Repubblica 27.4.18 1978- 2018
Aldo Moro Cronache di un sequestro
Arriva
con il comunicato numero 7, quello vero, la seconda fotografia che
diventa il simbolo di una tragedia italiana. Lo statista prigioniero ha
lo sguardo provato e intenso, la camicia spiegazzata, tiene in mano una
copia di “Repubblica” del 19 aprile mentre guarda il suo carceriere. È
la prova che il leader democristiano è ancora vivo Ma la trattativa per
liberarlo è ferma. Nonostante gli appelli del segretario dell’Onu Kurt
Waldheim e di papa Paolo VI, che “prega in ginocchio” i terroristi
di Ezio Mauro
Nell’“
ufficio”, come i brigatisti chiamavano il covo di via Chiabrera, c’era
soltanto un vecchio ciclostile. Quando Moretti consegnava ai due
“postini” un comunicato con la stella a cinque punte, o una lettera del
prigioniero, bisognava pensare alle fotocopie, e quasi sempre Adriana
Faranda e Valerio Morucci usavano un chiosco pubblico a due passi dalla
facoltà di Architettura, dove potevano fare da soli, uno di guardia, una
alla macchina per le copie. Poi, per far ritirare le buste arancioni
coi testi, chiamavano gli intermediari indicati da Moro scegliendoli tra
le persone a lui vicine, allargando ogni volta la cerchia per sfuggire
alla polizia. Parlava Morucci, sempre lui, a nome dell’Organizzazione:
subito le istruzioni, scandite in fretta, per paura che il telefono
chiamato fosse controllato e la cabina da cui il brigatista parlava
venisse individuata. Alla fine, una verifica di sicurezza: «Ha capito
bene? ». Ma prima, appena una voce rispondeva, ecco la formula-incubo
dei 55 giorni: «Pronto, qui Brigate Rosse».
Qualche volta i
“postini” – con la loro fotografia da ricercati appesa al cruscotto di
tutte le “volanti” della polizia – rientravano tardi nel covo, anche se
la regola brigatista non voleva che si stesse in strada di notte. Ma
bisognava controllare da lontano che la busta fosse stata trovata, e
dalla persona giusta, proprio quella che il prigioniero aveva indicato
dal carcere. Poi, la sera nell’“ufficio” le parole che Moro scriveva
venivano lette e rilette e poco per volta la fisionomia del sequestrato
si faceva largo nel paesaggio ideologico, militare e sanguinario dei
brigatisti. Cominciavano a sentire il peso dell’esercizio di quel
“dominio pieno e incontrollato”, il fardello dell’onnipotenza, la
sproporzione tra la pistola e l’inermità, uno squilibrio che l’ideologia
rivoluzionaria colmava, ma che rispuntava da ogni angolo delle lettere,
dove il prigioniero si dibatteva per convincere il governo, per
consigliare la Dc, per rassicurare la famiglia, semplicemente per
continuare a vivere. Leggevano in via Chiabrera i due “postini”,
confidandosi l’un l’altro il primo dissenso per la decisione Br di
rendere pubblica la lettera a Cossiga che Moro pensava dovesse restare
segreta. Leggeva in via Montalcini Anna Laura Braghetti, stupita
dell’angoscia del prigioniero non per sé ma per la famiglia, di cui
riusciva a parlare quasi ogni giorno a Mario Moretti, deviando il corso
dell’interrogatorio.
Nel piccolo vano di fianco alla cella,
insieme coi vestiti che i carcerieri gli avevano fatto cambiare appena
arrivati nel covo, c’era un’agenda telefonica sottile che Moro teneva
nella tasca della giacca al momento del sequestro. Ne aveva un’altra a
casa, verde, più grande, ma quella la portava sempre con sé e per tutto
il periodo della prigionia fu l’unica sua mappa del mondo di fuori.
Bisognava evitare che la polizia intercettasse i messaggi, dovevano
arrivare ai destinatari. E allora ecco che il prigioniero chiedeva
l’agenda, scorreva i cognomi che portavano agli amici di famiglia, agli
assistenti d’università, ai compagni di partito, agli uomini della sua
corrente, agli allievi. Ragionava, sceglieva, trascriveva: poi suggeriva
ai suoi carcerieri nomi, numeri di telefono, indirizzi. I brigatisti
seguivano l’agenda di Moro.
