lunedì 16 aprile 2018

Il Fatto 16.4.18
A Roma è morta l’ironia: rimossa l’opera di street art di Sirante
di Enrico Fierro


“E arrivarono quattro gendarmi con i pennacchi, con i pennacchi. E arrivarono quattro gendarmi con i pennacchi e con le armi”. Tranquillo, caro Leonardo Coen, non voglio canticchiarti la bellissima canzone di De André, mi difettano corde vocali e talento canoro. Citavo solo per dirti che a Roma i gendarmi sono arrivati davvero. Ed erano in quattro, in divisa ma senza pennacchi, accompagnati da solerti funzionari dell’ufficio decoro del Comune. So che stai sorridendo sotto i baffi che non porti, ma nella Capitale esiste un ufficio che si occupa del decoro urbano. Ha una sua sede, un probabile capufficio, forse un direttore generale, tanti sottocapi e mille soldati. Tutti in campo per vigilare sulla tutela della bellezza della città eterna. Eternamente sola e disamministrata. Ma veniamo al punto. Tale dispiegamento di forze si è reso necessario per rimuovere un oltraggio. Cancellare un’offesa. Rendere invisibile agli occhi delicati e sensibili dei cittadini dell’Urbe la scandalosa immagine.
Quale? Quella disegnata da Sirante, originale e sconosciuto artista della street art, in via dei Lucchesi. A due passi dal Quirinale. In una cornice dorata, Sirante aveva riprodotto una celebre opera di Caravaggio, “i bari”. Non nel senso della città pugliese al plurale, ma proprio quelli, i bari, fetentoni che imbrogliano al gioco delle carte. Le facce, però, erano cambiate. Il baro anziano era Silvio Berlusconi, i due giovani erano Salvini e Di Maio (disegnato col cappello e la piuma svolazzante). Offesa. Dileggio. Sberleffo ai tre vincitori assoluti delle elezioni. Ai tre uomini (il Cavaliere solo nella parte del mimo) che hanno in mano le sorti dell’Italia. Finale della storia quadro rimosso a tempo di record. Offesa lavata. E così a Roma morì anche l’ironia. Vietata. Posso giurarlo ho visto la statua di Pasquino piangere.
Ps. Non dirlo in giro che mi prendono per matto.

Il Fatto 16.4.18
La tentazione di cercare alternative alla democrazia
Spesso gli elettori scelgono chi votare sulla base di informazioni incomplete o distorte dalla faziosità. É ora di chiedersi se queste sono imperfezioni inevitabili o storture da correggere, scrive il politologo Brennan
di Stefano Feltri


