domenica 1 aprile 2018

Corriere La Lettura 1.4.18
Cambogia , tre colpevoli per 1.700.000 morti
Pol Pot leader dei Khmer rossi tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 sterminò quasi un quarto della popolazione del suo Paese
di Marcello Flores


Vent’anni fa moriva Pol Pot, alla guida di un regime che tra il 1975 e il 1979 fu capace di sterminare il 21% della popolazione cambogiana, circa 1,7 milioni di persone. Pol Pot era il capo dei khmer rossi, i guerriglieri comunisti diventati, nei primi anni Settanta, da piccolo gruppo settario in lotta con le altre fazioni del Partito comunista indocinese, l’organizzazione capace di guidare l’insurrezione che il 17 aprile 1975 conquistò Phnom Penh, due settimane prima della caduta di Saigon. Erano stati in gran parte i bombardamenti americani in Cambogia (tre volte la quantità di bombe sganciate sul Giappone nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale), lungo la strada di collegamento con il Vietnam dove transitavano gli aiuti militari e logistici ai vietcong, a radicalizzare i contadini e far scegliere loro di rafforzare la tendenza maoista che faceva capo a Pol Pot.
Quest’ultimo — che si faceva chiamare, con un ostentato linguaggio egualitario, «Fratello numero uno» — era alla testa di un gruppo dirigente ristretto e segreto, di cui facevano parte Nuon Chea, Khieu Samphan, Ieng Sary e Son Sen. Accanto a loro operava la polizia segreta, la terribile Santebal, alla cui testa fu posto Kaing Kek Iev, conosciuto col nome di Duch, che organizzò il famigerato carcere di Tuol Sleng, in sigla S-21. A essere colpiti dai massacri di massa furono inizialmente i ceti urbani, soprattutto quelli con un’educazione medio-superiore. Un terzo degli abitanti delle città venne sterminato ma ad esso si aggiunse poi il 15% della popolazione rurale. L’intera minoranza vietnamita venne uccisa, come la metà di quella cinese e un terzo di quella cham (una minoranza islamica). Si uccideva, ma prima si torturava, si violentava, si usava ogni forma di violenza: spesso anche nei confronti di membri del partito considerati tiepidi o inaffidabili, accusati di tradimento, disubbidienza e slealtà. Due milioni di abitanti della capitale vennero deportati in lontane zone agricole, dove in molti morirono di fame e di stenti.
Le notizie dei massacri — in realtà di un vero e proprio genocidio — iniziarono presto a giungere anche in Occidente, ma vennero accolte spesso con scetticismo, soprattutto dalla sinistra, per timore di delegittimare la vittoria del socialismo indocinese contro l’imperialismo americano. Resta famoso, in proposito, lo scontro che nel 1977 — quando inizia una seconda ondata di purghe e massacri — contrappose Noam Chomsky, uno degli intellettuali americani che più si erano impegnati contro la guerra del Vietnam, e gli autori di numerosi articoli e libri che, basati su testimonianze e interviste di rifugiati, raccontavano quanto stava succedendo: e che Chomsky accusava di essere «enfatizzazioni di presunte atrocità da parte dei khmer rossi».
A porre fine al genocidio fu l’intervento armato vietnamita nel dicembre 1978, che costrinse i leader dei khmer rossi a fuggire in Thailandia e Cina. Fino al 1990 le Nazioni Unite, grazie a un accordo tra Stati Uniti e Cina, mantennero loro il seggio nell’Assemblea generale, impedendo così che si potesse attuare qualsiasi forma di giustizia internazionale, cui si oppose successivamente il governo cambogiano, timoroso di far ripiombare il Paese in una guerra civile che era appena terminata, ma che il terribile passato rischiava di fare rinascere. Nel 1994 i khmer rossi vennero messi fuori legge e si divisero, una parte di loro schierati col governo per ottenere un’amnistia. Il 15 aprile del 1998 muore Pol Pot, mentre Nuon Chea e Khieu Samphan si sono arresi. L’anno dopo l’Onu raccomanda che siano un tribunale internazionale e una commissione di verità a giudicare i crimini dei khmer rossi, mentre vengono arrestati gli ultimi leader ancora alla macchia, tra cui Duch, il comandante della prigione S-21.
Di quanto è successo nel corso del genocidio cambogiano si sa ormai molto, a fine secolo, grazie soprattutto al Cambodian Genocide Program della Yale University, in funzione dal 1994, che ha raccolto centomila pagine di archivio della Santebal, seimila fotografie, compilato oltre ventimila profili biografici, raccolto migliaia di testimonianze dei sopravvissuti e costruito una rete di ricerca che ha prodotto migliaia di articoli e centinaia di volumi.
Solamente nel 1997 le Nazioni Unite superano gli ostacoli frapposti dalle grandi potenze per riportare alla memoria collettiva dell’umanità l’incubo dei killing fields , i campi di morte costruiti dai khmer rossi per chi non si adattava alla loro tragica utopia. Ma occorreranno altri anni, fino al 2006, perché le autorità cambogiane e le Nazioni Unite trovino un accordo per istituire un tribunale misto (una «corte speciale» cambogiana e internazionale) che porti alla sbarra i responsabili di torture, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Sono trascorsi trent’anni e le vittime non credono più che giustizia possa essere fatta; ma guardano con speranza alla possibilità che la memoria non venga distrutta anch’essa, e che il Paese possa conoscere e trasmettere squarci di verità sul proprio tragico passato. Il processo a Duch, accusato di avere diretto e partecipato alla tortura e uccisione di oltre dodicimila prigionieri, attirò l’attenzione dell’opinione pubblica perché la prigione S-21 costituiva il simbolo più chiaro della disumana tragedia cui aveva portato l’ideologia dei khmer rossi. Duch si difese sostenendo di avere solo obbedito agli ordini, anche se la sua confessione gettò luce su molti aspetti della politica criminale del regime. Condannato in primo grado a 30 anni, Duch nel 2012 ricevette in appello l’ergastolo, come accadrà due anni dopo a Nuon Chea e Khieu Samphan, che nella sua ultima testimonianza volle «inchinarsi alla memoria delle vittime innocenti ma anche di coloro che morirono credendo nell’ideale di un più luminoso futuro».
Il Tribunale speciale della Cambogia è stato oggetto di polemiche che ne hanno minato la credibilità, per il costo eccessivo, dato il numero ridotto di imputati (di fatto solo tre, essendo gli altri morti nel frattempo), ma anche per essersi dichiarato incompetente a giudicare leader di secondo piano. Il primo ministro Hun Sen (un khmer rosso che si mise contro Pol Pot poco prima dell’invasione vietnamita), ha dichiarato che non avrebbe tollerato altri processi, per non dividere il Paese e riportarlo sull’orlo della guerra civile. Eppure, come ha ricordato Youk Chhang, il direttore del Centro di documentazione della Cambogia, l’attività del tribunale, ha stabilito il principio del diritto di discutere e conoscere all’interno di una società divisa, lasciando un’eredità positiva alla memoria collettiva del Paese. Anche se, probabilmente, il Tribunale speciale terminerà i suoi lavori molto presto, dopo la sentenza di un ulteriore procedimento in cui gli imputati sono ancora Nuon Chea e Khieu Samphan.