Moretti aveva capito che il sequestro
ormai andava giocato tutto all’esterno. Convinto di avere in mano l’uomo
chiave del meccanismo di potere imperialista, l’anello forte che teneva
insieme il comando americano e l’Italia, si vedeva rovesciare lo schema
da Moro che nell’interrogatorio ricordava la dichiarazione del
dipartimento di Stato Usa di due mesi prima, contrario all’intesa di
governo con i comunisti, confidava la freddezza diffidente di Kissinger
ad ogni incontro, rivelava la sua battuta polemica in una visita di
Stato del ’74: «non credo al dogma dell’evoluzione democratica del Pci,
così come non credo al dogma dell’Immacolata Concezione». Ormai
quell’interrogatorio doveva chiudersi: spendendo sul mercato politico il
suo peso simbolico.
Così il 15 aprile arriva il comunicato numero
6 che apre il capitolo della fine: « L’interrogatorio del prigioniero è
terminato – dicono le prime righe – non ci sono segreti sconosciuti al
proletariato che riguardano la Dc, il suo ruolo di cane da guardia della
borghesia e di pilastro del Sim. Per quanto ci riguarda il processo ad
Aldo Moro finisce qui. Le sue responsabilità sono le stesse per cui
questo Stato è sotto processo». Poi la conclusione, scritta in
stampatello: “Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a
morte”. “Colpevole”, “condannato”, “morte”. Tutta la parabola del caso
Moro è contenuta in queste tre parole, unite da una congiunzione che
cerca e inventa un nesso causale: “pertanto”.
È passato un mese
dal sequestro con la strage di via Fani. In trenta giorni i brigatisti
hanno costruito l’accusa, hanno condotto l’interrogatorio, sono giunti
alla sentenza, montando con il processo una gigantesca macchina
ideologica che dopo aver girato a vuoto, senza produrre le rivelazioni
che cercavano, adesso li porta – in piena autonomia ed esclusiva
responsabilità – all’esito verso cui tutto era indirizzato fin
dall’inizio: la condanna a morte, per la prima volta nella storia delle
Br annunciata in anticipo. Da questo momento, tutto quello che accadrà, o
non accadrà, si muove sotto l’ombra di quel ricatto sospeso.
E
infatti tutto precipita, per spinte casuali, misteriose, interessate,
torbide. Due giorni dopo, il 18 aprile, proprio nell’anniversario del
trionfo democristiano di De Gasperi nel ’48, scatta una provocazione in
grande stile: è la comparsa del comunicato numero 7 che annuncia
“l’avvenuta esecuzione di Aldo Moro tramite suicidio” e rivela che il
corpo si trova nel fondo del lago della Duchessa, a 1800 metri tra il
Lazio e l’Abruzzo. È un falso, attraversato anche da tre errori di
ortografia, fabbricato da uno specialista collegato alla banda della
Magliana, Toni Chichiarelli, che verrà ucciso nel 1984.
Cresce una
confusione cupa, come in una tragica prova generale in cui ogni
scorribanda è possibile, di qualsiasi potere, per qualunque uso o
strumentalizzazione. Il sistema sembra fuori controllo. Ma mentre
centinaia di agenti cercano il corpo di Moro nel ghiaccio del lago,
usando il tritolo, lo stesso giorno si spalanca all’improvviso il più
importante covo brigatista di Roma dopo la prigione: la casa dove vivono
in clandestinità Mario Moretti e Barbara Balzerani, in via Gradoli 96,
interno 11, secondo piano. Alle 7.30 del mattino l’inquilina
dell’interno 7 vede una macchia d’umidità che cresce sul soffitto,
capisce che è un’infiltrazione, suona e non trova nessuno a casa dell’“
ingegner Vincenzo Borghi”, chiama i pompieri che salgono dal balcone
nell’appartamento al piano di sopra e vedono il “ telefono” della doccia
aperto al massimo e appoggiato con la scopa sulla parete, vicino a una
fessura tra le ceramiche.
