Repubblica 1.4.18
Sesso, censura & libertà la verità su “ Ultimo tango”
Il
rifiuto di Belmondo: “Non faccio porno”. La scelta di Brando: “Lo
convinsi con un libro di Bataille”. E poi la scena del burro: “C’era
voglia di trasgredire e pensai: meglio non dirlo a Maria”. La Schneider
non gliela perdonò. Ma ora che il film torna restaurato il Maestro
rivela: ogni opera va vista nel suo tempo. E oggi?
Intervista di Arianna Finos
I
ricordi di una formidabile carriera sono leggeri, oggetti d’arte e
d’uso quotidiano sparsi nell’appartamento elegante ed essenziale, a
Trastevere. Un enorme quadro d’arte contemporanea poggiato a terra
contro il muro del salone, il divano su cui si sprofonda per assistere
da spettatori unici — sogno dei cinefili di tutto il mondo — alla
proiezione di Ultimo tango a Parigi insieme a Bernardo Bertolucci: «Era
importante rivederlo così, sullo schermo grande » . Questo è
grandissimo, il muro dipinto bianco opaco. Durante i titoli di testa —
l’uomo e la donna ritratti da Francis Bacon — il gatto di casa cerca
d’arrampicarsi sullo schermo ed entrare nel film. «Si chiama Uva,
abbandonato in un vigneto a Civitavecchia, una gatta etrusca. Poi
abbiamo scoperto che è un maschio, ma il nome l’ho tenuto: un po’ di
ambiguità non fa mai male».
La prima scena, il parigino ponte di
Bir-Hakeim, il treno che passa sopra e sotto, nel Viaduc de Passy,
Marlon Brando si tappa le orecchie con le mani: “Fucking God…”. «Il
dolly scende su di lui, e dovrebbe continuare panoramicando, ma a fine
scena l’operatore confessa, “Scusa Bernardo, ma ho visto Marlon Brando e
non ho più potuto muovere la macchina da lui”». Il divo leggendario ha
il cappotto di cammello che si lascerà addosso, tra poco, facendo
l’amore con Maria Schneider, ora una sconosciuta che lo sorpassa svelta
tenendosi il cappello a tesa fermo in testa, avvolta nel mantello con i
bordi di pelliccia. Si ritroveranno, per caso, nell’appartamento sfitto
in cui si consumerà quell’amour fou che ha segnato la storia del cinema e
della censura.
È vero che “Ultimo tango a Parigi” è nato da un suo sogno?
«Sognavo
nella vita, ma da sveglio, di incontrare una sconosciuta in un
appartamento vuoto, neutrale, dove ci frequentavamo senza sapere nulla
l’una dell’altro. Un’idea che, ho capito solo dopo, è molto romantica.
Il punto è: questo film deve essere immaginato nel contesto in cui è
nato. Siamo ancora nel ’ 72. Viviamo ancora la grande pulsione
collettiva del ’ 68, vogliamo rompere tutti i tabù, soprattutto quelli
sessuali. Io lavoro un po’ con mio fratello e con Kim Arcalli, il
montatore del Conformista e con cui ho scritto anche Novecento… Avevo un
grande amico che era Gato Barbieri, il miglior sax tenore bianco di
free jazz, argentino, nato a Rosario: quando ascolto papa Bergoglio
parlare italiano mi sembra di sentire la voce di Gato. Il titolo: Ultimo
tango a Parigi è dedicato a lui. Per me il tango era lui e la musica
che ha scritto per il film era romantica e straziante».
Ma aveva anche pensato ad Astor Piazzolla?
«Sì,
per l’arrangiamento. Lo chiamiamo e lui, offessissimo: “No grazie, non
sono un arrangiatore, io sono un musicista”. Due anni dopo, in questa
casa, sento citofonare: “Sono Astor Piazzolla”. Lo faccio salire e lui:
“Ero a Roma e volevo dirti che sono stato un cretino, il tuo film è
bellissimo e avrei dovuto farlo”. Mi regalò un 45 giri, fatto per me, si
chiamava El penultimo tango. Mi ha reso felice».
Fin da subito fu Parigi?
«Sì.
Una sera Goffredo Parise mi chiede: “Cosa fai Bernardo?” (il regista
imita l’accento veneto dello scrittore, ndr). Io: faccio un film che si
chiama Ultimo tango a Parigi. “Che titolo magico”. Nel prepararlo mi
dico: per il personaggio maschile prenderò Jean-Paul Belmondo, Fino
all’ultimo respiro, — io da sempre volevo essere un regista francese — o
Alain Delon...».
Ma prima aveva pensato al “Conformista” Jean-Louis Trintignant.
