Repubblica 3.4.18
Il Pd e l’anima smarrita
di Roberto Esposito
Il
secondo partito italiano ha il dovere di ricominciare a pensare»,
scrive Mario Calabresi nell’editoriale che ha aperto il dibattito sul
destino del Pd, nel momento forse più difficile della sua storia. Per
farlo è necessario partire da un dato oggettivo. Tutti i sistemi
politici, anche quelli tendenzialmente proporzionali, tendono alla fine a
disporsi in forma binaria. Ciò nasce da una spinta che attiene alla
forma stessa della politica. Anche i sistemi tripolari, dopo il voto,
arrivano a un punto in cui è inevitabile scegliere tra due alternative
opposte. Si tratta di decidere dove situare la linea di divisione lungo
la quale i tre poli si aggregano. Il recente esito elettorale propone al
Pd due soluzioni possibili. Benché la sua scelta debba necessariamente
tenere conto di quella degli altri due poli — cioè del centrodestra e
dei 5stelle — sarebbe deleterio che il Pd restasse inattivo, sperando
nel fallimento degli altri, senza lavorare per una delle due soluzioni
che si aprono.
La prima è quella di collocarsi decisamente
all’opposizione, spingendo di fatto gli altri due poli ad aggregarsi, o
addirittura sperando che ciò avvenga. È la linea inizialmente scelta dal
gruppo dirigente e, nonostante alcune turbolenze interne, ancora in
piedi. È difficile negare che essa abbia più di una ragione. Intanto di
coerenza con la lunga campagna elettorale che ha contrapposto il Pd sia
al centrodestra sia, ancora di più, ai 5stelle. Ma anche di strategia.
La sconfitta, se elaborata e compresa nelle sue motivazioni, può avere
un effetto costituente. L’opposizione consente a una forza politica
battuta di riorganizzarsi anche in base alle prevedibili difficoltà di
chi va al governo. Tuttavia questa scelta ha un doppio prezzo. Da un
lato quello di lasciare il Paese, per così dire senza combattere, a
forze giudicate irresponsabili. Dall’altro il prezzo di collocarsi
stabilmente dalla parte dell’establishment — precisamente quella che
l’elettorato ha punito con il voto.
L’altra possibilità, per il
Pd, è di cercare di rompere il fronte populista, appoggiando un polo —
quello dei 5stelle contro l’altro. Anche in questo caso con alcune
ragioni evidenti. Non solo il Pd ha maggiori punti in comune con il
movimento di Di Maio che con il centrodestra. Ma in questo modo si
ricostituirebbe una sorta di bipolarismo tra sinistra e destra, che
spingerebbe quest’ultima all’opposizione. Ma anche in questo caso gli
svantaggi non mancano. Intanto la destra, sola all’opposizione, potrebbe
continuare a crescere. Ma soprattutto il Pd finirebbe per porsi a
rimorchio della forza che lo ha sconfitto, scolorendo un’identità già
sbiadita. Agirebbe come una sorta di freno rispetto al programma più
radicale dei 5stelle, acquisendo un ruolo moderato, certo non destinato a
rafforzarlo.
E allora? A quale direzione rivolgersi? L’unica
scelta non controproducente è quella di rafforzare la propria identità,
attraverso un’analisi di fondo dei motivi della sconfitta. Ciò non è
possibile che attraverso un congresso veramente rifondativo. Con un
doppio obiettivo. Quello di definire una forza di sinistra di forte
impegno europeo e quello di fare opzioni precise all’interno della
società italiana. Con la consapevolezza che questa non è un tutt’uno.
Che è attraversata da interessi diversi e spesso contrapposti. Rispetto
ai quali bisogna schierarsi. Facendo ciò che avrebbe dovuto fare da
tempo: battersi a fondo contro le ineguaglianze crescenti, da un lato
aumentando il sostegno alle fasce sociali più deboli, dall’altro
proponendo un sistema di tassazione fortemente progressivo. Esattamente
il contrario della tassa piatta.