Quando Francis Fukyama ha pubblicato il suo celebre libro su La fine della storia nel 1992 non intendeva certo dire che si erano esauriti gli eventi degni di nota, come sostengono certi critici che non lo hanno letto. La sua tesi era che la democrazia liberale, con il suo corollario di un capitalismo regolato ma non troppo, era rimasta senza rivali nella battaglia per le idee. Una tesi che non è stata davvero incrinata dagli eventi dei 25 anni successivi: svanita ogni utopia socialista, restano in campo giusto la via cinese all’economia di mercato (per definizione non esportabile), il radicalismo islamico che solo poche minoranze di esaltati considerano potenzialmente egemonico, e i vari uomini forti al comando (Vladimir Putin), ma si tratta di mero esercizio del potere senza velleità ideologiche.
Eppure la democrazia liberale non è mai stata tanto criticata come in questi anni: chi vota i partiti di protesta rimprovera alle élite al governo di aver svenduto gli interessi del popolo, chi vota contro quei populisti inizia a essere scettico sulle virtù di un sistema che spinge la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea sulla base di informazioni false (il famoso risparmio di 350 milioni di sterline a settimana da destinare al servizio sanitario nazionale), manda al potere Donald Trump, apre le porte del Parlamento tedesco all’estrema destra e condanna vari Paese, inclusa l’Italia, a uno stallo dovuto all’incapacità delle elezioni di produrre maggioranze di governo.
Forse è il momento di pensare a un’alternativa, suggerisce Jason Brennan, politologo della Georgetown University di cui la Luiss University Press pubblica ora in italiano l’ultimo libro dal titolo efficace: Contro la democrazia. La tesi di Bernnan è semplice, anche se molto argomentata: abbiamo sopravvalutato la democrazia, produce risultati che non sono affatto ottimali, bisogna valutare l’opportunità di abbandonarla per passare all’epistocrazia, cioè “il governo di coloro che conoscono”. Ci sono tre tipi di elettori, dice Brennan: gli hobbit, che non si informano, non seguono l’attualità, spesso non votano e quando lo fanno decidono chi sostenere sulla base di informazioni sommarie; poi ci sono gli hooligan, gli appassionati di politica, che non disertano mai l’urna, si impegnano in campagna elettorale, magari hanno pure una tessere di partito, sono molto più consapevoli degli hobbit ma non sono interessati al bene comune, quanto alla vittoria della squadra che supportano. E infine ci sono i vulcaniani: sono i democratici perfetti, lucidi, razionali, disinteressati, perfettamente informati e competenti (spoiler: i vulcaniani non esistono). Poiché gli elettori si dividono tra hobbit e hooligan, la democrazia consegna i destini della comunità all’opinione di persone incompetenti o faziose. I francesi sono convinti che i musulmani nel loro Paese siano il 31 per cento, dice un sondaggio di Ipsos Mori, mentre in realtà sono il 13 per cento. Questa falsa percezione contribuisce parecchio a condizionare l’agenda della politica e a spiegare l’ascesa del Front National di Marine Le Pen. Ma queste disfunzioni del sistema non sembrano preoccupare nessuno.
Non sarebbe meglio, provoca Brennan, chiederci se si può ottenere un risultato migliore correggendo i difetti della democrazia ? Potremmo scoprire che alle nostre società conviene dare un voto che vale doppio ai laureati (era una vecchia idea di un liberale come John Stuart Mill) o magari alle donne, o che conviene escludere dal voto chi non ha gli strumenti minimi per formarsi un’opinione o non ha alcuna idea di come funziona la politica. Prima di indignarvi, fermatevi un secondo a pensare: lo stiamo già facendo, Brennan non propone niente di incompatibile con le regole attuali. Escludiamo dal voto i minorenni, trattandoli in blocco come incapaci di prendere decisioni responsabili a prescindere dal fatto che certi sedicenni possono essere più colti e informati di molti cinquantenni, lasciamo votare discendenti di italiani all’estero che neanche parlano la lingua ma vietiamo di partecipare alla vita politica persone che sono nate e cresciute in Italia soltanto sulla base della nazionalità dei loro genitori. E chiedere un’esame di cittadinanza sarebbe davvero così mostruoso? Magari qualcuno si offenderebbe, ma il legislatore non si preoccupa dell’amor proprio di santoni e guaritori quando vieta loro di spacciarsi per medici, lasciando il titolo solo a chi ha seguito studi e abilitazioni.
Nella prospettiva di Brennan, l’astensione è un primo passo nella giusta direzione: chi non ha opinioni è meglio eviti di fare danni (anche se così gli hobbit lasciano spazio agli hooligan). “Non è vero (di fatto) che il popolo abbia sempre ragione. Spesso ha torto. Il principio della democrazia è che ha (il popolo, s’intende) il diritto di sbagliare. Ma se sbaglia troppo e troppo spesso, allora la democrazia è nei guai”, scriveva nel 2007 Giovanni Sartori.
Ci sono argomenti per contestare tutte le tesi di Brennan. Ma leggere il suo Contro la democrazia è un esercizio utile e necessario in questi anni di cinismo e rabbia. Aiuta a capire che la democrazia liberale è un edificio fragile, che va custodito e manutenuto ogni giorno. Altrimenti comincerà a sembrare razionale abbatterlo per lasciare spazio a qualcosa di nuovo.

Il Fatto 16.4.18
La più grande disgrazia del “mondo libero” è stata la caduta dell’Urss
Dopo Tamerlano, Napoleone, Hitler e il tempo della Guerra Fredda, riecco il nemico per eccellenza: la Russia
di Pietrangelo Buttafuoco