«Lui
mi dice di no, quasi in lacrime: “Non riesco a essere nudo davanti alla
macchina da presa”. E io: hai fatto i film con la Bardot, con Vadim,
“Sì, ma non ero nudo”. Per la ragazza pensai anche a Dominique Sanda, ma
era incinta. Allora vado da Belmondo, che mi riceve e poi butta la
sceneggiatura sul tavolo: “Non faccio il porno”. Poi incontro Delon: “Lo
faccio ma voglio essere anche il produttore”. Non mi sembra giusto:
troppo pericoloso. Torno a Roma e una sera in piazza Navona, parlando
con un gruppo di amici, viene fuori il nome di Marlon Brando. Chiedo: Ma
c’è ancora? Perché era sparito da un po’ di tempo ed era poco prima che
uscisse Il Padrino. Gli invio la sceneggiatura e riesco a far venire
Brando a Parigi all’hotel Raphael, dove andava sempre Rossellini, è
molto sovrappeso, poi si metterà a dieta. Vuole vedere Il conformista.
Il film finisce, lui si alza sorridendo, il copione in mano: “ Vieni
qualche giorno a Los Angeles, parliamo della sceneggiatura, poi facciamo
il film”. Parto. È la mia prima volta a Los Angeles. È un immenso
parcheggio ma me ne innamoro subito. Mi sembrava di conoscerla già, dai
romanzi di Raymond Chandler e dai tanti amatissimi film noir. Il primo
giorno, sono al Beverly Hills Hotel in pieno jet leg, Brando chiama:
“Tra mezz’ora ti passo a prendere”. Sulla strada deserta incontriamo due
coyote. Eccoci a Mulholland Drive, a casa sua. Siamo stati un mese e
abbiamo parlato di tutto meno che del film».
Quando è nata l’idea di mettere i due dipinti di Francis Bacon sui titoli di testa?
«C’era
la sua prima grande retrospettiva al Grand Palais. Ne esco sconvolto,
mi sembrava contenesse il segreto del film. Ci torno con Vittorio
Storaro, poi con Nando Scarfiotti, lo scenografo del film, alla fine con
Marlon. Sono quadri di una grande drammaticità. Anni dopo una critica
d’arte romana, Lorenza Trucchi, mi dice: “A Londra ho incontrato Bacon, è
felice di avere i suoi quadri nel tuo film”. Arrossii di gioia. Tempo
dopo alla Tate Gallery finalmente me lo presentano dentro una nuvola di
ammiratori. Lui, ubriachissimo, mi chiede: “Com’è Bertolucci?”».
L’appartamento come lo avete trovato?
«Volevo
una stanza rotonda, uno spazio uterino. Chissà di che colore è il
liquido amniotico. Io lo vedevo caldo e vibrante come sarà la luce di
Storaro. E mi piaceva il luogo, tutta la location, l’esterno del palazzo
e il ponte di Passy con le sue passerelle».
C’era anche amore per un certo cinema francese.
«Certo,
e molta ironia sulla Nouvelle Vague. Prendevo un po’ in giro me stesso
con il personaggio di Jean- Pierre Léaud, l’attore cresciuto e coltivato
da Truffaut e Godard, i più grandi, che adoravo. Léaud lavorava sempre
di sabato quando Marlon si riposava, così non si incontravano mai».
È stato difficile lavorare con Marlon Brando?
«È
stato affascinante vederlo incarnare un personaggio disperato,
attingendo alla propria disperazione, seminando schegge del suo privato.
Allora lo vedevo come un uomo che stava invecchiando. Avevo trentun
anni, lui quarantanove. Ora lo vedo così giovane e bellissimo. È stata
l’ultima volta in cui è stato bello. Gli parlo di Bataille, di L’azzurro
del cielo, che è il libro magico su una storia d’amore forte, in cui i
protagonisti scopano forte in un albergo a Barcellona mentre sotto c’è
la guerra civile. E di Ma mère, di questo modo di rompere quel tabù fino
ad allora pericoloso per gli artisti: il sesso. Ricordiamo, per capire
il contesto, che in quegli anni marito e moglie americani dormivano in
letti separati».
Maria Schneider?
«Dopo un cast abbastanza
lungo restano due ragazze, Maria Schneider, piccolo diavolo con i
capelli un po’ afro, e Aurore Clément, un angioletto biondo e dolce.
Naturalmente vince il diavolo. Marlon da subito è molto paterno con lei.
Sul set ci sentiamo tutti in una bolla di creatività, una specie di
stato di grazia collettiva, ci divertiamo molto. Mi piaceva l’idea di
raccontare la parte più animalesca della sessualità perché pensavo in
quel momento che l’unico vero linguaggio tra due persone era quello del
corpo. Poi quel momento lì, ecco...».
Sarebbe la scena del burro che Brando usa per avere un rapporto forzato con Maria.
