lunedì 16 aprile 2018


internazionale 15.4.18
La settimana
Giovanni De Mauro
Ferrovieri


In Francia c’è uno sciopero. Anzi, trentotto. Per protestare contro la riforma delle ferrovie voluta da Emmanuel Macron, i sindacati hanno deciso di sperimentare un metodo di lotta nuovo con un calendario che prevede trentotto giorni di sciopero in tre mesi. Il governo vuole modificare lo statuto dei ferrovieri, aprire alla concorrenza, sopprimere di fatto novemila chilometri di linee secondarie, ma non propone nessuna soluzione per ridurre il debito accumulato in questi anni (54 miliardi di euro) né progetti per lo sviluppo del sistema ferroviario. Macron si preparava a un braccio di ferro solo con la Cgt, il sindacato più forte tra i ferrovieri, lo stesso che nell’autunno del 1995 era riuscito a far arretrare – sempre sulla riforma delle ferrovie – il governo di destra di Alain Juppé. Si ritrova invece ad affrontare un fronte sindacale più ampio, i primi segnali di un allargamento delle proteste ad altri settori e un’opinione pubblica che appoggia sempre di più la mobilitazione: due settimane fa i francesi che approvavano gli scioperi erano il 42 per cento, oggi sono il 46 per cento. Lo scontro è tra due modelli, servizio pubblico da un lato e deregolamentazione dall’altro, ma anche tra diverse visioni dell’Europa. Per questo i ferrovieri ripetono che la loro battaglia riguarda tutti: se Macron riuscisse a sconfiggerli poi potrebbe far passare più facilmente le altre riforme annunciate, a partire da quella delle pensioni. “Il governo pensava di avere un vantaggio ideologico, ma oggi è sulla difensiva, incapace di spiegare in che modo l’apertura alla concorrenza migliorerà il servizio pubblico o perché un diverso statuto dei ferrovieri ridurrà il debito”, ha osservato Françoise Fressoz su Le Monde. Intanto su un muro dell’università di Tolosa-Le Mirail, occupata da settimane, qualcuno ha scritto: “Maggio ’68. Loro commemorano. Noi ricominciamo”.

internazionale 15.4.18
Cuba
Successione senza Castro


“Il 19 aprile l’assemblea nazionale cubana nominerà il nuovo presidente di Cuba. Per la prima volta dall’inizio della rivoluzione nel 1959 il paese sarà guidato da un leader che non si chiama Castro”, scrive El Nuevo Herald. “Nessuno sa con certezza cosa succederà il 19 aprile”, scrive 14ymedio. Probabilmente Raúl Castro, 86 anni, subentrato a Fidel nel 2006, passerà il testimone all’attuale vicepresidente Miguel Díaz-Canel di trent’anni più giovane. “Oggi è improbabile che emergano altri successori”, scrive Jon Lee Anderson sul New Yorker. “Díaz-Canel è vicepresidente da cinque anni e la sua nomina darebbe un messaggio di stabilità ai cubani e al resto del mondo”. Castro resterà segretario generale del Partito comunista

internazionale 15.4.18
Stati Uniti
La rete sotterranea
The California Sunday Magazine, Stati Uniti


“Negli Stati Uniti c’è una rete segreta di donne che lavorano al di fuori della legge e delle strutture mediche convenzionali per fornire aborti sicuri ed economici”, scrive il California Sunday Magazine. Secondo alcune stime, questa rete è formata da circa duecento donne in tutti gli Stati Uniti. “Non è un’organizzazione centralizzata, quindi è difficile dire quanti siano stati gli aborti fuori dai canali legali, ma secondo alcune indagini sarebbero almeno duemila negli ultimi tre anni”. La nascita della rete è avvenuta di pari passo con l’approvazione di leggi sull’aborto sempre più restrittive. oggi in alcuni stati, soprattutto al sud, abortire è praticamente impossibile: tra il 2011 e il 2016 i provvedimenti approvati dai parlamenti statali a maggioranza repubblicana hanno portato alla chiusura di almeno 160 cliniche. alcune delle volontarie che fanno parte della rete sono ostetriche o infermiere, altre sono semplici attiviste che hanno imparato la procedura per l’interruzione di gravidanza. A rivolgersi a questa rete sono soprattutto le donne che non hanno i soldi per abortire legalmente o che vivono troppo lontane da una clinica.

internazionale 15.4.18
Il valore politico della soia
In Cina le importazioni di soia statunitense sono aumentate a dismisura negli ultimi vent’anni. Per questo l’aumento dei dazi da parte di Pechino potrebbe avere gravi conseguenze
Di P. Waldmeir e T. Hancock, Financial Times, Regno Unito


