domenica 15 aprile 2018

Repubblica 15.4.18
Il teorema dei Weil André è uno dei più grandi matematici del Novecento. Sua sorella, Simone, la filosofa partigiana. Nel 1940, lui inizia a scriverle dal carcere lettere speciali, piene di numeri.
Ma ancora straordinarie da leggere
di Paolo Zellini


TITOLO: L’ARTE DELLA MATEMATICA
AUTORI: SIMONE WEIL, ANDRÉ WEIL
EDITORE: ADELPHI
PREZZO: 14 EURO PAGINE: 185
TRADUTTRICE: MARIA CONCETTA SALA

“Non vi è nulla di più fecondo di quei palpeggiamenti un poco adulteri”, di quei “torbidi e deliziosi riflessi”, di quelle “carezze furtive, di quegli screzi inesplicabili” coi quali la ricerca procede tentativamente prima della formazione di una sola e maestosa Teoria. “Il piacere deriva dall’illusione e dal turbamento dei sensi; dissolta l’illusione, ottenuta la conoscenza, si raggiunge al tempo stesso l’indifferenza”.
Quasi si stenta a credere che a scrivere queste righe, al margine di un lungo discorso su come agisce il principio dell’analogia nell’elaborazione di nuove teorie, fosse André Weil, uno dei grandi matematici del Novecento, membro fondatore di Bourbaki, il celebre gruppo di giovani ricercatori francesi destinato fin dagli anni Trenta a esercitare una grande influenza nel modo scientifico.
Quelle parole risalgono al marzo 1940, quando André scriveva all’amatissima sorella Simone dal carcere civile di Le Havre, dove era detenuto per renitenza alla leva, perché riteneva suo dovere “fare il matematico e non la guerra”. Le lettere tra André e Simone sono ora raccolte ne L’arte della matematica, appena pubblicato da Adelphi a cura di Maria Concetta Sala.
Un volume prezioso non solo per la straordinaria qualità dei due interlocutori, ma anche perché proprio il registro confidenziale del carteggio favoriva una rara libertà di espressione e di pensiero. Le ipotesi più azzardate e disinvolte si mescolano alle lunghe e tumultuose digressioni tecniche di André sulle congruenze numeriche e sulle sorprendenti analogie tra numeri e funzioni. Lo stesso fratello matematico si rende conto di aver parlato “in ostrogoto” alla sorella, consapevole che di quelle cose Simone non avrebbe potuto capire nulla. Ma il fascino di questo dialogo epistolare sta proprio nella diversità di percorso che si manifesta tra fratello e sorella, nella distanza paragonata all’affinità, nell’obiettivo distacco tra il formalismo matematico, lontano dal mondo e familiare ad André e il significato simbolico e religioso della matematica greca esplorato da Simone. Questo distacco si legge pure nel larvato rimprovero che Simone rivolge al fratello, invitandolo a riflettere bene sulla sua riluttanza a dare chiarimenti sul significato delle sue ricerche.
La moderna teoria dei gruppi e la teoria degli insiemi, azzarda Simone, potrebbero far sperare di rendere intelligibile e percepibile l’unità tra l’universo e la mente umana, e di far apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione”, un’aspirazione evidentemente assai lontana dalle preoccupazioni formaliste dei bourbakisti. Per Simone era soprattutto l’anima algebrica della matematica, estranea alla civiltà greca e prossima invece a quella babilonese e poi moderna, a impedire quell’unità e quella sintesi conoscitiva.
Nello scambio epistolare emergono congetture ardite e suggestive, che investono tutta la varietà di forme di pensiero nelle civiltà antiche. Per Simone, la geometria greca si fondava soprattutto sull’idea di proporzione.
Ma era essenziale il fatto che si trattasse di proporzione tra grandezze della geometria, come linee e superfici, e non tra i numeri degli algoritmi babilonesi. Senza il passaggio dal calcolo babilonese alla geometria greca, non sarebbe mai avvenuta la scoperta che esistono grandezze incommensurabili.
Su questo punto cruciale, sul significato della scoperta degli incommensurabili, Simone e André avevano idee decisamente contrastanti.
Quella scoperta, per André, avrebbe decretato la rovina del pitagorismo, dell’idea per cui ogni cosa è esprimibile attraverso il numero. Per Simone, invece, la scoperta non fu “affatto una sconfitta per i pitagorici, come ingenuamente si crede, bensì il loro più meraviglioso trionfo”.
Di un dramma si sarebbe in ogni caso trattato, anche perché le tecniche con cui si poteva dimostrare che certi numeri (reali) non sono uguali a rapporti tra interi, potevano minacciare – sostiene Simone – la stessa nozione di verità. Si dimostra che, se la radice quadrata di 2 fosse uguale al rapporto tra due numeri interi, uno stesso numero dovrebbe essere sia pari sia dispari. Una conclusione paradossale, se pur non così assurda per un matematico sufficientemente iniziato agli enigmi della sua disciplina, che poteva contribuire a far nascere l’idea che si possono dimostrare ugualmente bene due tesi contraddittorie. Un argomento, virtualmente utile a certa sofistica, che avrebbe contribuito a diffondere un sapere di qualità inferiore.
André sembra però accogliere alcune idee di Simone sul significato religioso del concetto greco di proporzione. La proporzione e il rapporto, egli nota, sono ciò che si può nominare e la scoperta degli incommensurabili dimostra che esiste una parola che non si può pronunciare, un logos che non è logos. La teoria greca della proporzione suggerirebbe allora che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un “sentimento della sproporzione” tra il pensiero e il mondo, tra l’uomo e Dio, una sproporzione di un’intensità tale da sentire il “bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso”. Certo – aggiungeva scettico André – non si poteva pensare di trovare quel ponte nella matematica. Ma il legame tra matematica e le preoccupazioni filosofiche-religiose era storicamente attestato per l’epoca di Pitagora e la celebre sentenza platonica “Dio è un perpetuo geometra” sarebbe diventata un potente incentivo per imitare Dio, sulla Terra, con gli strumenti della matematica.