«Sì.
Passavamo molto tempo in quella casa vuota. Un mattino in cui dobbiamo
girare una scena di sesso forte prevista in sceneggiatura sto parlando
con il mio aiuto regista, Fernand ( Moszkowicz, ndr), c’è Marlon seduto
per terra con noi. Dico: in Ma mère di Bataille un uovo viene usato
durante continua?
una pratica erotica. Bataille era uno scrittore
mitico di quegli anni, aveva esplorato il tema della sessualità più di
chiunque altro. Stavamo facendoci le tartine, le baguette con pane e
burro. Guardo il burro: è un oggetto quotidiano, inoffensivo, ma penso
che usato alla Georges Bataille sarà dissacrante. Parlo con Marlon e
l’idea gli piace. Decido di non dirlo a Maria, perché preferisco la sua
reazione non da attrice ma da persona reale. Dopo Maria si incazza e si
offende perché si sente insultata come attrice. I registi trovano strade
impervie e oblique per arrivare al risultato che vogliono. Ma questo
episodio Maria se l’è dimenticato subito, il giorno dopo era serena».
E invece nella vita è diventata una cosa che l’ha amareggiata moltissimo.
«L’uso
del caro burro di casa come lubrificante fu il picco dello scandalo,
Maria andò a Cannes e le tirarono addosso dei panetti di burro».
La Schneider non l’ha mai perdonata.
«
Prima sì, dopo no. Prima venne felice a tutte le anteprime. Ricordo
bene un’intervista del 1973 al New York Times, per l’uscita del film in
America in cui Maria dice che prima del film aveva paura che io fossi
misogino e lavorando con me ha cambiato idea, e che non c’era nessuna
forma di voyeurismo sul set. “Sarà difficile che riesca a fare un altro
film così nella mia vita”. Dice di come Marlon l’abbia aiutata e
anch’io. Ma forse era troppo giovane. Suo padre, l’attore Daniel Gélin,
non l’aveva mai riconosciuta. Aveva bruciato troppo per la sua età. Alla
fine del film il personaggio di Brando vuole sposarla, lei fugge. Lui
entra a forza in casa, lei lo ammazza, gli spara nelle palle, fine del
patriarcato. Maria era molto contenta del finale del film, era
protofemminista e le sembrava giusto punire quel vecchio macho.
Diventava un po’ come una dark lady di certi B movie americani. Un cult.
Gli scandali di allora erano diversi da quelli di oggi. Negli anni
Settanta il film fu condannato al rogo e io a due mesi per oltraggio al
pudore. Un po’ di tempo fa invece mi hanno spellato vivo sui social con
l’accusa di avere abusato di Maria e qualcuno su Variety ha invocato il
sequestro del film. Oddio, come l’Italia del ’75, non è possibile. Non
c’era mai stato nessuno stupro, nessun abuso. C’erano solo due bravi
attori che sapevano simulare bene, gli si credeva. Questa storia mi ha
dato molto dolore, e mi dispiace che Maria abbia sofferto».
Bellissima la scena tra il marito Brando e l’amante della moglie Massimo Girotti, una sorta di doppio.
« In quel periodo ero ossessionato dal doppio. Nei Sessanta avevo girato
Partner,
storia di un sosia come nel racconto di Dostoevskij. E in Novecento
Olmo e Alfredo sono speculari. Qui c’è l’amante della moglie morta: mi
piaceva vedere Marlon con il suo corrispettivo italiano, Massimo
Girotti, anche lui molto bello. Quando vedo questi pavoni l’uno davanti
all’altro mi viene da ridere ».
Sul set c’è mai stato qualche momento di tensione?
«La
penultima settimana di riprese Marlon non si presenta, mi fa chiamare,
vado a casa sua. Mi dice: “Mio figlio Christian è fuggito da sua mamma
con due strani hippies drogati, sono spariti nel deserto vicino Los
Angeles. Ti prego lasciami andare a cercarlo. Torno tra cinque giorni”. È
angosciatissimo. Dico: vai subito. Lo ha fatto, sapevo che era un vero
professionista. E poi l’ultima scena del film, che solo dopo ho capito:
l’ho fatto correre per tutti gli Champs-Élysées fino alla casa di lei a
Montparnasse. Aveva cinquant’anni, non era allenato, avevo paura che ci
restasse».
Quale fu la reazione di Brando al film?
«Alla
fine delle riprese mi ha detto: “Mi sento svuotato, dettagli intimi
della mia vita, anche dei miei figli sono usciti fuori... non voglio mai
più fare un film così. Anche lui, per qualche anno mi ha messo in
castigo. Lo cercavo al telefono e lui si faceva negare, ma era lì. Poi
mi chiamava una sua amica cinese che mi diceva: Marlon è un po’
arrabbiato, ma se tu fai un film con lui e i suoi pellerossa ti perdona.