“Un filare su tre va in Cina”, dice davanti al suo campo di soia Bill Wykes, un contadino dell’Illinois. Nell’ultimo decennio Wykes e molte delle aziende agricole statunitensi a conduzione familiare nella contea di Kendall, nella “cintura della soia”, hanno puntato molto sulla Cina e sul suo crescente consumo di carne, che ha fatto aumentare anche le vendite di mangimi animali a base di soia. Oggi questi campi sono al centro di un’incombente guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che hanno minacciato d’imporre dazi commerciali per miliardi di dollari. La Cina cerca d’insinuarsi tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e gli elettori delle aree rurali di cui lui avrà bisogno al voto di metà mandato in autunno. Il 3 aprile Washington ha annunciato dazi su 1.300 prodotti cinesi, e Pechino ha risposto con dazi del 25 per cento su vari prodotti statunitensi, tra cui la soia. Le due potenze stanno ancora tastando il terreno. In una guerra commerciale in teoria la Cina sarebbe la più svantaggiata perché esporta negli Stati Uniti più di quanto importi. Trump potrebbe inoltre sperare di ottenere dei vantaggi politici dal suo atteggiamento intransigente con i cinesi. Ma Pechino è convinta che gli agricoltori faranno pressioni su Trump perché scongiuri la guerra dei dazi. La Cina è il principale mercato estero per la soia statunitense: nel 2017 il paese asiatico ha assorbito il 56 per cento delle esportazioni americane. La cintura della soia statunitense si estende per tutto il midwest e comprende aree che nel 2016 hanno votato per Trump, oltre a importanti stati in bilico come l’Iowa. Se ci sarà una guerra commerciale, anche il governo cinese potrebbe subire pressioni politiche, tenuto conto del ruolo cruciale della soia nella sua economia. L’esplosione del commercio di questo legume negli ultimi vent’anni coincide con la storia dell’espansione della classe media cinese. Trent’anni di salari in aumento hanno fatto più che raddoppiare il consumo pro capite di carne in Cina, passato dai 20 chili all’anno della fine degli anni ottanta agli attuali 50 chili. La carne di maiale è la più consumata in Cina e nello stesso arco di tempo il numero di maiali macellati nel paese è passato da meno di 400 milioni a 700 milioni. Per soddisfare una domanda simile, la Cina ha favorito la nascita di grandi allevamenti riforniti da gruppi agroindustriali che producono mangimi a base di soia, ricchi di proteine, adatti a far ingrassare i suini. La produzione di soia cinese soddisfa il consumo di appena sei settimane. Quindi le importazioni sono passate in vent’anni da mezzo milione a novanta milioni di tonnellate, un terzo del consumo mondiale. Pechino, inoltre, non ha molta scelta tra i paesi da cui importare: Stati Uniti, Brasile e Argentina producono il 90 per cento della soia mondiale, e l’Argentina esporta soprattutto soia macinata, che i cinesi non usano.
Nuovi orizzonti
Pechino ha il calendario dalla sua. L’autunno e l’inizio dell’inverno nell’emisfero meridionale sono le stagioni in cui importa dal Brasile: ha sei mesi prima di dover ricorrere alle spedizioni dagli Stati Uniti. Il grande rischio per Pechino è che una guerra commerciale faccia salire l’inflazione, temuta per i disordini sociali che potrebbe causare. La Cina inoltre subirà le pressioni di centinaia di importatori, delle imprese che macinano la soia o che producono mangimi, e di allevatori che impiegano centinaia di migliaia di persone. Il settore è minacciato dalle eccedenze, quindi le aziende coinvolte dovranno affrontare un aumento dei costi. L’unico modo che la Cina ha di affrancarsi dalla soia statunitense è inondare di denaro nuove regioni per stimolare la produzione di soia. Qualcuno ha accennato a paesi come l’Ucraina. Ma questo non aiuterà Pechino nel confronto con Trump.
Da sapere
Un obiettivo comune
Al discorso di apertura del Baoao Forum for Asia il 10 aprile, una sorta di vertice di Davos asiatico, il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato un monito contro la “mentalità da guerra fredda”, promettendo di aprire di più la Cina agli investimenti stranieri. Senza fare riferimento allo scontro sui dazi in corso con gli Stati Uniti, Xi ha detto che Pechino non punta a registrare un surplus commerciale e che è pronta ad aumentare le importazioni. Bbc

internazionale 15.4.18
Cina
Sotto controllo
The Diplomat, Giappone


Dopo l’ascesa del presidente Xi Jinping a un livello di potere mai raggiunto dopo Mao Zedong, si parla del rischio di totalitarismo in Cina. Ma nella regione autonoma dello Xinjiang il controllo sulla popolazione è già degno di uno stato totalitario. Lo Xinjiang è abitato dalla minoranza musulmana degli uiguri, e confina con la Russia, la Mongolia, le repubbliche centrasiatiche, l’Afghanistan e il Pakistan. Per Pechino è da sempre una regione sensibile. Ma negli ultimi anni la sicurezza è diventata una priorità nella regione, cruciale per i corridoi economici della nuova via della seta che collegheranno la Cina all’Asia centrale, al Medio Oriente e all’Europa. nel 2017 il governo locale ha speso 9,1 miliardi di dollari, il 92 per cento in più del 2016, in strumenti per la sorveglianza elettronica nelle città, gps installati su tutti i veicoli a motore, scanner per il riconoscimento facciale nelle stazioni ferroviarie e in quelle di servizio, raccolta di dati biometrici e di campioni di dna della popolazione.