Bomba o non bomba, il nemico c’è: è la Russia. Bombe o non bombe, strike mirati, missili intelligenti o pretestuosi che siano, il mondo – messa a dimora l’innocenza sotto una coltre di malafede – ha finalmente chiaro, per tramite di russofobia, chi è il nemico: è Mosca, ancora una volta nella traiettoria di un regolamento di conti atteso nei secoli.
Tamerlano, Napoleone Bonaparte, Adolf Hitler hanno già mancato il colpo. Hanno dovuto lasciarsi alle spalle le chiese dalla cupole a forma di cipolla per non tornare mai più. Ma il mondo mondialista, nella sua accezione liberal, si ritrova a tambureggiare, con le minacce – ma ancor più con la mistificazione – in direzione degli Urali e così scatenare il sabba delle ostilità dopo avere esaurito le cartucce con nemici dai contorni sfuggenti.
Eccoli: Al Qaeda, quindi Isis e poi ancora qualche sprazzo di stato canaglia o satellite che dir si voglia del ba-bau che fu (Corea del Nord compresa).
Infine un nemico vero, con tanto di cancellerie e rappresentanze diplomatiche. Ed è quel Cremlino che già fu l’irriducibile avversario del “mondo libero”. È un ritorno in grande stile – e con molto più fuoco – di quel che si ebbe con l’Unione Sovietica e le virgolette sul “mondo libero” ci stanno tutte perché la narrazione del poi, la mobilitazione retorica e la scienza esatta del liberalismo vanno a far capitombolo.
Ezio Mauro, l’ex direttore di Repubblica – esperto di Russia, oltre che raffinato analista – in un suo recente articolo rende merito al “mondo libero” di avere, con la Seconda Guerra mondiale, sconfitto le dittature.
Il testacoda è proprio qui: senza l’Urss di Giuseppe Stalin – la più spietata tra le dittature – l’Inghilterra, gli Stati Uniti e tutti i loro alleati (badogliani compresi) non avrebbero mai sconfitto l’Asse, tanto è vero che a Berlino, e alla liberazione nei lager, ci arrivano i sovietici, non certo lo Zio Tom.
La libertà del “mondo libero” è merito della Russia e bomba o non bomba, quella atomica, gli americani – dopo Hiroshima e dopo Nagasaki, la prova generale – gliela stavano sganciando su Mosca. Qualunque mediocre storico può spiegarne i dettagli di quella tentazione perché ormai il gioco della spartizione era chiaro, come pure la dottrina del mondo libero, in quell’aberrazione giuridica qual è il Tribunale di Norimberga che a Winston Churchill fa dire: “Ci toccherà vincerla la prossima guerra, altrimenti spetterà a noi salire sulla forca”.
La più grande disgrazia toccata in sorte al “mondo libero” è stata la caduta dell’Urss. Col crollo del comunismo e la fine della Cortina di Ferro è venuta meno la ragione della Nato comunque tenuta in piedi col collante di un’inimicizia, a questo punto, pretestuosa. Meglio: sempre in cerca di un pretesto. E quello di oggi, Dio ne abbia Misericordia, si chiama Siria.

Repubblica 16.4.18
Il reportage
Sul Golan dopo i missili le mosse di Israele e Iran lungo il fronte più caldo
Dal sospetto raid ad Aleppo contro i pasdaran alle minacce di Khamenei Sale ogni giorno di più la tensione tra i due Paesi. Con un occhio a Putin
di Vincenzo Nigro


MOUNT BENTAL (alture del Golan) È sempre più uno scontro diretto fra Iran e Israele. Per questo salire al monte Bental, sulle alture del Golan, aiuta a capire quanto i due nemici siano arrivati pericolosamente vicini. Dal punto di osservazione più alto si vedono i verdi campi della pianura siriana, la cittadina di Quneitra, i villaggi occupati dai ribelli e poi le strade che portano verso Damasco o il Sud. Il posto di ascolto di intelligence della “ montagna dell’elefante”, lì dove ci sono i soldati iraniani.
Al bar del Bental arrivano gruppetti di studenti, ospiti di riguardo scortati dalla protezione israeliana, diplomatici e militari dell’Onu che controllano la separazione con la Siria. Tutti a guardare dall’altra parte della “ linea Alfa”. « Non è cambiato tutto, ma sta cambiando molto » , dice un ufficiale dell’esercito di Israele. Ufficialmente i portavoce di Idf sono molto cauti in queste ore: dopo l’attacco americano contro i depositi chimici di Assad, Israele deve capire ancora fino in fondo come gestire i prossimi passi.
Per ora i due nemici continuano a scambiarsi parole, anatemi e maledizioni. Citazione storica nella dichiarazione dell’ayatollah Khamenei, che parlando degli attacchi aerei americani, francesi e britannici di sabato scorso li chiama «l’aggressione tripartita». Rievoca l’invasione dell’Egitto che Francia, Gran Bretagna e Israele fecero nel 1956 per controllare il canale di Suez. In Israele il più duro ieri era Gilad Erdan, il ministro dell’Interno, un giovane leone del Likud: «Gli attacchi aerei in Siria dovrebbero continuare. Non ci faremo schiacciare dall’Iran ».
Il problema è che oltre le parole, Iran e Israele fanno fatti: i bombardamenti segreti di Israele, i rifornimenti di armi iraniane ad Hezbollah e Assad, un fiume che parte dall’Iran, attraversa l’Iraq e arriva fin sulle sponde del Mediterraneo. Sabato notte nella regione di Aleppo c’è stato un altro misterioso bombardamento. È stata colpita una base in cui i pasdaran iraniani conservavano materiali militari. Israele questa volta è stato molto discreto, i corrispondenti dei giornali e delle tv non sono stati autorizzati a raccontare il bombardamento. Ai giornalisti Idf affida però le sue riflessioni. La prima: la superiorità aerea israeliana in Libano e in Siria ormai è in serio pericolo. Quando sabato americani, francesi e inglesi hanno colpito in Siria, la difesa aerea russa è rimasta spenta, hanno reagito soltanto i siriani. Zvi Barel, l’esperto strategico di Haaretz, spiega che per Israele a questo punto è tutto nelle mani di Putin: «Se davvero vendono o regalano ai siriani i missili S- 300 per noi i problemi saranno assai seri».
L’S- 300 ( per non parlare dell’S- 400) è un incubo per gli israeliani. Spiega un ufficiale: « Un convoglio tipo di questi missili antiaerei si muove con radar, centro di controllo e poi 6 rimorchi con 4 tubi lanciatori: in tutto 24 missili. Ogni sistema radar può gestire contemporaneamente 12 missili, per cui diciamo che possono lanciare 2 missili contro ognuno di 6 aerei » . Sarebbe la fine della possibilità di volare in sicurezza per Israele.
Cosa dicono invece i militari dell’attacco americano di sabato? «È stato un attacco limitato, preciso, diciamo responsabile. Per colpire gli impianti chimici, per scoraggiare Assad dall’adoperare di nuovo armi chimiche. Senza far reagire i russi. Ma tutto il resto è rimasto uguale, e anzi adesso russi, siriani e iraniani sono ancora più compatti » . Per Israele il bombardamento di non ha indebolito per nulla Assad, che si è fatto riprendere mentre entrava a piedi in ufficio fra gli uccellini che cantavano. Non ha minacciato il regime, che verrà difeso a spada tratta da Putin.
Paradossalmente adesso il vero problema per Israele si chiama Donald Trump, che è l’unico su cui davvero si potrebbe provare a fare pressioni. « Che cosa osa vuole Trump? Cosa faranno gli americani in Siria? Davvero si ritireranno presto come chiedeva il presidente » , dice un tenente colonnello: « Oppure rimarranno, per giocare un ruolo più importante, che per noi è vitale? » . Dal monte Bental si vedono i ribelli siriani e gli iraniani, ma l’America è troppo lontana.