E io: “ Non posso, sto andando a Parma a fare un film con i miei
pellerossa, i contadini emiliani”. Ma già sul set di Apocalypse Now a
Vittorio
Storaro chiese: “Come sta the baby prophet?”. Ero io. Mi
aveva perdonato. Evviva! Anni dopo sono a Los Angeles e mi chiama,
“vieni subito”. Corro, emozionato, mi racconta: “Tu non lo sai, è come
se io fossi morto”. Suo figlio aveva ucciso il fidanzato di sua figlia
Cheyenne, che poi si è suicidata. Una tragedia greca. “ Ora sto cercando
di tornare alla vita”. Chiacchierammo fino al buio senza accendere mai
la luce».
Quando “Ultimo tango” arrivò in sala ci fu il terremoto.
«Il
film fu un incredibile incasso, ma dopo tre mesi fu sequestrato. Tornò
in sala e fu risequestrato. Poi condannato definitivamente in
Cassazione. Sparì. Poi negli anni Ottanta mi invitano con un mio film a
scelta alla manifestazione “Ladri di cinema” dell’estate romana di
Nicolini. Mi torna in mente una copia sottotitolata dimenticata in un
sottoscala della Fono Roma. I ragazzi la trovano, la proiettano. Il
giudice li convoca: “Da dove viene la copia?”, “Ce l’ha data il regista
tedesco Fassbinder”. Ma lui era morto da tre mesi. Poi il giudice Marino
mi interroga. Sono passati dieci anni, il concetto di oltraggio al
pudore e all’onore sessuale è cambiato. Il film viene liberato ed esce
di nuovo».
Le tolsero il diritto di voto.
«Sì. Sto girando
Novecento con tutta la mia passione politica. Voglio votare comunista e
mi tolgono il diritto di andare alle urne? Sono arrabbiato ma impotente.
Mandiamo le recensioni di tutto il mondo al tribunale, non serve a
nulla. Per cinque anni non posso votare».
Fu mai insultato al cinema o per strada, a causa del film?
«Per
fortuna solo una volta, sul set di La luna, davanti al cancello di
Villa Verdi, a Busseto. Arriva un’automobile velocissima che quasi mi
mette sotto. Dico: ma scusi che fa, chi è lei? Era un discendente di
Verdi che non ci aveva permesso di girare all’interno. Ma perché,
chiedo, c’è sempre Verdi in tutti i miei film, io adoro Verdi. E quello:
“Lei non adora Verdi, lei adora il burro”. Chiude il finestrino e se ne
va sgommando».
Ebbe due candidature all’Oscar, una a Brando.
«
Non me ne importava nulla in quegli anni e non andai. Per coerenza: mi
sarebbe sembrato di aderire troppo a valori hollywoodiani che ancora non
mi appartenevano. Ma a cosa eravamo candidati?».
Lei alla regia. Una nomination importante.
«Ah
vede, e me ne sono fregato. Mi andava già bene così, ero eccitato. Dopo
quel che era accaduto al film in tutto il mondo, venni preso da grande
sicurezza. Quel successo mi ha dato la possibilità di fare Novecento,
che solo in uno stato di pura megalomania avrei potuto realizzare».
Agli Oscar andò per “L’ultimo imperatore”.
«Quanto tempo c’è dal ’73 all’88? Sedici anni, tanti».
“Ultimo tango” esce in versione restaurata, al Bari Film Festival e poi in sala.
«Sì.
Ci tengo che sia visto su grande schermo e in originale come in tutto
il resto del mondo. Finalmente in Italia si potranno sentire le voci di
Marlon Brando, di Maria e degli altri. Il film vero è quello».
Rivedendolo ora, cosa avrebbe cambiato e cosa invece le piace di più?
«Avrei
insistito meno sulla storia tra Maria e Jean-Pierre, che serve da
intermezzo a quello che succede tra Marlon e Maria nella casa. Quel che
mi piace di più? Le sospensioni... le epifanie, come le chiamava mio
padre».
Ha ritrovato il sogno che aveva a occhi aperti?
«Quel
sogno e il ricordo di un sogno. E mi ha dato allegria rivederlo, anche
se è un film tragico. Ho cercato di guardarlo dal punto di vista del
movimento Mee Too. Mi pare che sia la ragazza a dare il giudizio finale
su quello che è avvenuto. Oggi come allora mi sembra che lei venga
sedotta dal suo fascino, non costretta da lui. Marlon non è un
molestatore, è un disperato. Le opere vanno considerate nel loro tempo.
Questo era un film che, come si dice con una parola molto prosaica oggi,
sdoganava la sessualità. Allora mi sembrava importante ».