internazionale 15.4.18
Visti dagli altri
La crisi della sinistra passa da Ferrara
In questa città storicamente rossa ha vinto la Lega. Gli intellettuali ferraresi danno la colpa al Pd, che non ha ascoltato i cittadini, e alla mancanza di dibattito politico
Di Juliette Bérnabent, Télérama, Francia


L’ auto rallenta e ha i vetri abbassati. “È finita la cuccagna!”, urla il guidatore mostrando il pollice all’insù davanti alla sede della Lega, in pieno centro storico. Sulla soglia Alan Fabbri e Nicola Lodi, i responsabili locali del partito, salutano. I due leghisti scandivano questo slogan prima delle elezioni del 4 marzo per attaccare la sinistra che da tempo governa Ferrara. E poi hanno vinto: Maura Tommasi, la loro candidata, è stata eletta alla camera dei deputati. La Lega, con il circa il 25 per cento, ha gli stessi voti del Partito democratico (Pd) e del Movimento 5 stelle, ma grazie ai meccanismi della legge elettorale e alla coalizione di centrodestra ha battuto il ministro dei beni culturali Dario Franceschini, di Ferrara, dal 2001 deputato del Pd. La cultura è la ricchezza di questa cittadina dell’Emilia-Romagna. È la sua arma di fronte al declino dell’agricoltura e dell’industria. Il profilo maestoso del castello estense, i bastioni restaurati che tracciano una lunga passeggiata, le mostre di pittura, i concerti di musica classica nei palazzi rinascimentali e l’università: Ferrara, provincia agricola sul delta del Po, è una città colta, intellettuale. Questo non le ha impedito, però, dopo aver votato per sessant’anni a sinistra, di liberarsi della sua etichetta di città “rossa”.
L’Italia è di nuovo in una fase d’instabilità politica, dopo che Lega e cinquestelle hanno indebolito i partiti tradizionali, Pd e Forza Italia. E gli intellettuali ferraresi incassano il colpo.
“Al sicuro nella nostra bolla non abbiamo visto arrivare questa sventola”, ammette Pietro Pinna, 40 anni, ricercatore di storia contemporanea e militante di sinistra. “L’errore è stato quello di credere nel potere eterno dell’eredità politica: quasi tutti qui hanno un nonno operaio e comunista. Ma non si vota più per lealtà”. Strumentalizzare la paura Davanti a uno spritz al Leon d’oro, dove gli anziani gustano pasticcini, Alan Fabbri, barba e coda di cavallo, non nasconde la sua soddisfazione. Alle legislative del 2013 la Lega aveva ottenuto solo il 2,8 per cento. “Abbiamo costruito una base elettorale solida parlando di sicurezza, economia e immigrazione”, dice. Accanto a lui Nicola Lodi mostra il suo orgoglio. La vittoria elettorale si deve molto anche a questo barbiere di 40 anni, che organizza manifestazioni contro i migranti e i rom e fa “inchieste” popolari: compra droga dagli spacciatori locali e filma tutto con una telecamera nascosta. Poi denuncia gli spacciatori ai carabinieri. Il suo negozio si è trasformato in un ufficio reclami. “La sinistra da tempo non ascolta più nessuno”, dice. “Noi siamo qui, tutti hanno il nostro numero di cellulare. Ci occupiamo dei problemi veri”. Nel cuore di una delle regioni più ricche d’Europa, rispetto alle città vicine Ferrara è un po’ la sorella minore e complessata. Non ha il successo di Modena con la Ferrari né il trionfo della gastronomia di Parma né il tessuto di piccole e medie imprese di Bologna. La sua popolazione (132mila abitanti) invecchia, la disoccupazione ha raggiunto il 10,6 per cento (nel resto della regione è al 5 per cento, nel paese all’11 per cento). Le sue contraddizioni saltano agli occhi: un centro magnifico, intellettuale e acculturato accanto a periferie rurali tristi e poco istruite. “È una provincia storicamente agricola, dove la bonifica totale delle paludi risale a meno di un secolo fa”, ricorda Pietro Pinna. “Con il declino dell’agricoltura e poi del polo chimico, Ferrara ha avuto difficoltà a valorizzare la sua riconversione. Eccetto che sul piano culturale”.
Gioiello del medioevo e del rinascimento, “è una città immersa nella foschia, in senso letterale e figurato, è come se fosse immobile”, dice lo scrittore Roberto Pazzi, 71 anni. “Per questo è sempre stata d’ispirazione per gli artisti: qui si deve riempire il vuoto”. Culla della scuola pittorica ferrarese nel rinascimento, della pittura metafisica inventata da Giorgio de Chirico e da altri artisti sui letti dell’ospedale militare nel 1917, la città ha visto nascere Michelangelo Antonioni e crescere Giorgio Bassani, autore del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini, portato sul grande schermo nel 1971 da Vittorio De Sica. Bassani è sepolto nel cimitero ebraico.
