti umani. La vita sembra scorrere normale, come se domani ad
 attendere i partecipanti alla Marcia del Ritorno non ci fosse un 
venerdì di sangue. Si puliscono i bagni chimici, le donne portano acqua
 e cibo, una Ong locale monta una postazione medica, qualcuno prova ad 
attivare il collegamento a internet. Più in fondo dei ragazzi giocano a
 calcio. «La mia famiglia vorrebbe vedermi diventare un architetto» 
dice Nidal Abu Shabaan, uno studente universitario, «lo desidero anche
 io ma non voglio essere un architetto prigioniero. Per questo sono 
qui, per essere libero».
 
