Repubblica 1.4.18
Il vero volto della Francia sui confini
di Carlo Bonini
Mai,
come in questa occasione, quanto accaduto a Bardonecchia dimostra come
nell’Europa del 2018, sulla questione dell’integrità dei confini, il
mantra delle grandi cancellerie non sia governare i flussi migratori o i
cosiddetti “movimenti secondari” (i transiti lungo i confini interni
del perimetro di Schengen), ma tirarsene semplicemente fuori. Mai, come
in questa occasione, è evidente come l’Italia, degradata a provincia
meridionale della fortezza assediata, sia stata e continui ad essere
lasciata sola. E, per giunta, a dispetto della circostanza di avere
“cominciato a fare i compiti a casa” da un po’ di tempo a questa parte,
per usare un’espressione cara al nostro ministro dell’Interno Marco
Minniti. I fatti, del resto, sono incontrovertibili. Come documenta lo
scambio di e-mail tra i due Paesi, era da settimane che le autorità
francesi erano al corrente di chi (una Ong) ormai occupasse i locali di
uno spazio frontaliero rivendicato da Parigi per i propri doganieri in
forza di accordi del 1963 e 1988. Così come erano al corrente che fosse
stato fissato per la metà di aprile a Torino un incontro per definire
nel merito dove e come accomodare quegli stessi doganieri. L’irruzione
armi in pugno di venerdì sera a Bardonecchia non è dunque «uno
spiacevole incidente», «un’incomprensione», una rottura del galateo. È
una macroscopica violazione di sovranità che non trova per altro
giustificazione neppure nella circostanza che l’intervento dei doganieri
francesi si fosse reso necessario per tutelare l’integrità dei loro
confini. L’uomo inseguito ed erroneamente ritenuto uno spacciatore,
obbligato in territorio italiano a un illegittimo e per altro negativo
test sanitario delle urine, proveniva infatti dalla Francia diretto in
Italia. La verità è dunque semplice. Al confine di Bardonecchia non si è
consumata la disavventura di quattro spensierati doganieri, ma si è
riproposto il (vero) volto della Francia di Macron sulla questione dei
confini. Non fosse altro perché sono ancora i fatti a dimostrarlo.
Perché prima dell’«incidente» di venerdì sera, il 23 marzo, e sempre a
Bardonecchia, si era consumato il dramma della giovane nigeriana di 31
anni, incinta di 28 settimane, respinta al confine francese e morta dopo
il parto cesareo all’ospedale Sant’Anna di Torino con cui aveva dato
alla luce un bimbo di 700 grammi. E perché prima di Bardonecchia (si era
a pochi giorni dall’insediamento di Macron), Parigi aveva visto bene di
precipitare in una non richiesta e ingiustificata tensione il confine
di Ventimiglia. È dunque insopportabile nella sua sciatteria la reazione
intorpidita di Parigi. La supponenza con cui ieri la questione è stata
degradata a faccenda di dogana (come se si stesse discutendo di
controlli non dovuti su un carico di formaggi) e come tale delegata a
pratica ministeriale da sbrigare dopo le festività. Mentre va al
contrario dato atto a Palazzo Chigi della tempestività e della forma che
ha assunto la nostra risposta diplomatica perché la questione
assumesse, come ha assunto, il peso che ha e deve avere. Il buon senso,
la logica, l’intelligenza politica dovrebbero ora suggerire a Parigi una
sola strada. Quella delle scuse formali. Che una grande democrazia non
dovrebbe avere difficoltà a porgere. A meno che questo non costi un
prezzo politico interno troppo alto. Macron, dal giorno della sua
elezione, ha infatti dimostrato che pur di tenere a bada le pulsioni
populiste della pancia del suo Paese è disposto a pagare il prezzo della
disumanità e dell’arroganza lungo i confini meridionali con l’Italia.
Un esercizio di cinismo che ha contribuito ad eccitare i demoni di casa
nostra. A gonfiare le vele dello sciovinismo leghista. Salvo poi
arricciare il naso con preoccupazione sugli esiti del nostro 4 marzo sui
futuri equilibri europei.