A partire dal duecento gli ebrei, protetti dagli estensi, formarono a Ferrara una delle più importanti comunità italiane. “Stranamente Ferrara ha sempre affidato il suo destino ai despoti”, osserva Pazzi. “Governata per trecento anni dalla casa d’Este, dal 1598 passò sotto il papato, poi seguì Mussolini e infine il comunismo, accolto con lo stesso fervore un po’ cieco”. Qui negli anni venti i grandi proprietari terrieri aderirono con passione al fascismo. I braccianti, invece, costruirono un’organizzazione di stampo comunista fatta di sezioni locali, sindacati, case del popolo. Un paradosso storico ancora vivo, per esempio nel paese di Goro, dove alla fine del 2016 i cittadini hanno impedito che venissero accolti una decina di migranti (naturalmente il barbiere Nicola Lodi era lì) e la Lega ha fatto il pieno di voti. “Eppure a Goro, impregnata di cultura della solidarietà, il 45 per cento degli abitanti ha votato a lungo comunista”, sottolinea Pinna. “E lo spaccio di droga non è una novità: quando ero adolescente i tossicodipendenti si bucavano in pieno centro. La novità è che oggi gli spacciatori sono neri. La sinistra non ha saputo parlare di immigrazione e la Lega si è avventata su questo silenzio per strumentalizzare la paura”. Nel suo bell’appartamento in pieno centro, dove aleggia l’odore dei sigari, Lola Bonora, 82 anni, non riesce a calmarsi. “Che spreco! Tutta la nostra cultura finirà nelle mani di persone sgradevoli e ignoranti della Lega e dei cinquestelle”, tuona. Dal 1974 al 1994 ha diretto un importante centro di videoarte che ha ospitato Andy Warhol e la performer Marina Abramović, e ha organizzato collaborazioni con il Moma di New York o il Centre Pompidou di Parigi. “La sinistra ha dimostrato una terribile arroganza. Ha creduto di poter vivere per sempre di rendita in questa regione che l’ha sempre votata. E ha finito per abbandonare l’esercizio quotidiano di un governo più vicino alla gente. Questo terreno abbandonato è stato invaso dai populisti”. L’analisi è condivisa dall’ex sindaco Roberto Sofritti, 76 anni, che ha amministrato la città dal 1983 al 1999. “La politica è fatta di idee, di coraggio, di pragmatismo. E soprattutto del dialogo con le persone. ogni giorno andavo a piedi in comune, facevo visita a tutte le sezioni locali del partito. Non bisogna perdere il contatto con il territorio”. È nato a Ferrara e suo padre, un militante comunista, fu assassinato nel 1944 dai nazifascisti quando lui aveva tre anni. L’ex sindaco è entrato nel Partito comunista a diciannove anni. È stato lui a scommettere sulla cultura e sulle alleanze. “Con Nino Cristofori, braccio destro di Giulio Andreotti, abbiamo collaborato, nonostante le divergenze, alla nascita nel 1989 di Ferrara Musica con Claudio Abbado e la Chamber orchestra of Europe. Stesso discorso vale per il rettore dell’università, un liberale, con cui abbiamo collaborato per attirare i docenti e aprire i dipartimenti. La facoltà è passata da cinquemila a diciottomila iscritti”. Perino i suoi avversari, che lo accusano di clientelismo, ammettono che è stato capace di far risplendere la città, dal 1995 patrimonio mondiale dell’Unesco e meta di un fiorente turismo culturale.
Mentre i cinquestelle si attestano da cinque anni intorno al 25 per cento, la Lega è riuscita a ottenere una crescita spettacolare grazie a promesse semplicistiche: fine dell’immigrazione clandestina, uscita dall’euro, autonomia delle regioni, una lat tax al 15 per cento. E grazie anche all’impoverimento della cultura politica italiana. “Gli intellettuali hanno abbandonato il dibattito politico che un tempo molti di loro amavano, sia a destra sia a sinistra”, sottolinea Lola Bonora. “Dopo venticinque anni di cultura berlusconiana – una televisione che istupidisce e il culto del denaro e della menzogna – nessuno sa più pensare, argomentare, discutere”. Sofritti conserva invece un po’ di speranza: “Il fascismo è un brutto seme italiano e, anche se lo nega, è proprio quel seme che la Lega ha fatto fiorire. Ma abbiamo sofferto troppo, non posso immaginare il futuro di Ferrara senza la sinistra”. La Lega, però, ha buone speranze di vincere le elezioni amministrative del 2019: Alan Fabbri potrebbe ottenere la carica di sindaco e il barbiere Lodi quella di assessore alla sicurezza. Nonostante l’ottimismo di Soffritti, oggi Ferrara dice basta alla sinistra.

