Il Sole Domenica 15.4.18
Evgenij Zamjatin
Fantascienza comunista
Orwell (e tanti altri) hanno dovuto molto a «Noi» di Zamjatin, pietra miliare del romanzo avveniristico e della Russia del ’900
di Goffredo Fofi
La
fantascienza ha avuto molti precursori, e con Verne e Wells i suoi
fondatori moderni, l’uno fiducioso nelle macchine e nella scienza, ma
l’altro, degno lettore di Darwin e narratore della società e delle sue
linee di sviluppo, decisamente più pessimista. Si diffuse dopo la
seconda guerra mondiale a partire dagli Usa e dell’Inghilterra come una
forma della letteratura popolare in grado di far concorrenza al romanzo
rosa e al romanzo giallo, le visioni più acute del futuro sono state
espresse da scrittori di prim’ordine e non specializzati nel genere, e
la società a venire è stata esplorata dopo Wells da altri insoliti
europei, il praghese Karel Capek con la commedia R. U. R. (1920), dove
ricorreva per la prima volta la parola robot, derivazione da robota che
in ceco significa lavoro; dal russo Evgenij Zamjatin con il romanzo Noi,
steso intorno al 1921-22, ma che per la pubblicazione in Russia ha
dovuto aspettare gli anni della perestrojka, il 1988, mezzo secolo dopo
la morte dell'autore, pur avendo visto la luce assai prima in Germania e
in America, e in Italia grazie a Ettore Lo Gatto nel 1955; l'inglese
Aldous Huxley con Il mondo nuovo (1932), seguito molti anni dopo, 1958,
dalle riflessioni di Ritorno al mondo nuovo; e infine l’inglese George
Orwell con uno dei grandi libri del Novecento, 1984, edito nel 1949. In
tutti questi casi si è trattato di distopie, di utopie negative, non
ottimistiche sul futuro dell’uomo e della società. Ci sono oggi
evidenti, alla luce di quanto è accaduto poi, le ragioni dei pessimisti,
e ci appaiono ingenue fino a risultare insopportabili quelle delle
fantascienza ottimista, degli ideatori su carta di società egualitarie,
ecologicamente sane, dove la tecnica è messa al servizio dell’uomo e non
viceversa. Rileggendo a distanza di anni Zamjatin, ci si rende ben
conto di quanto Orwell (e tanti altri con lui) gli hanno dovuto, e se ne
apprezza l’intelligenza e la forza in rapporto a quelli che sono stati i
sogni del comunismo sovietico, dei piani quinquennali, dell’ideologia
dello sviluppo, del pensiero unico, della priorità dello stato.
Ingegnere
navale, Zamjatin scrisse Noi quando aveva poco più di trent’anni, e
negli anni caldi della rivoluzione, quelli in cui non si era ancora
affermata e consolidata con Stalin e con Zdanov un’idea di cultura e di
arte, al servizio non del popolo ma del partito e della sua idea di quel
che il popolo avrebbe dovuto diventare, essere. Inventando un futuro
molto lontano, Zamjatin immagina un mondo futuro dove tutti sono uguali
ma c’è un Benefattore assistito da Custodi - che ci appare come un
antenato diretto del Grande Fratello orwelliano - che arriva perfino a
giustiziare personalmente i refrattari ostili all’ordine stabilito, che
viene presentato e viene vissuto da tutti come ideale, privo di
conflitti, di assoluta razionalità: un’armonia forzata che è bensì
considerata da tutti come la perfezione del bene. Il protagonista e
narratore approva in pieno questa società, dove il sesso è regolato come
tutto il resto e dove tutti hanno un numero e non un nome (il suo è
D-503) finché non incontra una donna da cui è attratto ma che lo
sconcerta per la sua ironia, una qualità assente nelle altre donne con
cui ha a che fare. Per suo tramite, potrà anche conoscere il mondo oltre
il confine della perfetta società, un mondo di refrattari all’ordine
stabilito ridotti però a uno stadio di brutalità e selvaggeria. (La
contrapposizione tra i due gruppi ricorda fortemente quella tra i
Morlock e gli Eloi, abitanti del lontanissimo futuro ipotizzato da Wells
in La macchina del tempo.) Va anche ricordato che il protagonista è un
ingegnere addetto alla fabbricazione di una sorta di astronave che dovrà
esportare su altri pianeti il modello della società che lo ha prodotto,
e che l’azione del romanzo andrà focalizzandosi attorno alla
possibilità di impadronirsene e farne un buon uso.
Secondo
l’ottimo curatore di Noi, Alessandro Niero, i “due poli spirituali”
della vicenda, per l'ingegnere Zamjatin esperto di termodinamica, sono
“energia” ed “entropia”, la tendenza alla quiete e quella al movimento,
alla mutazione continua anche nell’idea di società. E dietro le idee di
Zamjatin si può forse ipotizzare un modello politico e rivoluzionario
che non è certamente quello di Stalin (e neanche di Lenin) ma che si
avvicina a quelli di Trotskij, quello della “rivoluzione permanente” o
“ininterrotta”, che possiamo malamente riassumere in una dialettica
storica continua tra il momento della febbre e quello della quiete, una
quiete che una nuova febbre deve interrompere affinché nuovi poteri non
ci opprimano, affinché il mondo, la storia, possano andare avanti. E
certamente Zamjatin credette nella rivoluzione, pur vedendone i limiti e
preoccupato del suo consolidamento in mano a una perfetta burocrazia e a
una ideologia unica imposta con la forza. Vi credette allo stesso modo
di un Pilnjak, che condivise con lui la condanna da parte della
burocrazia e morì nel gulag mentre Zamjatin riuscì a espatriare
rifugiandosi in Francia, dove fu tra l'altro co-sceneggiatore del film
che Jean Renoir trasse dall’Albergo dei poveri di Gorkij e dove morì nel
1937.
Boris Pilnjak, oggi in Italia dimenticato, è stato uno dei
grandi scrittori dei primi anni post-rivoluzionari, grande anzi
grandissimo. Non si può dire lo stesso di Zamjatin, certamente buon
scrittore dalle idee chiare sul presente e il futuro del suo paese e del
mondo: Noi rappresenta un punto cardine nella storia della letteratura
avveniristica e della cultura russa del Novecento, ma anche nella
traduzione di Niero che indoviniamo, non conoscendo il russo, ottima (e
che gli Oscar hanno lodevolmente preso dall’edizione Voland del 2013),
non appare come un romanzo innovativo nella forma come nelle idee,
spesso un po’ faticosa soprattutto se paragonata all'originalità ed
esplosività della scrittura di Pilnjak ma anche alla limpidezza di
quella orwelliana. Orwell scoprì Noi nella traduzione francese nel 1946 e
gli deve certamente molto, ma ne disse anche, come ricorda Niero nella
sua prefazione, che «per quanto posso giudicare, non è un libro di
prim’ordine». Questo nulla toglie alla sua importanza storica e alla sua
capacità di accostarci a un futuro che è ancora nostro in modi più
preoccupanti che mai. Zamjatin ne era pienamente cosciente, dicendo
della sua opera in un’intervista francese del 1932 che Noi non era un
pamphlet politico, bensì «un campanello d'allarme per il duplice
pericolo che minaccia l'umanità: il potere ipertrofico delle macchine e
il potere ipertrofico dello stato».
Evgenij Zamjatin, Noi (My) , traduzione a cura di Alessandro Niero, Oscar Mondadori, pagg. 236, € 12