Ma spenta l’acqua e usciti dal bagno,
scoprono in salotto un vero e proprio arsenale terroristico: un mitra
Km- I, sei pistole, un fucile- pompa a canna mozza, sei pistole con
silenziatore, due bombe a mano, targhe false, divise della polizia e
dell’aviazione, ma anche della Sip e delle Poste, le copie di comunicati
Br, un libro mastro delle spese, due moduli per carte d’identità dello
stesso stock rubato nel 1972 e utilizzato da una terrorista della Raf
che verrà poi uccisa nel 1979 in un conflitto a fuoco a Norimberga. Ci
sono le lenti a contatto di Balzerani, nell’acqua di una bacinella le
camicie da lavare di Moretti. I due erano usciti di casa alle 7, il capo
delle Br per andare a Rapallo a una riunione dell’Esecutivo, Barbara
Balzerani per raggiungere Adriana Faranda nell’“ ufficio” di via
Chiabrera, dove verrà a sapere dal telegiornale che il covo è stato
scoperto. Le telecamere arrivano insieme con la polizia, prima dei
magistrati, spargono la notizia in tutt’Italia: se fosse rimasta
segreta, Moretti al ritorno a casa avrebbe potuto essere arrestato, le
Br decapitate in pieno sequestro Moro. Incredibilmente sfiorato due
volte (dall’ispezione di polizia che trovò la porta chiusa, e dalla
seduta spiritica che fece il nome di Gradoli) il “covo” numero 1 cade
dunque in pubblico, quasi in diretta tv, come se dovesse essere
abbandonato o “consegnato” d’urgenza, salvando i terroristi.
Cresce
la febbre malsana del Paese, mentre il sequestro si sta avvitando su se
stesso e sparge segnali, sospetti, contraddizioni, paure. Le Br devono
smentire il falso annuncio della morte dell’ostaggio, parla Curcio al
processo di Torino, arriva il vero comunicato numero 7, accompagnato
dalla prova che Moro è vivo: è la seconda Polaroid del prigioniero, che
tiene in mano una copia di
del 19 aprile mentre guarda il suo
carceriere che lo fotografa. Lo sguardo provato e tuttavia intenso, i
capelli più lunghi, la solita camicia da cella spiegazzata, aperta sul
collo: lui, che in spiaggia a Maccarese circondato da una folla in
costume, sette anni prima, è l’unico in camicia e cravatta, sotto un
vestito così scuro che sembra una figura artificiale, infilata
bizzarramente in mezzo a quell’immagine- ricordo con il photoshop.
Adesso Moretti controlla la qualità della foto, il giornale, lo
stendardo, poi ritaglia con le forbici qualche millimetro sui bordi del
rettangolo, per eliminare dal retro il codice identificativo della
macchina che ha scattato l’istantanea.
Ma con la prova c’è
l’ultimatum: la Dc ha 48 ore di tempo per accettare uno scambio di
prigionieri, e deve sapere che questa è l’unica strada, “non ce ne sono
altre possibili”. Moro scrive a Zaccagnini, supplica il Papa di
intervenire. La Dc risponde riproponendo la linea della fermezza per il
governo, ma nello stesso tempo chiede alla Caritas di cercare una strada
autonoma per arrivare ai brigatisti e convincerli a rilasciare il
prigioniero. Il Pci ribadisce che «con i nemici della Repubblica non si
tratta, lo Stato non può cedere » , il Psi cerca uno spazio negoziale,
convinto invece che Lo Stato «abbia prima di tutto il dovere di tutelare
la vita dei cittadini».
Si capisce che siamo al momento decisivo.