Repubblica 16.4.18
La propaganda russa
“Per fortuna abbiamo Putin, ci ha salvato dalla guerra”
I media di Stato celebrano il presidente che non ha risposto all’attacco in Siria. Così non si offusca l’idea del leader macho
di Rosalba Castelletti


MOSCA La Pasqua ortodossa si è celebrata una settimana fa, ma nel centro della capitale ci sono ancora uova colorate e chioschi infiorati. Per i moscoviti questa domenica di sole primaverile è quasi una nuova resurrezione, dopo il rischio di un conflitto mondiale ventilato per giorni dalle tv di Stato. Rossija 24 aveva elencato i viveri da mettere da parte. Mentre
Life. ru aveva consigliato di cercare riparo nelle «stazioni più profonde» della metropolitana. Pericolo scampato. Merito del presidente Vladimir Putin.
Sabato mattina sui social network, impazzava un quesito: «Slil ili ne slil?», «Molla o non molla?». Davanti al dilemma se rispondere militarmente o meno all’attacco in Siria lanciato da Washington insieme a Londra e a Parigi, Putin ha optato per la via pacifica. Giornali e media di Stato si sono mobilitati perché quest’approccio moderato non fosse scambiato per debolezza e non intaccasse l’immagine coltivata per anni di leader macho.
«Putin non ha mollato. Ha salvato il mondo dalla terza Guerra mondiale », ha titolato ieri Komsomolskaja Pravda. «Putin ne slil»: una risposta all’interrogativo virale. «Siamo fortunati ad avere Putin al Cremlino. Quell’alcolista di Eltsin avrebbe potuto dare l’ordine di abbattere navi e aerei», ha commentato un presentatore di Rossija 1. La stessa tv che il giorno prima aveva cambiato palinsesto, fatto inedito, per commentare l’«aggressione illegale» in Siria e così distogliere l’attenzione dalla mancata risposta russa e sostenere la narrativa del Cremlino sull’Occidente che agisce con disprezzo delle leggi. Operazione riuscita. «Nessuno voleva una guerra con gli Stati Uniti», sospira la ventenne Elena dopo un selfie davanti a un finto ciliegio in fiore. «Senza un leader saggio, chissà che cosa sarebbe successo».
Komsomolskaja Pravda: il capo del Cremlino “non ha mollato, ha evitato al mondo il terzo conflitto mondiale”

