Repubblica 3.4.18
Bucchi
Il commento
Come curare l’ansia demografica
di Giancarlo Bosetti
Non
è nuova la sensazione che una politica illuminata, generosa con i
profughi e i migranti, in linea con la globalizzazione, europeista,
culturalmente cosmopolita ed espressa con linguaggio sobrio stia
diventando un genere di lusso, come il tonno a pinna blu o il tè verde
da 3000 dollari al chilo. La storia non è nuova, ha radici ormai lunghe —
il conio « radical- chic», di Tom Wolfe, compirà tra poco cinquant’anni
–, ma ora ha raggiunto vertici spettacolari. Il distacco dei leader
riformisti e democratici, non solo di sinistra, da gran parte del
popolo, che una volta sapevano rappresentare, identificandosi
emotivamente con loro, pur appartenendo ad élites assai distanti dalla
gente comune — da Churchill a Mitterrand, da Brandt a Obama — si è
compiuto. Oggi John F. Kennedy farebbe più fatica a vincere le elezioni
con un Salvini americano di quanta già ne fece con Nixon, figlio di un
benzinaio.
Il nuovo paesaggio politico non è poi una sorpresa così
stravagante. Anomalo è il fatto che il «trend populista» o « sovranista
» , non abbia incontrato resistenze. Eppure, mai avversari politici
hanno giocato così allo scoperto senza nulla nascondere delle loro
intenzioni. Perché, allora, l’impotenza che ha afflitto per esempio
negli Usa i Democratici, ma anche i Repubblicani, come in Italia il Pd,
ma anche quel che resta di una disastrata Forza Italia? L’impotenza
riguarda anche i liberal dell’Est Europa e della Gran Bretagna. La
Francia ha messo per ora uno stop al « trend » , ma, attenzione, era
sulla stessa china: al primo turno l’anno scorso Macron con 8,7 milioni
era solo di una incollatura sopra Marine Le Pen (7,6) seconda: un
piccolo margine dal grande precipizio.
Di fronte alle grida contro
la globalizzazione, contro l’Europa, contro i migranti, messicani o
musulmani, di fronte a proclami in difesa della «razza bianca», che cosa
ha impedito agli altri di far valere parole più ragionevoli? Che cosa
ha prodotto quella frattura che li ha buttati fuori dalla gara?
Nessuno
ha il monopolio di questa risposta e tante ne sono già state fornite.
Un brillante studioso israeliano ora all’università europea di Firenze,
Liav Orgad, ha una risposta interessante da proporre: i leader liberal
non hanno saputo farsi partecipi dell’ansia di milioni di persone per
gli sconvolgimenti in corso: guerre, disoccupazione, rifugiati,
migrazioni, non hanno saputo indossare un « noi » , in cui molti si
potessero riconoscere, perché sono affetti da automatismi, in base ai
quali sembra che per loro siano rilevanti esclusivamente i diritti delle
minoranze — che sono davvero sempre un test fondamentale di libertà -, e
che impediscono loro anche solo di parlare dei «diritti della
maggioranza » . Eccolo il concetto tabù, per gli avversari del trend ora
in auge. In tempi tranquilli « le maggioranze fanno da sé» e possono
essere, anzi, pericolose per chi non ne fa parte. Ma le società
occidentali stanno attraversano una crisi di rilevanza storica nei
rapporti tra vecchie maggioranze dominanti e grandi comunità di
immigrati (Stati Uniti) e nel declino senza precedenti della popolazione
residente che la rende dipendente dall’immigrazione (Europa). Questi
mutamenti hanno effetti destabilizzanti e ansiogeni che riguardano la
vita quotidiana e alimentano la simpatia per i politici che catturano
l’ansia. Che tra i fattori obiettivi e la percezione del fenomeno si
inserisca il processo sistematico di « esagerazione » del problema,
insieme alle provocazioni razziste, non migliora le cose, al contrario
le complica perché la reazione, specie ai piani alti della società, dove
l’ansia è molto minore, si carica anche di indignazione e disprezzo. E i
dati di fatto che giustificano una certa «ansia demografica» passano in
secondo piano.
Negli Stati Uniti questi fattori obiettivi sono
imponenti. Le previsioni secondo le quali le riforme dell’immigrazione
del 1965 negli Usa non avrebbero alterato radicalmente la struttura
della popolazione sono state smentite dai fatti; gli ispanici erano il
9% dei nati all’estero nel 1960 e ne rappresentano ora più della metà.
Sul totale della popolazione saranno il 30% alla metà del secolo. Si
capisce che attaccando Hillary Clinton, come una liberal capace di
celebrare la varietà del popolo americano e incapace di celebrare la sua
unità ( come invece Obama), Trump ha avuto buon gioco, ovviamente non a
New York e Los Angeles ma negli Stati determinanti per il suo successo.
L’ha battuta con una frase: «Noi siamo un popolo che parla inglese non
spagnolo» e con una caricatura: il suo volto circondato di parole
spagnole.
Nel suo The Cultural Defense of Nations (Oxford, 2015)
Orgad, uno che rifiuta, sia chiaro, le politiche illiberali
dell’immigrazione, spiega che anche in Europa il mutamento demografico a
causa dell’invecchiamento e della vicinanza con la polveriera africana
alimenta una comprensibile « ansia demografica » , che certamente tocca
la popolazione più povera, e che sta diventando il motore (inquinante)
di tutta la politica europea, anche se non è altrettanto vistoso come in
America o in Israele: qui la crescita degli ortodossi e degli arabi,
cui si aggiunge, come in Europa, l’emigrazione africana, proveniente
soprattutto dalla crisi del Darfur, ma non solo, via Egitto, fa
presagire un futuro di ulteriori conflitti. Israele fa valere — d’intesa
con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati — un diritto a tutelare la
propria società respingendo migranti, in questo caso né ebrei né
palestinesi. Ed ecco che compare quel “diritto della maggioranza” — dei
cittadini residenti — che in una concezione liberale delle nazioni e
degli Stati, e in una gestione sostenibile dell’emigrazione, non può
rimanere un tabù impronunciabile neanche per i paesi europei.
Il
recupero di un riformismo democratico sarà opera lunga e deve affrontare
il problema con chiarezza. La legislazione sulla cittadinanza, una
prova che l’Italia ha ripetutamente fallito, e il governo
dell’immigrazione sono passaggi che possono ridefinire l’identità
costituzionale di un popolo e un test formidabile per la ricostruzione
di uno scenario politico democratico.