Dall’Onu il segretario Kurt Waldheim si rivolge in italiano ai
brigatisti attraverso la televisione, chiedendo di liberare l’ostaggio
“senza ulteriori indugi”. Scade l’ultimatum delle Br, e in questo tempo
sospeso, in cui tutti si chiedono che cosa accadrà, arriva il 22 aprile
una lettera autografa di Paolo VI, che la Radio Vaticana legge sei volte
nelle sue 26 lingue: «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse, vi
prego in ginocchio, liberate l’onorevole Moro, semplicemente, senza
condizioni». Il Papa in ginocchio che “prega” i terroristi, chiamandoli
“uomini delle Brigate Rosse”, appare a tutti come lo sforzo massimo cui
il Vaticano può giungere. Ma nella prigione si insegue soltanto il
traguardo del riconoscimento politico, e quell’invito di Montini a
rilasciare il prigioniero “senza condizioni, semplicemente”, viene letto
come una conferma della fermezza, un arroccamento, la chiusura di un
canale. Dunque Papa e Onu vengono scartati, senza risposta. La
macchinazione ideologica messa in campo dai brigatisti produce una
concatenazione meccanica degli eventi, uno schema fisso senza variabili,
che alza al massimo la posta puntando ad un solo risultato. Le Br
adesso si sentono onnipotenti e impotenti insieme, non vedono la via
d’uscita nel clamore universale del caso, negli appelli internazionali,
nella soluzione umanitaria. Come se fin dal primo giorno del rapimento
di Moro si fossero condannati a condannare.
Continuano a sparare. A
Milano hanno appena ucciso con sette colpi di pistola sotto casa
Francesco De Cataldo, maresciallo maggiore delle guardie di custodia,
definito “torturatore di detenuti”: ma a San Vittore i carcerati
decidono una colletta per mandare i fiori al suo funerale. A Roma
feriscono alle gambe l’ex presidente democristiano della Regione,
Girolamo Mechelli, a Torino colpiscono con sette proiettili Sergio
Palmieri, dirigente Fiat alla Carrozzeria. Il penultimo comunicato, il
numero 8, chiede la liberazione di tredici detenuti in cambio di Aldo
Moro. Sei sono brigatisti, in gran parte del nucleo storico (Curcio,
Franceschini, Ognibene, Ferrari, Besuschio, Piancone), tre della banda
XXII Ottobre, due dei Nap, uno è un delinquente comune che si è
radicalizzato in carcere, Sante Notarnicola, rapinatore omicida della
banda Cavallero. Una richiesta che nelle sue dimensioni e nella sua
rilevanza sembra proporre allo Stato un’abdicazione, impossibile.
Nella
sua cella il prigioniero sa soltanto quel che vogliono fargli sapere.
Ma avverte il clima del “covo”, misura lo stato d’animo dei carcerieri,
decifra gli scarsi segnali da fuori. Quando Moretti gli ha annunciato la
condanna a morte, spiegandogli che lo spazio per una trattativa restava
comunque aperto, ha reagito col silenzio, per un giorno intero. Nessuna
risposta alle domande, nessun segnale dalla cella, quasi nessun
movimento. Quel giorno vuole far capire ai carcerieri la disumanità del
percorso che stanno seguendo, la sua indifesa resistenza, le colpe di
ciò che accadrà che vanno cercate dentro la prigione, non fuori
soltanto, come fanno i comunicati brigatisti. Col suo rifiuto
silenzioso, dice alle Br ciò che non può scrivere nelle lettere che
passano per il loro controllo. Lui sa. Non tocca il vassoio del cibo né a
pranzo né a cena, Gallinari lo porta due volte fuori dalla prigione
intatto, lasciando sul comodino solo la bottiglia dell’acqua.
Poi
Moro ricomincia a scrivere, a Craxi, Ingrao, Fanfani, Andreotti, Leone.
Legge i ritagli di giornale scelti dai brigatisti. Ha visto l’appello “
per la difesa della vita di Aldo Moro” pubblicato da
firmato da
intellettuali, vescovi e soprattutto da due comunisti di rango, come
Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice. Ha letto la lettera firmata
dai suoi amici, i professori cattolici Scoppola, De Rosa, Gorrieri,
Paolo Prodi: « L’Aldo Moro che conosciamo non è presente nelle lettere».
Ha sentito che Andreotti è comparso in televisione per spiegare che non
ci sono margini per un negoziato, «la decisione è definitiva ». Capisce
che l’ora zero si avvicina. Chiede di poter ascoltare una messa,
Gallinari e Maccari devono decidere da soli, mentre Moretti è in una
riunione dell’Esecutivo: non possono rischiare che per radio o tv arrivi
fin nella cella qualche messaggio cifrato, una notizia fuori controllo:
e allora Anna Laura Braghetti incide su una cassetta la messa della
domenica, poi portano il registratore a pile a Moro, che ascolta parole e
suoni della funzione, più volte. Chiede anche di poter ricevere un
messaggio della moglie, gli dicono di no perché il canale di ritorno al
“covo” è troppo pericoloso. Il “fortino”, come lo chiama in quei giorni
Gallinari, è sicuro finché è assolutamente segreto, un indirizzo
conosciuto da una sola persona oltre ai quattro brigatisti. Il
sequestrato può chiedere alla moglie di mandare una lettera al
Giorno:
quando verrà pubblicata, le Br lo avvertiranno.