internazionale 15.4.18
Libri
Adriano Sofri - Una variazione di Kafka Sellerio, 209 pagine, 14 euro
di Frederika Randall, The Nation.


Sembra un giallo di Alicia Giménez-Bartlett o di Andrea Camilleri, con il titolo enigmatico e quella copertina blu. E, in un certo senso, questo delizioso errata corrige sulla Metamorfosi di Kafka lo è. Si scopre che i traduttori di mezzo mondo, in un passo del famoso racconto, hanno preso lucciole per lanterne: alcuni scrivono di Strassenlampen (lampioni), altri di Strassenbahn (tram). Com’è successo? Sofri, filologo dilettante ma fine investigatore, ha scoperto l’errore (è un errore?) e cova inoltre sospetti di truffa e plagio. Come mai un errore così evidente non è mai stato corretto? E perché, se l’onore della prima traduzione in spagnolo del 1925 spetta alla femminista e intellettuale Margarita Nelken, il grande Borges non ha mai davvero smentito di esserne l’autore? Sofri consulta traduzioni in sei o sette lingue, scava nel diario di Kafka e nella sua corrispondenza con Felice Bauer, fa lavorare sodo Google Translate a cui dichiara la sua “riconoscenza”, snocciola sessanta pagine di note. Però, aggiunge, “non sono ottimista circa l’accoglienza della mia correzione”. Forse perché il filologo professionista non supporta il principiante che fa con leggerezza quel che a lui costa parecchia fatica? Sarebbe un peccato.

internazionale 15.4.18
Libri
Timori ingiustificati
Di Igiaba Scego
Chiara Ingrao e Giulia Pintus - Mal di paura - Edizioni Corsare, 32 pagine, 16 euro


La paura domina la nostra epoca. Ogni giorno siamo bombardati da notizie che ci fanno tremare dalla testa ai piedi. Ci sono le guerre e i maremoti, ma anche l’indifferenza della gente. E da questi allarmi serviti quotidianamente come se fossero un dessert (ma bello amaro) nascono paure spesso anche irrazionali. La paura è un sentimento che ci ha aiutato a sopravvivere ai pericoli, ma quando è troppa non va bene. È questo avvertimento che Chiara Ingrao lancia nel suo delizioso libricino dedicato alla paura, illustrato altrettanto deliziosamente da Giulia Pintus. Ingrao esamina in parallelo la paura di grandi e piccini. E da questa prospettiva le paure dei grandi appaiono spesso dettate dall’egoismo, come appunto l’odio per l’altro o una paura esagerata per i microbi. Nei bambini la paura è invece più sensata e fa trovare soluzioni (hai paura del buio? Basta una stellina accesa sul comò per vincere questa angoscia). Ingrao non condanna il sentimento in sé, ma le sue esagerazioni. E mostra che tutto può essere valutato anche da un altro punto di vista. Usa la filastrocca, che non solo dona leggerezza al testo, ma ci regala anche un sorriso.

internazionale 15.4.18
Svizzera
Le donne contano poco
Di Nzz Folio, Svizzera


Nel 2018 in Svizzera l’equal pay day (il giorno in cui le donne raggiungono il reddito guadagnato dagli uomini nel 2017) è caduto il 24 febbraio. Questo, spiega Nzz Folio, vuol dire che per avere lo stesso reddito degli uomini le donne hanno dovuto lavorare 55 giorni in più. In Svizzera la differenza media tra gli stipendi degli uomini e delle donne è compresa tra il 12,5 e il 18,1 per cento. “tra le persone che guadagnano meno di 4.500 franchi svizzeri (circa 3.800 euro) al mese per un lavoro a tempo pieno sei su dieci sono donne. tra quelle che guadagnano più di sedicimila nove su dieci sono uomini”. Tra gli amministratori delegati delle 118 maggiori aziende svizzere ci sono solo cinque donne, aggiunge il mensile, mentre nelle altre posizioni di vertice la quota femminile è del 7 per cento. Una delle poche amministratrici delegate, Simona Scarpaleggia, che guida Ikea Svizzera dal 2010, ha deciso di fondare Advance, una rete di settanta aziende che si propone di portare al 20 per cento la quota di donne ai vertici delle imprese svizzere.

l’espresso 15.4.18
Sinistra in prestito
di Salvatore Borghese, Valeria Fabbrini e Lorenzo Newman
Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Così il M5S si è impadronito di un’eredità. Per adesso o per sempre?
La traversata del deserto/2
Dopo l’intervento di Paola Natalicchio continua sull’Espresso la discussione sul destino della sinistra. Gli autori di questo articolo sono tre giovani ricercatori: Salvatore Borghese è caporedattore di Youtrend; Valeria Fabbrini è specializzata nel monitoraggio e valutazione degli investimenti e della spesa pubblica; Lorenzo Newman è Principal Consultant di Learn More


Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e di policy. Di base, però, essere di sinistra rimanda a un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Nel solco di questa tradizione, secondo Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante. L’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È un’attitudine, prima ancora di essere una posizione politica. Con la fine della cortina di ferro, nasce il Washington Consensus. La convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali - globalizzazione, competizione - rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei, il principale punto di riferimento di Matteo Renzi.
In Italia l’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è rimasto sostanzialmente immutato nell’ultimo quarto di secolo. I dati elettorali dal 2008 in poi dimostrano che il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socioeconomiche. La classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. La classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito procapite, in maniera talvolta vertiginosa. I dati più recenti evidenziano come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città. In questo contesto si può capire cosa rappresenti realmente il Movimento agli occhi dell’elettorato e della sua potenziale classe dirigente solo capendone le sue battaglie identitarie sui media: il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza è l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi. La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi decisionali. I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui Internet permette la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment. Si tratta di un’idea di sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx. E dunque: i processi partecipativi proposti dal Movimento sono, filosoficamente almeno, di sinistra. Le loro battaglie identitarie - onestà e sostegno ai poveri - sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra - inteso sia come vecchi elettori che come profilo sociodemografico degli elettori del 2008 - è in buona parte defluito nei Cinque Stelle. La sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al “discontento” senza dover ascoltare e rappresentare il “discontento”. Il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto ascoltare e rappresentare il “discontento”. I governi del centrosinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, ma raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti come l’istituzione dell’Anac e il nuovo codice degli appalti, ma non sono riusciti a diventare elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria hanno accresciuto l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico. Nella percezione mediatica, i simboli della sinistra odierna sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Ossessioni da élite che non sarebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e una rappresentanza da élite. Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di una tendenza pluridecennale. Similmente, i tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post ’92 stanno formando un nuovo establishment che, per quanto poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che alcune componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, sta già avvenendo. La sinistra italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando ai valori di sinistra tradizionale. Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un mutamento di leadership: in un caso Carlo Calenda, Nicola Zingaretti nell’altro. In entrambi i casi, bisogna partire dal riconoscimento che i Cinque Stelle si sono impadroniti di alcune battaglie storiche della sinistra. Strutturalmente e storicamente è molto raro che un establishment anziano viva grandi cambi di rotta. Ma in assenza di un cambio di rotta, è lecito dubitare che la sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura.

l’espresso 15.4.18
Liberté sécurité hostilité
Bardonecchia. Il Front National. L’Europa. Un grande filosofo francese riflette sul suo Paese. E sugli ideali perduti
colloquio con Michel Foessel di Gigi Riva
“Sono stato europeista fino alla crisi greca, quando ho visto le istituzioni europee comportarsi in modo poco democratico. Ad Atene abbiamo imposto una tale dose di violenza da far credere che l’Europa sia solo tecnocrazia e budget, senza nessun ideale».


