Repubblica 16.4.18
La non elezione alla Presidenza della Repubblica
Le 101 pugnalate a Prodi che cinque anni fa trafissero il Pd
Il
19 aprile 2013 i franchi tiratori bruciarono il Professore e il futuro
del partito Oggi il conto è arrivato a Renzi e D’Alema che, quel giorno,
furono i primi sospettati
di Marco Damilano
Il destino
era già scritto, sul numero civico: piazza Capranica 101. La sede del
teatro Capranica in una piazza a due passi dal palazzo di Montecitorio,
diventato una mattina di primavera di cinque anni fa il Teatro dei
Veleni, il palcoscenico della grande congiura che ha dissolto il sogno
di un grande partito di centrosinistra in grado di governare e di
cambiare l’Italia, per mano di uomini e donne rimasti senza volto.
Nessuno conosce i nomi dei 101 franchi tiratori che nel segreto
dell’urna hanno eliminato Romano Prodi dalla corsa per il Quirinale e,
ancor di più, hanno ucciso il Pd. E nessuno ha mai rivendicato il gesto.
«Lei mi chiede come ho votato. Le rispondo: come mi ha permesso di fare
la Costituzione. Che nome abbiamo scritto sulla scheda quel pomeriggio,
mi creda, non si saprà mai...», mi disse uno dei principali indiziati a
pochi mesi di distanza dall’evento. Aveva ragione.
In queste
settimane il Pd si dimena tra opposizione e irrilevanza, ma tutto è
cominciato, anzi è finito, venerdì 19 aprile 2013, nel teatro Capranica,
poco prima delle 9 del mattino, con l’applauso che dava il via libera
del Pd alla candidatura di Prodi al Quirinale. Sembrava la conclusione
di un incubo per Pier Luigi Bersani, cominciato con la non-vittoria alle
elezioni e il primo exploit del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo,
l’umiliazione del colloquio in streaming con i grillini, lo scontro
sotterraneo con il presidente Giorgio Napolitano, l’incarico di formare
il governo sospeso, congelato, evaporato. E invece, in quella standing
ovation, si erano mescolati odi, rivalità, ambizioni. Era un modo per
nascondersi, non per rivelarsi.
Quando arriva a proporre il nome di
Prodi, Bersani è un segretario del Pd assediato, già sconfitto nel
tentativo, il giorno prima, di eleggere il suo candidato al Quirinale:
l’ex presidente del Senato Franco Marini, ex capo Cisl e democristiano,
deciso nella casa a Testaccio del numero due del Pd Enrico Letta con lo
zio di Enrico Gianni e Silvio Berlusconi. Una scelta che ha l’effetto di
un detonatore nel Pd, come si capisce quando Bersani sale per la prima
volta le scale del teatro Capranica, l’unica sala in grado di contenere i
400 grandi elettori del Pd più gli uomini di Nichi Vendola. Fuori, la
piazza dove c’è l’antico seminario in cui hanno studiato tanti futuri
papi è una bolgia. Manifestini strappati, contestatori che intonano
“Addio Bersani bello”, sulle note di “Lugano addio”, segretari di
circolo che strappano la tessera. Tutti urlano Rodotà, il giurista
diventato candidato ufficiale di M5S. Dentro, tutto si frantuma.
Bersani fa il nome di Marini, a capo chino, con la voce bassa.
In molti parlano per dissentire.
L’intervento
più violento però arriva da Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze non fa
parte dei grandi elettori, parla in tv, dileggia il candidato («ve lo
immaginate Marini con Obama?») e annuncia che i suoi parlamentari non lo
voteranno.
Il giorno dopo in aula ognuno vota come gli pare, alla
luce del sole. Marini cade malamente, Bersani deve cambiare nome. O
votare per Rodotà, con Grillo e Vendola, oppure trovare un altro
candidato, non più concordato con Berlusconi. Gli unici in grado di
ricompattare le truppe sono i due cavalli di razza finora esclusi:
Romano Prodi o Massimo D’Alema. Il cambio matura nelle prime ore del
pomeriggio. Prodi è a Bamako, la capitale del Mali, per una conferenza
internazionale dell’Onu.