Corriere 16.4.18
La guerra automatica
di Massimo Gaggi


Missili lanciati con precisione chirurgica su obiettivi militari. Niente «boots on the ground», soldati che avanzano coi loro scarponi in territorio nemico. Zero vittime da un lato e dall’altro. L’attacco lanciato da Usa, Francia e Gran Bretagna per punire Assad dopo il bombardamento chimico di Douma verrà forse archiviato come un avvertimento «muscolare» più che come un vero e proprio atto di guerra. Ma è anche un’azione che ci avvicina sempre di più allo scenario della «guerra automatica» verso il quale ci sta portando lo sforzo tecnologico delle principali potenze del Pianeta.
Non solo missili e droni, gli aerei-robot che già oggi sono in grado di colpire ovunque: dagli arsenali e dai centri di ricerca delle industrie tecnologiche più avanzate escono in continuazione prototipi di droni sottomarini, navi da attacco in superficie e per la caccia ai sommergibili prive di equipaggio, carri armati automatici e, soprattutto, killer robot. Non siamo lontani dallo scenario di Terminator : automi da schierare in battaglia più rapidi e potenti della fanteria umana, destinata ad essere sbaragliata senza pietà. Il tutto gestito da un’intelligenza artificiale sempre più progredita che una volta impostata potrebbe prendere decisioni di vita e di morte in modo autonomo, senza più interventi umani.
Scenari agghiaccianti che pongono problemi inediti: dalla possibile perdita del controllo della tecnologia da parte dell’uomo a quello della valutazione in termini giuridici e anche politici delle responsabilità in un conflitto. Come reagire se vieni colpito non dalle armi di uno Stato che ti dichiara guerra, ma da un drone attivato in modo automatico da un sistema di sorveglianza «intelligente» al manifestarsi di certe condizioni di pericolo? Aumenterebbe esponenzialmente il rischio di scatenare un vero conflitto perché si reagisce con troppa durezza a un attacco partito per un errore. Ipotesi in parte ancora remote, in parte destinate a concretizzarsi entro pochissimi anni e rispetto alle quali già dal 2013 si è messo in modo un movimento che chiede la messa al bando delle cosiddette Laws, Lethal autonomous weapons systems , armi autonome letali. Ma il rischio di un abbassamento della soglia di deterrenza è già evidente: se vieni provocato, sarai più propenso a rispondere con le armi se sai di poter attaccare senza subire perdite. Sono in molti a ritenere che Londra e Parigi hanno deciso di non lasciare soli gli Stati Uniti in Siria perché c’era la possibilità di conseguire il risultato politico derivante da una dimostrazione di forza, senza rischiare praticamente nulla, almeno sul campo di battaglia. Un vero antipasto di guerra automatica. E anche un po’ virtuale, visto che dall’incrocio di razzi, fake news e manovre di disinformazione, è venuta fuori l’accusa dei russi secondo i quali i missili francesi non sono mai arrivati sul bersaglio.
Nonostante tutti gli sforzi di chi cerca di fermare la corsa verso la creazione di veri e propri eserciti robotizzati, le possibilità di successo sono minime. Lanciata cinque anni fa con un appello firmato da premi Nobel, scienziati come Steven Hawking e imprenditori come Elon Musk, Steve Wozniak e Mustafa Suleyman di Alphabet-Google, la campagna internazionale Stop Killer Robots ha obbligato le potenze a confrontarsi spesso su questo problema in sede Onu. Ma le cinque conferenze che l’Onu ha dedicato alla corsa verso la guerra automatica (l’ultima pochi giorni fa a Ginevra) non hanno dato risultati, anche se 22 Paesi si sono espressi ufficialmente contro.
Tutti sono decisi a rifiutare ogni limite all’uso della tecnologia sul campo di battaglia: l’America perché convinta di poter trarre vantaggio dalla sua leadership tecnologica, Cina e Russia perché sperano di poter colmare, il gap strategico che oggi le separa dagli Stati Uniti nelle armi convenzionali. Ci sono stati casi, come quello delle mine anti-uomo, in cui un accordo di messa al bando si è rivelato efficace. Ma le potenze tecnologiche non vogliono sentir parlare di limiti per l’intelligenza artificiale: bloccare la ricerca militare, dicono, danneggerebbe anche quella civile. E nessuno accetta di legarsi le mani quando nemmeno si sa bene in quale direzione evolverà la tecnologia.