Dunque, professor Michaël Foessel, lei non è più europeista?
«Come potrei non esserlo? Non sono per “quel” tipo di Europa, ma ho lavorato su Kant e il cosmopolitismo e mi affascina sempre l’idea politica non legata all’etnia o alla nazione ma transnazionale. Voglio essere cittadino europeo con identità plurale, mi piace pensare a una forma di democrazia che vada oltre gli Stati-nazione».
Anche perché, per biografia, lei, oltre che francese, si sente anche un po’ tedesco.
«Esatto, passo diversi mesi in Germania. Ho 43 anni, appartengo a quella generazione cresciuta con frontiere che non sono muri e mi ci sono abituato, mi trovo bene. Mi spiacerebbe rinunciarvi». Michaël Foessel è considerato tra i filosfoi più brillanti della sua generazione. Ma non fa della sua materia una disciplina astratta. Scrive abitualmente su temi d’attualità per “Libération”. Per le sue opinioni viene collocato a sinistra, un “démocrate radicale” (autodefinizione). Nel 2013 ha ereditato da Alain Finkielkraut la cattedra di filosofia all’ “École polytecnique”. Collabora con la rivista “Esprit”. Dirige la collana “L’ordre philosophique” per l’editore Seuil. Lunedì 16 aprile alle 18,30 sarà a Roma, all’ambasciata di Francia, per l’esordio dei “Dialoghi del Farnese” con il collega italiano Maurizio Ferraris. In questa intervista con “L’Espresso” affronta i temi cruciali del nostro tempo: populismo, democrazia, migrazioni. E libertà, naturalmente. Tema che nella sua terra si lega strettamente alle leggi varate dopo i terribili attentati dello Stato islamico. Partiamo proprio da qui. Lei, professor Foessel, si professa inquieto per la “banalità securitaria” che è una cifra della contemporaneità. E ha individuato un “legame strutturale tra il neoliberismo e lo Stato securitario”. Ce lo spiega?
«Da quando le persone sono esposte a rischi sociali sono spinte a chiedere soprattutto sicurezza in un mondo diventato incerto. È una tendenza in atto da almeno tre decenni nelle democrazie occidentali. Prevale la convinzione che la funzione principale, se non esclusiva, delle istituzioni sia dare sicurezza. Sicurezza alimentare, sicurezza chimica, sicurezza della salute. Qualunque cosa si traduce in sicurezza».
Dunque è una postura che ha origine ben prima degli attacchi islamisti.
 «Sì. Certo il terrorismo ha rimesso al primo posto la sicurezza contro questa violenza cieca. E la società civile si affida allo Stato per essere protetta».
Lei fa una differenza tra “sûreté” e “sécurité”, termini che in italiano suonano simili.
«Nella tradizione dei Lumi, nei liberali come Montesquieu, la “sûreté” è la sicurezza per i cittadini di essere al riparo delle intrusioni dello Stato nella vita privata. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo si sostiene lo stesso concetto. Oggi la “sûreté” ci è negata a causa della sorveglianza ossessiva cui siamo sottoposti, al controllo delle telecomunicazioni eccetera. La “sécurité” riguarda invece il rapporto dei cittadini tra di loro. Con le leggi antiterrorismo varate in Francia o negli Stati Uniti si è sacrificata la “sûreté” alla “sécurité”, si è ampliato il potere dell’amministrazione e dello Stato».
Da questa sua analisi è lampante la conclusione: siamo meno liberi.
«Molto meno. In Francia le leggi varate sulla sicurezza pubblica, la riforma del codice penale e altre, sono andate tutte nella stessa direzione».
Secondo lei, le leggi speciali sono la sola risposta possibile al terrorismo?
«Non sono un politico. Ce la presentano come unica soluzione. Però non ha funzionato, non ha garantito il termine degli attentati. Quelle leggi finiscono per avere un impatto su tutti i cittadini anche se non sono terroristi. E colpiscono diverse categorie di persone, i militanti ecologisti, i militanti radicali».
Tuttavia è la stragrande maggioranza dei cittadini a esigere più sicurezza.
«È vero e contemporaneamente è falso. Esiste la domanda, ma non è quella prioritaria. Vengono prima altri bisogni, il lavoro, la salute. La sicurezza è l’ideale che resta quando sono caduti gli altri». In aeroporto, tanto per fare un esempio, siamo più sollevati se vediamo controlli accurati. «Perché è una domanda legata al rischio che esiste. Ma bisogna chiedersi come mai l’opinione pubblica accetta e reclama misure che mettono in discussione i diritti fondamentali, come quello di asilo. La mia ipotesi è che siamo nella società del rischio e non potendo chiedere altre protezioni (come contro la disoccupazione) ci spostiamo verso la domanda securitaria e ci rallegriamo per i militari nelle strade».
In definitiva lei vede in crisi i valori sui quali è nata l’Europa.
«Dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa si è fondata su due valori fondamentali come la pace e il consolidamento dei diritti umani. Il secondo aspetto, ma anche il primo in verità, è a rischio. La stessa evoluzione recente delle democrazie non procede nel senso favorevole all’Europa. I movimenti populisti e autoritari hanno successo perché sfruttano le promesse non mantenute dell’Europa».
E mettono in pericolo l’esistenza stessa della democrazia.
«Se la democrazia si riduce ad elezioni più o meno trasparenti no. Se intendiamo invece la democrazia come un modo di produrre libertà politica e promozione dell’uguaglianza delle condizioni, come diceva Tocqueville, allora sì siamo in pericolo. La deriva antidemocratica è evidente ed è già largamente presente in Polonia, nell’Ungheria di Orbán che ha vinto le elezioni domenica scorsa».
Abbiamo un problema con la democrazia. E anche con gli Stati nazionali. Avrebbero dovuto cedere quote di sovranità all’Europa e invece il nazionalismo, soprattutto a Est, pare più forte di prima. «Evidente che sia così. Le divisioni ormai non si producono più sul paradigma destra-sinistra. La linea di frattura è tra la “mondializzazione felice” e la ripresa di nozioni nazionaliste-stataliste. Si torna allo Stato come sistema di protezione dell’individuo senza che questo significhi un beneficio per la democrazia. Manca una terza chance, ora: quella di restare fedeli all’ideale federale europeo senza abbandonarlo solamente a una concezione tecnocratico-finanziaria».
E torniamo alla sua critica sulla gestione della Grecia.
«Che non riguarda, attenzione, solo Bruxelles. Ma anche l’atteggiamento di alcuni governi del Continente».