Bersani lo chiama per chiedergli la sua
disponibilità a essere il candidato del Pd al Quirinale. In serata viene
convocata una nuova assemblea al teatro Capranica, alle otto del
mattino. I renziani, intanto, si muovono come le correnti dc di una
volta, si riuniscono a Eataly, regno dell’imprenditore amico Oscar
Farinetti, tra ascensori avveniristici e prosciutti appesi alle pareti, e
lì Renzi annuncia il voto per Prodi.
Nella notte ci sono altre
consultazioni, tra l’Italia, il Mali, la segreteria di Bersani, gli
uomini di Prodi e lo staff di D’Alema. Quando i parlamentari arrivano
alle otto del mattino del 19 aprile nel teatro Capranica il copione
faticosamente messo a punto nella notte è stabilito nei dettagli. Ogni
elettore potrà esprimere in segreto la sua preferenza, sono pronte
quattrocento schede bianche.
Bersani parlerà per candidare Prodi al
Quirinale, non da segretario del partito, però, ma da parlamentare
semplice. A quel punto si alzerà Anna Finocchiaro, per candidare
D’Alema.
Invece, colpo di scena. Come previsto, Bersani parla, ma fa
una proposta secca: c’è un solo candidato per il Quirinale, Prodi. La
Finocchiaro tace e parte un lungo applauso. Delle quattrocento schede
bianche non si ricorda più nessuno.
Sembra il richiamo all’unico nome
che può salvare il Pd dall’auto-distruzione, e invece quell’assemblea
che si alza in piedi per l’acclamazione è carica di doppi, tripli
giochi.
D’Alema in privato non ha dubbi: «C’è stato un colpo di mano».
Il
primo a capire che le cose non stanno andando bene è Prodi, che pure è
distante migliaia di chilometri dall’Italia, ancora in Mali. «A Bamako
non arrivavano le mail, ma il telefono funzionava. Dissi a Bersani che
avrei preferito una votazione a scrutinio segreto ma mi rassicurò: “Non
c’è stato bisogno, al tuo nome è partita una standing ovation”. Feci
cinque telefonate. Una a Rodotà, per un rapporto di amicizia personale.
Poi con Marini e Monti. D’Alema mi freddò: “Bisognerebbe consultare
almeno la direzione del partito”. Compresi il messaggio e chiamai mia
moglie: “Flavia, oggi pomeriggio vai pure a quella riunione che hai,
tanto non passa”. L’ultima telefonata con Napolitano: anche lui aveva
capito che la cosa era saltata».
Alle tre del pomeriggio, quando gli
elettori rientrano in aula per votare, piazza Montecitorio è occupata.
Ci sono i grillini che invocano il nome del giurista come allo stadio:
Ro-do-tà. Ci sono i parlamentari del Pdl che hanno deciso di non
partecipare al voto per il nuovo Presidente. Non ne hanno neppure
bisogno per vincere, sono più informati di Bersani sul Pd, sanno già
come andrà a finire. Subito prima del voto, due uomini trafelati nel
corridoio dietro l’aula di Montecitorio sbattono uno contro l’altro. Il
primo è Ugo Sposetti, l’ultimo tesoriere della Quercia: «Non possiamo
votare per Prodi con metà del Parlamento fuori in piazza!», impreca.
«Dobbiamo prendere tempo e votare scheda bianca».
«È tutto finito», gli sussurra pallido il numero due del Pd, il futuro premier Enrico Letta.
Lo
spoglio comincia alle 18.30, le prime schede sono per Prodi, poi il
Professore rallenta la corsa. La presidente della Camera Laura Boldrini
legge lentamente, grave come una Cassandra. Prodi si ferma a 395,
lontanissimo dal quorum, con 101 voti in meno rispetto ai 496 previsti.
Alle 19 è già tutto finito, il delitto è terminato, i parlamentari del
Pdl rientrati in aula si godono la scena, fuori il Pd va a pezzi.
