sabato 28 aprile 2018

Corriere 28.4.18
Kim e Moon: guerra finita
Le parole nuove sul tavolo di Trump (e Xi)
di Guido Santevecchi


È un personaggio teatrale, oltre che brutale, Kim Jong-un. Ma forse non recita e non esagera quando dice di essere venuto a Panmunjom, sul versante sudista della frontiera, per aprire una nuova era di pace. Bisogna guardare bene le immagini arrivate in una straordinaria diretta televisiva dal 38° Parallelo. C’è stato calore nell’incontro tra i due nemici, Kim sembrava sincero quando ha preso per mano Moon Jae-in, invitandolo a mettere piede sul territorio del Nord.
Tenendo le loro mani unite e strette i due uomini dell’Asia hanno riportato alla memoria il tedesco Kohl e il francese Mitterrand che seppellirono un’era di guerre nel cuore dell’Europa. È giusto avere speranza.
E sicuramente bisogna credere all’onestà intellettuale di Moon Jae-in, il presidente sudcoreano che da ragazzo è stato in carcere nella battaglia per i diritti civili e la democrazia a Seul e ora ha messo in gioco il suo futuro politico cercando il dialogo con il regime nemico. Moon non si è rassegnato nemmeno nei momenti della massima minacciosità nordcoreana, a costo di sentirsi accusare da Trump di «appeasement», la bolla di disonore politico che pesa sulla memoria occidentale fin dal 1938 quando con il Patto di Monaco le democrazie europee si piegarono a Hitler.
Ora arriva la Dichiarazione di Panmunjom. I leader dei Paesi separati, assurdamente fermi all’armistizio del 1953, quindi da 65 anni ancora tecnicamente in guerra, hanno promesso di trovare un accordo di pace entro la fine dell’anno e di lavorare verso l’obiettivo comune di «denuclearizzare la Penisola». La pace non c’è ancora e scriverla in pochi mesi non sarà facile, perché sotto il Trattato sarà necessaria anche la firma di Cina e Stati Uniti, avversari sul campo nella guerra 1950-1953 che portò gli americani a considerare l’uso dell’atomica per fermare le masse di «volontari» cinesi. E 65 anni dopo, l’arsenale nucleare nordcoreano è ancora al centro della sfida. Che non è finita ieri.
Il secondo tempo di questa partita si giocherà tra poche settimane, nel vertice tra Kim e Donald Trump, che diversamente da Moon non ha nessun motivo sentimentale per fraternizzare con il Maresciallo. Gli Stati Uniti vorrebbero la denuclearizzazione completa, verificata e irreversibile. Non bisogna dimenticare che ancora a gennaio Kim giurava con un ghigno da Dottor Stranamore di avere «il bottone di lancio sulla scrivania».
Sono passati meno di quattro mesi e Kim è venuto al Sud, primo leader nordcoreano a varcare la linea terribile del 38° Parallelo. Le parole concordate con Moon nel documento del vertice suonano anche ispirate e commoventi, quando i due leader si rivolgono «ai nostri ottanta milioni di coreani», per dire che «la nostra urgente missione storica è di mettere fine allo stato abnorme di cessate-il-fuoco e di stabilire la pace, entro la fine dell’anno».
Ma è l’impegno al ritiro delle armi nucleari dalla Penisola l’obiettivo più importante e difficile da mantenere e potrebbe far saltare tutto il progetto dei due coreani. La parola denuclearizzazione può avere diversi significati, a Seul, Pyongyang e Washington. Kim, nei sette anni da quando è al potere, ha fatto sviluppare missili intercontinentali capaci di colpire le città americane e ha ordinato di costruire ordigni nucleari come polizza di assicurazione contro attacchi al suo regime (e alla sua vita). Ha costretto il suo popolo a vivere sotto sanzioni internazionali sempre più strette per completare il piano di «sopravvivenza». E ora non vuole fare la fine di Gheddafi, che aveva rinunciato alle armi proibite e poi è stato bombardato e ucciso.
Resta ancora un alto grado di incertezza sulla bella Dichiarazione di Panmunjom. Vista dalla Casa Bianca è la cornice di un quadro che bisogna riempire con linee chiare e colori non sfumati e opachi. C’è il sospetto che Kim fosse disperato per la crisi devastante dell’economia nordcoreana e stia solo cercando di prendere tempo, ottenere qualche concessione immediata e dividere gli Stati Uniti dall’alleato sudcoreano. Denuclearizzazione della Penisola, come afferma l’impegno generico di Kim e Moon, può presumere come contropartita la chiusura dell’ombrello protettivo americano su Sud Corea e Giappone, il ritiro dei 28.500 militari del contingente Usa schierato dietro il 38° Parallelo. Potrebbe lasciare la Penisola pacificata nella sfera d’influenza esclusiva della Cina, la potenza emergente. Tutto andrà discusso e chiarito. Però senza ricadere in trattative estenuanti e inconcludenti com’è stato in passato. In questo senso, l’impetuosità di Trump può essere un vantaggio.
E anche se Trump ha cattiva stampa in patria e all’estero (e non senza ragione) bisogna dargli atto che la sua linea della «massima pressione» ha sicuramente aperto la via a questa svolta di Kim. Ed è stato abile quando alternava «fuoco e furia» a sorprendenti elogi per «quel tipo sveglio», non ha mai chiuso la porta a un accordo dell’ultima ora. Ha mostrato cautela e comprensione ieri nella sua prima reazione su Twitter: «La Guerra di Corea finisce, succedono buone cose, solo il tempo dirà».
E la Corea aspetta una pace stabile da troppo tempo, ha sofferto sotto il dominio coloniale giapponese dal 1910 al 1945; è stata divisa tra sovietici e americani «provvisoriamente»; è stata insanguinata dalla guerra d’aggressione ordinata dal nonno di Kim Jong-un nel 1950; dopo l’armistizio del 1953 ha vissuto in un clima di paura, segnato da minacce, attentati, cannonate sui villaggi di frontiera. Ora è giusto che le Due Coree dicano che la guerra è finita.