Corriere 16.4.18
La sinistra spiazzata mette in soffitta lo spirito pacifista
Fratoianni: la Siria? Si fatica a capire chi è il cattivo. E Cento: il movimento non sa più condizionare
di Alessandra Arachi


ROMA I missili squarciano il cielo di Damasco. E loro tacciono. Una guerra orribile illumina i display dei nostri smartphone, gli schermi delle nostre tv. E loro, per stigmatizzare, producono comunicati appena tiepidi. Loro, i pacifisti che furono dentro la sinistra.
«Che siamo ancora, in realtà. Ci proveremo con le associazioni a ricostruire un appuntamento pacifista, però..». Però Stefano Fassina — transitato dal Pd a Leu — lo ammette che tutto è cambiato da quando il New York Times definì il movimento pacifista la seconda potenza mondiale. «C’è una crisi di rappresentanza dei soggetti collettivi, ma soprattutto c’è una grande disordine che non aiuta», dice ancora Fassina. E spiega: «Prima c’erano conflitti molto semplici da decodificare, adesso si fatica a capire chi è il cattivo. In Siria c’è un dittatore cattivo che usa le armi chimiche, non è scontato stare al suo fianco. Non siamo più ai tempi del Vietnam».
Nicola Fratoianni , segretario di Sinistra italiana, non ha dubbi con chi allearsi: «Con i civili che muoiono in Siria», dice, e anzi non tollera la logica di uno schieramento. «Non dobbiamo guardare se stare con Putin o Assad, ma ripeto, soltanto: l’unico alleato possibile sono i civili che muoiono, tanti sono bambini».
Ma perché il movimento pacifista si è dissolto in Italia? «Non solo in Italia», precisa Fratoianni. Poi spiega: «Credo che dopo che milioni di persone sono scese in piazza per la pace si è verificato un fenomeno di rinculo». Paolo Cento, storico pacifista anche lui, è più tranchant : «Mancano i riferimenti politici per un movimento pacifista. Ormai l’unico capo riconosciuto in nome della pace è papa Francesco. È lui che ha definito quella che stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi. È lui che senza dubbio sul tema ha le idee più chiare di tutti».
Anche Paolo Cento è approdato a Sinistra italiana, e anche lui azzarda un’analisi sul crollo di un movimento che se nel 2003 era stato definito la seconda potenza mondiale, oggi langue, soprattutto in Italia e basta vedere l’account su Facebook del movimento: l’ultimo post è del 2014.
«Da anni questo movimento ha perso la sua capacità di condizionamento», aggiunge Paolo Cento. E dice: «La prima cosa che deve succedere per una rinascita è che la sinistra esca dal suo ripiegamento e ritrovi la sua forza e la sua energia».

Repubblica 16.4.18
Calenda “È emergenza governo di transizione con Pd, M5S e Lega”
Intervista di Claudio Tito