«È
stato Renzi. È un megalomane: ha candidato Prodi e poi ha ordinato ai
suoi di pugnalarlo per uccidere il Pd!». Minuti di follia: in mezzo ai
marmi di Montecitorio i grandi elettori si gettano il corpo (morto) del
partito addosso. «È stato Renzi», urla Andrea Orlando, uno dei giovani
turchi, la corrente di sinistra del partito ostile al rottamatore di
Firenze. Ce l’ha con il sindaco che dieci minuti dopo il risultato
ufficiale ha chiamato i cronisti a Palazzo Vecchio e ha dettato: «La
candidatura Prodi non esiste più». Orlando diventerà ministro della
Giustizia di Renzi e poi suo oppositore. L’ex popolare Lapo Pistelli
impreca: «Questa non è più politica, è un videogame. Mi è venuta voglia
di mollare». Lascerà il Pd, entrerà ai vertici dell’Eni.
Giuseppe Fioroni e Stefano Esposito sono stati previdenti, mostrano a tutti una foto: la scheda con il nome di Prodi.
Il
Professore a Bamako è già stato informato: la France Presse batte la
notizia, alla conferenza gli fanno segno con il pollice, su e poi giù.
C’è un altro dolore che tormenta l’ex premier: ha appena appreso che
l’amico di una vita Angelo Rovati non ce l’ha fatta. «Dopo il voto
Bersani mi ha richiamato, invitandomi a non mollare.
Pensai che i 101
voti mancanti avrebbero creato una band-wagon all’inverso. E poi in
realtà, gli oppositori nel Pd erano più di 101: forse 117, 120.
Così ho rinunciato».
Quel 19 aprile di cinque anni fa è stato l’8 settembre del Pd. La notte del tutti a casa, la morte della patria democratica.
Dirigenti
in fuga, diserzioni, il Pd terra di conquista di potenze straniere.
Quando tornarono nel teatro di piazza Capranica, al numero civico 101,
non c’era più nessuna contestazione, solo un silenzio allibito. Uno su
quattro di loro, vecchie volpi e giovani virgulti, rottamatori e
rottamandi.
La carica dei Centouno, suona disneyano, ma fu un altro
film: il giorno dello sciacallo. Mai un segreto così ampio è stato così
ben custodito, circondato da un’omertà collettiva, osservato e tutelato
da tutti. Di certo nessun interesse a scoprirlo ha mostrato il nuovo
padrone del Pd dopo Bersani, Matteo Renzi.
E quando è toccato a lui
decidere il nome del successore di Napolitano nel 2015 ha fatto di tutto
per affossare la possibilità che tornasse Prodi. È stato quel voto di
cinque anni a determinare la prima rielezione di un presidente della
Repubblica, Napolitano, e il governo delle larghe intese Pd-Berlusconi
presieduto da Enrico Letta. E poi la fine della segreteria Bersani e
l’avvento di Renzi alla guida del Pd e del governo e tutte le
lacerazioni, fino a oggi.
In quel voto a tradimento si è mescolato
chi voleva regolare vecchi conti e chi doveva eliminare Prodi per
stroncare Bersani e costruire un nuovo potere, fondato sul comando del
giovane Principe di Rignano e del suo Giglio Magico. Forse questi mondi,
destinati a odio perenne, il mondo dalemiano e il mondo renziano, nei
101 si incontrarono, in una comune concezione della politica. E per
questo, forse, oggi hanno perso entrambi.
Il segreto di quella
giornata di cinque anni fa è la lettera rubata di Edgar Allan Poe,
davanti a tutti. E nessuno ha mai rivelato l’identità dei 101 perché i
101 non sono mai esistiti. O meglio, coincidono con la natura del
Partito democratico, per come è nato e cresciuto e tramontato. Sono
stati loro, i 101, l’autobiografia di un partito mai nato.
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Romano Prodi all’uscita dal centro congressi internazionale di Bamako dove si trovava il 19 aprile 2013
La manifestazione dei grillini a sostegno della candidatura di Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica
Il fermo immagine dell’esito della votazione che sancì il “tradimento” di 101 parlamentari del centrosinistra
Pier Luigi Bersani al momento del voto. Subito dopo la “congiura dei 101” il segretario del Pd presentò le dimissioni