Repubblica 28.4.18
Quei 65 anni d’attesa
Ora la II Guerra mondiale è finita anche sul 38° parallelo
È
stato il grande conflitto dimenticato. Fin dall’origine è stato spesso a
un passo dal diventare uno scontro nucleare. Ora si avvia alla
conclusione ma resta un non detto tra Cina e Stati Uniti
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON
Piccolo passo per due uomini in guerra che si tenevano per mano come
fidanzatini, grande balzo per l’umanità che chiude l’ultima piaga
rimasta aperta dalla Guerra mondiale e poi dalla Guerra fredda, la
promessa di pace dei leader delle due mezze Coree è un viaggio lungo 65
anni e un milione di morti. Espressa ogni prudenza possibile, avanzata
ogni diffidenza per questo vertiginoso e fulmineo rovesciamento del
gioco, basterà ricordare come appena un anno fa si temesse da un’ora
all’altra uno scontro nucleare fra Kim Jong-un e Donald Trump e ora si
sottoscrivano impegni solenni e pur vaghi di “denuclearizzazione”,
mentre lo stesso Trump si congratula e loda colui che aveva minacciato
di polverizzare tra «furia e fiamme».
Quel conflitto permanente,
quella guerra continua che viveva sospesa tra “fuoco e ghiaccio”, come
fu definita, fra possibili cannonate e il gelo paralizzante degli
inverni sul 38° parallelo, conosce un disgelo che ricorda altri momenti
di grande speranza nella storia degli ultimi 100 anni e soprattutto del
Dopoguerra.
Vedendo insieme Kim il Terzo, nipote e figlio di
despoti che da tre generazioni bruciano più di un terzo del Pil
nordcoreano in armamenti, e Moon Jae in, il presidente democraticamente
eletto nel Sud, riportavano alla memoria altri celebri momenti di
apparente, abbagliante riconciliazione fra inconciliabili.
Si
ripensa, con qualche nostalgia e molta delusione, all’abbraccio di
Menachem Begin e Anwar Sadat a Gerusalemme, che costò la vita al
presidente egiziano. Alle strette di mano fra Ronald Reagan e Mikhail
Gorbachëv, lui dell’“Impero del Male” a Ginevra, o fra Yasser Arafat e
Ytzakh Rabin, un altro uomo di pace che pagò con il sangue la sua
apertura, e la riconciliazione incruenta fra Nelson Mandela che alzò al
cielo la propria mano con quella di Frederik de Klerk, l’ultimo
presidente del regime di apartheid Sudafricano che lo aveva incarcerato.
Ma chi di noi ha visto e sentito nelle ossa il gelo atmosferico e
militare lungo la linea del cessate il fuoco, il 38° parallelo che
riportò i combattenti esattamente da dove erano partiti dopo almeno un
milione di morti caduti o assiderati resta sbalordito davanti alle
carineria, al clima, letteralmente, di rimpatriata in trattoria fra
coreani del sud attorno a banchetti a base di polipi alla griglia,
verdure sottaceto, frittelle di patate alla maniera di Zurigo, il Rösti,
per alludere agli studi del giovane Kim in Svizzera che lui non aveva
mai ammesso. O il dolcetto di mango con fogliolina di zucchero per
guarnizione con la sagoma della penisola coreana disegnata sopra che ha
subito scatenato la collera dei giapponesi perché include alcuni
isolotti che Tokyo pretende come suoi.
La Guerra in Corea, che ora
sembra sciogliersi in “noodles”, in spaghetti freddi preparati da uno
chef di Kim Jong-un arrivato con l’apposita macchinetta per filarli da
Pyongyang, è stata, molto più del Vietnam, un mattatoio specialmente
crudele, dove sono caduti in tre anni tanti soldati americani quanti ne
furono uccisi nei tredici anni di combattimenti in Indocina. Fu, dopo
l’inaspettata invasione del Sud oltre la linea di demarcazione tracciata
nel 1950, dopo la liberazione dagli occupanti giapponesi da parte del
nonno del paffuto giovanotto che ora brinda e tiene per la manina il
sudcoreano, la prima e per ora ultima grande campagna militare di massa
fra gli Stati Uniti, sotto la bandiera dell’Onu, e una grande nazione
comunista, la Cina di Mao Zedong. Fu la prima guerra non vinta nella
storia americana e portò, come non sarebbe più accaduto fino alla crisi
dei missili sovietici a Cuba, a poche ore dall’impiego di bombe
atomiche.
Il generalissimo Douglas MacArthur, che si era
imprudentemente spinto all’estremo nord per spazzare via i resti del
regime comunista e si era trovato di fronte un milione di soldati
cinesi, aveva chiesto di annientarli con l’atomica. Soltanto il rifiuto
del presidente Harry Truman e la destituzione su due piedi del
generalissimo evitarono una seconda Hiroshima, alla quale i cinesi, e i
loro alleati sovietici del tempo, avrebbero risposto con eguale
rappresaglia. Per questo, per il terrore sfiorato, per l’insensatezza di
un massacro che lasciò le cose come stavano prima della guerra e fu
magistralmente ridicolizzato da Robert Altman nel suo film MASH, il
conflitto coreano è stato “la guerra dimenticata”, quella che gli
americani hanno per decenni preferito ignorare, senza averla capita e
dunque mettendo le premesse per la catastrofe vietnamita. Ora Donald
Trump si vanta della apparente riappacificazione, del disgelo prodotto
dalle sue raffiche di tweet da vero duro, anche se appare più
ragionevole pensare che siano stati i burattinai cinesi a tirare i fili e
imporre a Kim, ormai più imbarazzante che utile, di sciogliersi e di
scoprire le delizie dell’ospitalità e della cucina sudcoreana. Se la
piaga finalmente si rimarginerà sarà una di meno, in un mondo afflitto
da altre piaghe purulente, ma chi abbia vinto, 65 anni dopo, la Guerra
dimenticata, resta da vedere. Una Corea “denuclearizzata” significa
anche l’esclusione di ordigni americani, comporterebbe la fine della
Maginot Usa sul 38° parallelo e, in prospettiva, il tramonto del
protettorato di Washigton sull’Pacifico occidentale, imperniato
sull’irrisolto nodo coreano. Una Corea riunificata, un Nord assorbito
nella sfera di prosperità alla maniera cinese, nel segno della
“dittatura di sviluppo” pseudo-comunista sarebbe un altro gigantesco e
inevitabile passo verso l’egemonia cinese sull’Asia orientale.