Il Pd non può restare immobile, deve farsi promotore di una proposta per uscire dallo stallo. Deve mettere sul banco l’idea di “un governo di transizione”, sostenuto Da tutti i partiti. Che possa affrontare la “tempesta perfetta” pronta ad abbattersi sul nostro Paese. Che duri almeno un paio di anni, affronti la crisi internazionale, dia sostengo alle nostre debolezze economiche e disegni un nuovo assetto costituzionale.
Carlo Calenda, ministro uscente dello Sviluppo economico e da poco iscritto al Partito Democratico, esce dal silenzio in cui si era trincerato dopo le elezioni del 4 marzo. E lo fa lanciando sul tavolo la via dell’esecutivo di tutti per provare ad uscire dalla paralisi politica e dal blocco che si è determinato dopo il voto nel sistema dei partiti.
«La crisi Siriana - premette - è destinata ad allargarsi anche se si dovessero arrestare temporaneamente i raid. Il Medio Oriente sta vivendo la sua guerra dei 30 anni. Sciiti e Sunniti al posto di Cattolici e Protestanti ed esattamente come nella guerra dei 30 anni il conflitto sta risucchiando le grandi potenze esterne al mondo mussulmano. Dobbiamo preparaci ad un’instabilità prolungata che contagerà il nord Africa con pesanti riflessi sui flussi migratori».
In realtà non sembra che quel sta accadendo in Siria stia provocando in tutte le forze politiche - a cominciare proprio dalla Lega - sussulti di responsabilità.
«Ma bisogna capire che non è una situazione ordinaria. L’Italia rischia di essere l’anello fragile di un Occidente fragilissimo. Siamo esposti finanziariamente, a causa del debito, e geopoliticamente come frontiera sud dell’Europa.
Tutto ciò mentre gli stimoli della Bce vanno esaurendosi e una guerra commerciale sembra più vicina, con potenziali riflessi pesantissimi sul nostro export. Non possiamo affrontare questa tempesta perfetta in una situazione di instabilità politica e istituzionale che rischia anche di tagliarci fuori dal lavoro che Francia e Germania stanno iniziando per rifondare l’Europa».
Quindi?
«Il Pd dovrebbe proporre la costituzione di un Governo di transizione sostenuto da tutte le forze politiche e parallelamente la formazione di una commissione bicamerale sulle riforme istituzionali che risolva tre questioni fondamentali: la possibilità di formare esecutivi stabili in un sistema politico tripolare, il rapporto tra autonomia delle regioni e interesse nazionale, i tagli ai costi della politica e soprattutto la trasparenza nella gestione dei partiti. Una Commissione la cui Presidenza possa essere del Movimento 5S che rappresenta oggi il primo partito e potrebbe proporre alle altre forze la sua idea sulla terza repubblica».
Mi scusi, ma mi pare che lei la faccia troppo facile. Il suo partito, il Pd, ha tenuto tutt’altra linea fino ad ora. Nessuna alleanza.
«Ma noi non dobbiamo accettare alleanze. Se mi parlassero di un accrocchio politico, anche io direi no. Ma a questo punto non può dire soltanto “opposizione e basta”. Va rovesciata la prospettiva».
Lei dice “a questo punto”. A quale punto si riferisce?
«Si è capito che nessuno ha vinto le elezioni e i tentativi di costruire un governo politico tra Lega e M5S mostrano tutta la fragilità di questo progetto. È viceversa chiaro che il Pd ha perso le elezioni e che non può partecipare ad un governo politico con i grillini o la destra senza tradire se stesso e i propri elettori. Noi allora non possiamo rinchiuderci nel recinto delle nostre infinite polemiche interne su Assemblee, primarie e caminetti o nel “tanto peggio tanto meglio” arrivando ad auspicare un Governo Salvini-Di Maio».
Renzi, che un peso nel partito ce l’ha ancora, non ne vuol sentire nemmeno parlare.
Preferisce che si certifichi prima l’insuccesso di Lega e M5S.
«Ripeto: quel governo sarebbe una iattura. E io non chiedo un governo politico. Su questo sono assolutamente d’accordo con Renzi. Dobbiamo però fare una proposta. Per uscire da questo vicolo cieco e anche per aprire in modo ordinato e sicuro la terza Repubblica».
Scusi, ma sulle riforme costituzionali mi pare che il Pd si sia già scornato. Servirebbe una transizione davvero lunga.
«Lo so. Ma possiamo rinunciare? So bene che ci servirebbero almeno due anni. Ma solo così si uscirebbe dalla Seconda Repubblica».
Con questo tripolarismo quale legge elettorale può garantire la stabilità?
«Il doppio turno maggioritario con, appunto, una riforma costituzionale».
Lei saprebbe anche a chi affidare la presidenza del consiglio di questo governo?
«No, non lo so. In questo momento bisogna in primo luogo verificare se c’è la disponibilità a una prospettiva più larga rispetto a quella di cui si discute in questi giorni».
Qualcuno dirà che lei si candida alla guida di questo esecutivo.
«Se avessi questa idea, non farei questa intervista. Rimarrei in silenzio».
Lei fa riferimento all’emergenza internazionale. Ma la Lega, sia sulla Siria sia sull’Europa, non ha fornito garanzie piene.
«Prima delle elezioni tutti volevano uscire dall’euro, ora non ne parla più nessuno. Quando si esce dal voto, le cose cambiano. C’è spazio per fare un accordo di programma che parta da alcuni principi: stabilità dei conti pubblici e riduzione del debito, rispetto della collocazione internazionale dell’Italia, partecipazione attiva al disegno di ricostruzione europea nel senso di un’Europa capace di proteggere, stimolare gli investimenti e implementare finalmente il migration compact proposto dall’Italia, una politica economica orientata alla difesa dell’interesse nazionale, agli investimenti e alla protezione a partire dal rafforzamento del reddito di inclusione. Una cabina di regia formata dai segretari dei partiti che sostengono il Governo vigilerebbe sul rispetto del programma».
Ma lei davvero pensa che Lega e M5S che si sono dichiarati i vincitori di questa tornata elettorale, sarebbero davvero pronti a un passo indietro del genere?
«Converrebbe anche a loro. Salvini e Di Maio hanno dimostrato di essere politici capaci ma la loro esperienza di Governo è fragile ed è il momento meno indicato per compiere salti nel buio. Il rischio di bruciarsi insieme al paese sarebbe altissimo anche per loro».
E il Pd è in grado di reggere un urto di questo tipo? Non ha un segretario definitivo, lo scontro tra renziani e antirenziani è senza fine.
«Martina sta facendo bene il lavoro di reggente. Poi, certo, servirebbe una segreteria larga, costituente.
Con dentro gli ex segretari come Renzi e Veltroni, e gli ex premier come Gentiloni e Letta. Il Pd va rifondato e serve l’aiuto di tutti. I governi di Paolo e Matteo sono stati i migliori degli ultimi anni ma siamo stati travolti da un’ondata di riflusso che colpisce i partiti progressisti in tutto il mondo. La destra può rifugiarsi nel nazionalismo, la sinistra deve trovare la sua nuova strada».
Nel frattempo il governo dimissionario di cui lei fa parte deve affrontare alcuni impegni.
Su Tim , ad esempio, è sceso in campo.
«Cdp è intervenuta per supportare un progetto che vuole trasformare Tim in una public company e scorporare la rete non per prendere il controllo dell’azienda. Vivendi è stato un pessimo azionista e l’Italia ha bisogno di una rete unica forte capace di mobilitare investimenti.
Sono favorevole agli investimenti esteri, ma questo non vuol dire rimanere inerti quando dimostrano di distruggere valore piuttosto che crearlo soprattutto quando in ballo c’è un interesse strategico».
Scusi, Cdp sarà un socio transitorio di Tim ma anche della rete societarizzata?
«No, lo Stato dovrà avere una presenza ma non necessariamente il controllo. La rete telefonica dovrà essere come quella del gas, dell’elettricità o dell’acqua. Sarà una garanzie per tutti gli operatori».
Su Alitalia, invece, ha delle preferenze tra le tre offerte?
«I Commissari hanno fatto un buon lavoro. Il prestito ponte è sostanzialmente intatto ma, andrà comunque restituito dopo la vendita. Alitalia rimane fragile e ha bisogno di un partner. C’è la possibilità di lavorare sulle offerte e arrivare a una soluzione strutturale che non costi più ai cittadini. Ma anche qui c’è bisogno del nuovo Governo altrimenti gli investitori non compreranno. Per questo faremo il decreto di spostamento dei termini della vendita.
Oggettivamente, però, l’offerta Lufthansa è quella più promettente».