Ma
i carcerieri gli dicono anche che all’improvviso forse si sta aprendo
un canale, proprio mentre tutto sembra chiudersi. È il Psi che decide di
sondare l’area dell’Autonomia, in quel territorio grigio che sta tra il
“movimento” e il terrorismo. Claudio Signorile incontra Franco Piperno e
Lanfranco Pace. Sarà quest’ultimo a muoversi nel mondo dell’università,
cercando un aggancio coi brigatisti. Risponde Bruno Seghetti, e Moretti
decide che Morucci e Faranda siano il contatto. Ci sono incontri in
centro, caffetterie, piazze, bar all’aperto come la pasticceria “
Ruschena” sul lungotevere. Prima i due terroristi replicano in privato
la posizione pubblica delle Br, la linea dei comunicati: scambio dei
prigionieri, riconoscimento politico, attesa di un segnale dalla Dc. Poi
quei colloqui con Pace, che insiste sull’errore politico che le Br
stanno compiendo, allargano la piccola crepa che si era aperta nel
partito armato. In un paradosso dell’ultima ora, il “contatto” non
funziona per aprire un vero canale di trattativa all’esterno del
carcere, ma porta all’interno il seme del dubbio, la contraddizione
politica e umanitaria che dividerà – inutilmente – il fronte
terroristico nella fase finale.
Paralizzata di fronte al
sequestro, la politica riesce ad approvare la legge sull’aborto alla
Camera con i 308 voti favorevoli (contro 275) di comunisti, socialisti,
liberali, socialdemocratici, repubblicani e indipendenti di sinistra. Ma
lo stesso giorno, e anche la notte, nuclei armati terroristici firmano
un’offensiva di fuoco in tutto il Veneto, con incendi, attentati,
sparatorie, molotov, fino alla bomba che nel buio distrugge la sede
della Dc a Mestre. Il segretario della Cgil, Luciano Lama, dice che
«sarebbe un errore gravissimo se lo Stato trattasse con le Brigate
Rosse, anche se in ballo c’è una vita umana, e questo pone un problema
crudelissimo», ma nel sindacato parlano di trattativa uomini di primo
piano come Crea, Bentivogli, Didò, Marianetti. Ugo La Malfa va a piazza
del Gesù per portare la sua solidarietà a Zaccagnini e uscendo annuncia:
«Ho deciso di iscrivermi volontariamente nella lista di attesa delle
Br». Ma a Torino, per ragioni di ordinaria follia burocratica, viene
improvvisamente tolta la scorta a Guido Barbaro, il presidente della
Corte che giudica i terroristi, l’uomo a cui Curcio annuncia dalle
sbarre dell’aula: «Lei è già stato giudicato, come Moro».
Per la
seconda volta in pochi giorni, dal Palazzo di Vetro dell’Onu il
segretario Waldheim manda un appello alle Br, quasi un messaggio
politico: «Il mondo vi guarda. Ma voi sapete che la terribile angoscia
per questa prolungata detenzione può solo danneggiare i vostri
obiettivi, quali che siano. Vi chiedo di rilasciare immediatamente Aldo
Moro. Una tale azione sarà accolta con sollievo in tutto il mondo e
tutti coloro che consacrano la loro vita alla ricerca di una maggior
giustizia plaudirebbero » . Nessuna risposta. Nel vuoto, arriva fino al
carcere una lettera dei figli di Moro pubblicata dal
Giorno
e
indirizzata al papà: « Vogliamo farti giungere un segno del nostro
affetto, dirti che il pensiero di ogni momento ti è dedicato di un amore
nuovo, di giorno in giorno più consapevole di ciò che tu sei e sei
stato per noi».
Voleva essere un messaggio di conforto, era il commiato.
- 8. Continua