Il Sole Domenica 15.4.18
Pasquino nel cielo papistico
Un
nuovo studio sul bestseller del primo ’500: sotto accusa la corruzione
della Chiesa cattolica e l’armamentario di vuote pratiche devozionali
di Massimo Firpo
Sempre
apparso anonimo, il Pasquillus extaticus fu un vero e proprio best
seller dei primi anni quaranta del Cinquecento, come testimoniano tre
edizioni in latino con numerose varianti e tre in italiano (in due
diverse versioni), destinate alla circolazione europea le prime e al
proselitismo riformato al di qua delle Alpi le altre. Di queste esistono
anche numerosi manoscritti che ne documentano ulteriormente la larga
diffusione, attestata anche da una coeva traduzione tedesca e una più
tarda traduzione olandese. A scriverlo e a raccogliere i testi che vi
compaiono fu Celio Secondo Curione, un letterato piemontese convertitosi
alla Riforma e rifugiatosi nel 1542 dopo varie peripezie in Svizzera, a
Basilea, dove si sarebbe infine avvicinato a dottrine radicali, sempre
più distanti dall’ortodossia calvinista.
È merito di questo studio
aver stabilito con buona certezza che il testo latino fu pubblicato per
la prima volta a Basilea nel 1541, quando il suo autore non aveva
ancora preso la via della fuga oltralpe, all’indomani della quale fu
stampata a Venezia la prima edizione italiana, che fu quindi successiva.
Sono queste due editiones principes ad essere qui pubblicate con
introduzioni storiche e testuali, note di commento e apparato critico.
Non stupisce che il Sant’Ufficio romano giudicasse «perniciosissimo» il
libello constatandone il successo nell’ambito dei gruppi e movimenti
filoriformati in Italia. Con il Beneficio di Cristo, l’Alfabeto
cristiano, la Tragedia del libero arbitrio, la Medicina dell’anima,
testi anch’essi apparsi negli anni quaranta del secolo, sullo sfondo
delle prime convocazioni del concilio di Trento, il libro fu uno dei più
presenti sui piccoli scaffali clandestini di cui si nutriva una nuova
identità religiosa sempre più costretta agli artifici della
dissimulazione.
In quelle pagine, infatti, la pungente satira
delle pasquinate romane dei primi decenni del secolo si spersonalizzava,
non investiva più singoli personaggi, ma un’intera istituzione, la
Chiesa cattolica, passando dalla beffa morale alla polemica religiosa
per denunciarne la corruzione e arricchire l’arsenale delle armi con cui
combattere la battaglia per l’abbattimento dell’Anticristo papale. Non
più versi satirici fatti di insulti e più o meno triviali allusioni, ma
un dialogo umanistico e pedagogico tra Pasquino e Marforio, sulla base
di evidenti modelli erasmiani, che si propone come «una grandiosa
ricapitolazione secolare in grado di mostrare al lettore come i tempi
della rovina definitiva della Chiesa romana fossero ormai maturi» (p.
23). Un’opera militante, dunque, in cui il racconto fatto da Pasquino di
un viaggio nel cielo papistico (un demoniaco e infernale cielo alla
rovescia) offre lo spunto per investire di una critica feroce frati e
monache, confessori e martiri, scalzando dalle radici l’imponente
edificio della Chiesa visibile e l’infausto armamentario di pratiche
sacramentali, liturgiche e devozionali da essa proposto ai fedeli,
spingendoli nell’abisso di una pietà farisaica e superstiziosa.
Venerazione delle immagini, purgatorio, voti, pellegrinaggi, digiuni,
celibato ecclesiastico, messe di suffragio, indulgenze, miracoli, tutto
veniva triturato nella macchina antipapale del Pasquillus curioniano,
che investiva non solo e non tanto i comportamenti, ma soprattutto le
dottrine erronee che li legittimavano, sì da configurare il discorso
come una sintesi della teologia riformata.
Per esempio, se la
denuncia dei «fratacci» che, anziché fuggire il mondo «lo portano seco
ne’ monasterii, […] dove non si vede già altro che passioni d’animo e
mere pazzie, con che cercano di scacciarsi l’un l’altro o di innalzarsi»
(p. 212), poteva rifarsi all’erasmiano «monachatus non est pietas», è
evidente il magistero della Riforma laddove si criticavano coloro che
preferivano lasciare il monopolio delle cose sacre ai presunti «gran
teologi», perché credere «semplicemente» non significa credere
«ignorantemente» e ogni cristiano ha il dovere di conoscere la Scrittura
(p. 217). Se la denuncia del cielo papale come un empio «mercato»
simoniaco (p. 230) ripropone antiche invettive anticuriali, di chiara
matrice eterodossa sono gli strali contro il culto dei santi (vero e
proprio pantheon neopagano), i «novi e orribili riti» e le infinite
superstizioni popolari di cui si nutriva, per esortare invece a porre
ogni speranza di salvezza solo e soltanto nella fede in Cristo (pp.
232-33), unico «advocato nostro» (p. 244), senza «tanti miracoli fatti a
mano, tante fraterie, tanti publichi mercati di meriti e buone opere»
(p. 237).
Un cielo tuttavia, quello papistico, sempre più
gravemente insidiato da moderni guastatori, «bravi uomini», in massima
parte tedeschi, ma anche «assaissimi italiani et franzesi» che ne
preparavano il definitivo crollo scavandone le malcerte fondamenta,
fatte di «cappucci, rosari, vesti succide, capelli tagliati, veli di
monache e mille fogge di vesti, mille di scarpe, mille di berette, mille
di colori, […] pesci fradici, erbaggi, ligumi, lasagne, mitre
pontificali», e sostenute dai muri ormai pericolanti della
Superstizione, della Persuasione, dell’Ignoranza e dell’Ipocrisia (pp.
229-30). I tempi stavano cambiando rapidamente, scriveva Curione,
evocando con grande violenza verbale quanti avevano ormai «comminciato a
caccar nei capucci, a forbirsi il culo coi rosarii, a farsi beffe dei
pelegrinaggi, ad aver a scherzo quelle putanesche astinenze e ad aver in
somma abominazione tutte le superstizioni» (p. 235). Una violenza che
scaturiva dal suo sentirsi schierato in prima linea nella guerra in
corso tra verità ed errore, Riforma e papismo, evocata anche dai nomi di
numerosi personaggi che compaiono in queste pagine, illustri
riformatori come Zwingli, Melantone, Butzer e non meno illustri
cardinali come Sadoleto, Aleandro, Carafa, o grandi sovrani europei in
guerra tra loro. Tra di essi figura anche Erasmo da Rotterdam,
rappresentato come una vela esposta a ogni vento perché «non si seppe
mai, né dai suoi scritti si può sapere, s’ei s’appressasse più al ciel
divino o al papistico» (p. 268). Un giudizio severo dal quale lo stesso
Curione non tarderà a prendere le distanze, ispirandosi al De immensa
Dei misericordia per il suo scritto più celebre, il De amplitudine beati
regni Dei, pubblicato nel 1554.
Celio Secondo Curione,
«Pasquillus extaticus» e «Pasquino in estasi», Edizione storico-critica
commentata, a cura di Giovanna Cordibella e Stefano Prandi, Olschki,
Firenze, pagg. 314, € 38