Il Fatto 3.4.18
Contro la politica degli analfabeti
I
critici gli chiedevano: perché tanto accanimento contro Berlusconi? La
sua risposta era che c’è liberalismo soltanto quando potere economico e
potere politico sono nettamente separati - Giovanni Sartori, 1924 - 2017
di Gianfranco Pasquino
Nella
sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui
curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Giovanni Sartori affermava
senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di
“analfabetismo politologico”.
I suoi bersagli erano chiari:
democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro
ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro
accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto
formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a
cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti
rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di
liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci,
inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo
Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava
in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta
persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i
partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà
degli anni ‘50, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia
Norberto Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori
(Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente
la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo fino
all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara
testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale
il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò
ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi
studiosi, che parlavano dell’Italia Dc-Pci come di un’anomalia positiva,
che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel
sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica
sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e
agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane
che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno
fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui
sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della
seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma
Sartori teneva molto a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria
costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e
Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei
pungentissimi editoriali per il Corriere della Sera (variamente raccolti
Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un
qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in
maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le
conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era
sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi,
mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership,
nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i
ferri del suo mestiere: “Se cambiano le condizioni a, b, e c allora è
probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi
di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto
particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo
irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i
suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano
letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme
e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema
politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i
conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui
colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui,
dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e
interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore
della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che
(af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi.
Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti
commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai
comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era
semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere
economico e potere politico sono e, nella misura del possibile,
rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere
economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il
conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella
democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si
era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella
situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti,
si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il
liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza
politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali
quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai
buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella
maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal
1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero
maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei
gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente,
empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi
elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e
essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è
stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che
avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano
con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più,
della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli
con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa
trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare
fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti
di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di
un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato
tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i
poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è
multipartitico), poi se ne valuta il consolidamento, molto limitato,
infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui
partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per
dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di
favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di
Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla Rivista Italiana di
Scienza Politica (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza
politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è
stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere,
insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è
stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere
sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo
anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il
più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici
degli ultimi cinquant’anni.