Il banco di prova per capire se l’Europa avrà un futuro o meno, sostengono in molti, è come risolverà la crisi dei migranti.
«L’Europa non ha mantenuto sul tema le promesse di cittadinanza del mondo perché il diritto d’asilo viene negato e l’egoismo nazionale ha vinto. Per riconciliarsi con l’intuizione europea bisognerebbe, ad esempio, che Bruxelles fosse più dura con Orbán».
Nemmeno la Francia sta dando grande prova di sé. L’incursione a Bardonecchia dei suoi doganieri per controllare alcuni profughi ha choccato chi, come noi italiani, è abituato a considerarvi all’avanguardia, la patria dei diritti dell’uomo.
«La realtà è che eravamo all’avanguardia dell’estrema destra. Voi avete scoperto da relativamente pochi anni la Lega Nord. Noi il Front National lo conosciamo da 40 anni, ha radicalizzato la politica francese, e sui temi come l’immigrazione abbiamo concesso molto all’opinione pubblica più vociante. La Francia non ha fatto su se stessa il lavoro storico compiuto dalla Germania. Continuiamo a prendere misure discutibili sulle libertà e ci presentiamo come il Paese dei diritti dell’uomo. Conserviamo la memoria dei momenti felici e ci dimentichiamo del resto».
Si riferisce a Vichy? «A Vichy, alla colonizzazione. In Francia c’è una sorta di deificazione della République, però continuiamo a far regredire lo Stato di diritto».
Ma l’episodio di Bardonecchia l’ha colpita o no?
«La Francia ha agito in modo stravagante. Non ha rispettato le frontiere per proteggere meglio le proprie. Mah. È un modo di volere la fine dello spirito europeo che reclamerebbe solidarietà. Quando un Paese come l’Italia è in difficoltà, subisce un attacco dal populismo tale da mettere più o meno in pericolo la democrazia, si fa un colpo di mano. Invece non bisognava abbandonare l’opinione pubblica italiana ai suoi demoni. È chiaro, per riprendere il concetto, che sui migranti l’Europa si gioca quel po’ che le resta come credito. Ma le sue istituzioni, in tutto ciò che riguarda l’economia, sono neutre. Neutre sulla Catalogna, neutre sull’immigrazione. Quando si tratta di politica, tutto passa sotto i suoi radar. L’ideale europeo resiste non a livello di istituzione ma di società civile. In Francia la gente manifesta la sua solidarietà sulle Alpi, alla frontiera italiana, molti cittadini ancora si dicono europei».
Il fantasma che si aggira oggi per il Continente è quello del ritorno degli anni ’30. Anche lei se ne è occupato.
«Un approccio storico ci dovrebbe far concludere che le differenze sono molte. Il consenso verso la democrazia è più forte oggi di allora. Eppure già 20 anni fa il filosofo Gérard Granel avvertiva che “gli anni ’30 sono davanti a noi”. Intendeva dire che, se le cause che hanno prodotto fascismo e nazismo sono passate, le condizioni che le hanno rese possibili sono sempre attuali. Dunque bisogna essere attenti e valutare le similitudini. Quello che si dice sull’Islam oggi comincia pericolosamente ad assomigliare a quanto si diceva di altri popoli negli anni ’30. Non voglio dire che siamo alla vigilia di un nuovo fascismo ma nemmeno che è un fenomeno accidentale, terminato. Il mondo moderno è quello della democrazia, ma anche quello dei totalitarismi».
La paura della diversità alimenta una guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i penultimi (gli europei impoveriti).
«In periodo di crisi è più facile prendersela con qualcuno che riflettere sulle cause. Certo l’immigrazione massiccia non ha aiutato. E manca la visione portata dalla sinistra negli anni ’30, prima di essere battuta, e che unificava le classi sociali popolari. Oggi sovente sono i movimenti populisti di destra a essere presenti nelle classi popolari. E, scusi, ma i 5 stelle sono di destra o di sinistra?».
Non lo abbiamo capito nemmeno noi in Italia.
«Allora mi consolo. So che hanno una piattaforma che si chiama Rousseau… Comunque populisti e contro le élite, mi pare chiaro».
L’impoverimento di molte classi sociali e persino del ceto medio è l’altro effetto, oltre a quello della richiesta di sicurezza, del neoliberismo?
«Sì. A partire da Reagan e dalla Thatcher lo Stato è diventato un agente del mercato e applica le stesse regole del mercato alla sua funzione pubblica attraverso i manager. Così mette gli individui in perenne concorrenza tra di loro, in perenne lotta per la sopravvivenza. Così creando riflessi di sfiducia e calcolo verso gli altri. La caratteristica della società è il calcolo permanente. Quanto mi costa mettere in prigione qualcuno? E se lo lascio libero ciò che farà fuori mi costa di più? Ecco perché nella società del calcolo il disoccupato guarda il migrante come un concorrente e non come qualcuno con cui c’è qualcosa da condividere».
Ha vinto Hobbes.
«Ha vinto l’Hobbes dello stato di natura, dell’uomo lupo per l’uomo. Ma Hobbes pensava che bisogna rimediare alla conflittualità, il potere deve intervenire sul mercato per limitarlo. Mentre oggi si considera che lo stato di natura è il mercato stesso».
In questo “mercato” la Catalogna come molte altre regioni ricche vogliono seccedere dai governi centrali per non mantenere le aree più povere.
«Succede perché è in crisi il paradigma della redistribuzione, il desiderio di uguaglianza. I catalani non vogliono aiutare l’Estremadura, i lombardi quei mafiosi dei siciliani... Eppure io non credo che gli individui siano così egoisti e ritorti su se stessi».
La sinistra è morta in questa assoluta assenza di solidarietà?
«È molto malata a livello istituzionale, come la democrazia, come anche la destra storica. Per certi versi è comprensibile dopo che è affondato il modello comunista e se la passa male pure quello socialdemocratico. Però la sinistra continua a esistere nella società, in modi di vivere solidali. E alcuni suoi temi sono ripresi da movimenti come i 5 stelle».
Infine. Lei ha scritto che il gesto di Arnaud Beltrame, il gendarme che a Trebes, nel sud della Francia, si è sostituito a un ostaggio durante l’attacco jihadista a un supermercato e che poi ha trovato la morte non può essere un modello. Sembra riecheggiare il Brecht di “sventurato il Paese che ha bisogno di eroi”.
«È stato sicuramente un atto di eroismo, un gesto personale di libertà assoluta. Ma proprio perché un gesto individuale, non può essere proposto come modello politico».