sabato 28 aprile 2018

Il Sole 28.4.18
L’analisi
Ma il disarmo nucleare resta una grande incognita
di Ugo Tramballi


Chi sostiene che il vertice trans-coreano non ha portato risultati, non conosce la storia. Studiarla non garantisce un posto di lavoro ma aiuta a comprendere il tempo nel quale viviamo. Senza sapere cosa fu la guerra del 1950, un’estensione del secondo conflitto mondiale che avrebbe potuto portare al terzo; senza conoscere le violenze e le minacce alla stabilità asiatica alimentate nei decenni successivi, le immagini venute ieri dal 38° parallelo sembrano più comiche che memorabili.
Invece il piccolo salto verso Sud del nordista Kim Jong-un e quello in direzione Nord del sudista Moon Jae-in, con il seguito di scambio di fiori e posa dell’albero della pace, sono forse la fine positiva di un’era e la conferma che il Secolo Asiatico è iniziato. Mentre Jong-un e Jae-in univano due energie opposte, come lo Yin e lo Yang della filosofia taoista, a Wuhan in Cina Xi Jinping e Narendra Modi s’incontravano per sanare le dispute di frontiera che un anno fa avevano avvicinato un conflitto ancora più devastante. Cina e India: ieri a Wuhan con i due capi di stato c’erano un terzo dell’umanità e un quinto dell’economia planetaria.
Detto questo, per quanto storico, il vertice coreano di ieri non ha portato novità riguardo al nocciolo del problema: la diplomazia a quattro – le due Coree, Stati Uniti e Cina – per denuclearizzare il regime di Pyongyang e l’intera penisola. Ieri le dichiarazioni d’intenti erano piene d’ottimismo ma potrebbero nascondere un equivoco. La Corea del Nord è davvero pronta a rinunciare alla bomba o alla fine, ormai conseguita, offrirà solo il congelamento, la fine del suo programma di sviluppo militare ma non la distruzione del suo arsenale? Nella storia dell’era nucleare non si è mai visto un paese dalla geo-politica complicata, rinunciare allo status di potenza atomica. Lo fece il Sudafrica nel 1990 perché l’Urss non esisteva più e il Paese andava verso la fine dell’apartheid. L’Iran ha accettato di fermare il suo programma perché non aveva ancora la bomba e il raggiungimento di quell’ambizione era ancora lontano.
Con il realismo necessario per il successo di ogni negoziato, in questi mesi a Washington si proponeva di concentrare la trattativa sul programma missilistico della Corea del Nord: impedire che Pyongyang sviluppasse il vettore e la tecnologia necessaria per lanciare la bomba il più lontano possibile e con precisione. Quanto all’atomica, ad ogni latitudine terrestre quando il genio esce dalla lampada è quasi impossibile farlo rientrare. Dopo l’insegnamento dell’Iraq di Saddam Hussein che fu invaso perché non aveva la bomba, la Corea del Nord ha costruito la sua per sopravvivere, non per dominare l’Asia. Se oggi vi rinunciasse del tutto o se solo aprisse le sue frontiere normalizzando le relazioni con il Sud, milioni di nordisti fuggirebbero verso Seul. Il regno di Kim sopravvive se resta il regime chiuso, militarista e illiberale che è.
Gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud si accontenterebbero del risultato di avere eliminato – probabilmente solo rinviato a data da destinarsi – la minaccia che rappresentava Pyongyang? Il Giappone no. Durante la campagna elettorale Donald Trump invitava gli alleati a Tokio e Seul a non contare più sull’ombrello nucleare americano, creando invece un loro arsenale.
Fino ad ora coerente con il suo programma da candidato, paradossalmente il presidente degli Stati Uniti potrebbe essere l’unico ad accontentarsi, fino ad accettare il ritiro delle truppe dalla Corea del Sud, in nome della sua “America first”. Se lo scopo è un successo della sua amministrazione traballante, questo dovrebbe bastare. Dalla Corea alla Siria alla Russia, l’incertezza sulle intenzioni di Trump è la costante delle relazioni internazionali. In ogni caso, fatta salva la legittimità storica di quanto accaduto ieri fra le due Coree, l’accordo finale è ancora lontano.