Repubblica 16.4.18
La non elezione alla Presidenza della Repubblica
Le 101 pugnalate a Prodi che cinque anni fa trafissero il Pd
Il 19 aprile 2013 i franchi tiratori bruciarono il Professore e il futuro del partito Oggi il conto è arrivato a Renzi e D’Alema che, quel giorno, furono i primi sospettati
di Marco Damilano


Il destino era già scritto, sul numero civico: piazza Capranica 101. La sede del teatro Capranica in una piazza a due passi dal palazzo di Montecitorio, diventato una mattina di primavera di cinque anni fa il Teatro dei Veleni, il palcoscenico della grande congiura che ha dissolto il sogno di un grande partito di centrosinistra in grado di governare e di cambiare l’Italia, per mano di uomini e donne rimasti senza volto. Nessuno conosce i nomi dei 101 franchi tiratori che nel segreto dell’urna hanno eliminato Romano Prodi dalla corsa per il Quirinale e, ancor di più, hanno ucciso il Pd. E nessuno ha mai rivendicato il gesto. «Lei mi chiede come ho votato. Le rispondo: come mi ha permesso di fare la Costituzione. Che nome abbiamo scritto sulla scheda quel pomeriggio, mi creda, non si saprà mai...», mi disse uno dei principali indiziati a pochi mesi di distanza dall’evento. Aveva ragione.
In queste settimane il Pd si dimena tra opposizione e irrilevanza, ma tutto è cominciato, anzi è finito, venerdì 19 aprile 2013, nel teatro Capranica, poco prima delle 9 del mattino, con l’applauso che dava il via libera del Pd alla candidatura di Prodi al Quirinale. Sembrava la conclusione di un incubo per Pier Luigi Bersani, cominciato con la non-vittoria alle elezioni e il primo exploit del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, l’umiliazione del colloquio in streaming con i grillini, lo scontro sotterraneo con il presidente Giorgio Napolitano, l’incarico di formare il governo sospeso, congelato, evaporato. E invece, in quella standing ovation, si erano mescolati odi, rivalità, ambizioni. Era un modo per nascondersi, non per rivelarsi.
Quando arriva a proporre il nome di Prodi, Bersani è un segretario del Pd assediato, già sconfitto nel tentativo, il giorno prima, di eleggere il suo candidato al Quirinale: l’ex presidente del Senato Franco Marini, ex capo Cisl e democristiano, deciso nella casa a Testaccio del numero due del Pd Enrico Letta con lo zio di Enrico Gianni e Silvio Berlusconi. Una scelta che ha l’effetto di un detonatore nel Pd, come si capisce quando Bersani sale per la prima volta le scale del teatro Capranica, l’unica sala in grado di contenere i 400 grandi elettori del Pd più gli uomini di Nichi Vendola. Fuori, la piazza dove c’è l’antico seminario in cui hanno studiato tanti futuri papi è una bolgia. Manifestini strappati, contestatori che intonano “Addio Bersani bello”, sulle note di “Lugano addio”, segretari di circolo che strappano la tessera. Tutti urlano Rodotà, il giurista diventato candidato ufficiale di M5S. Dentro, tutto si frantuma.
Bersani fa il nome di Marini, a capo chino, con la voce bassa.
In molti parlano per dissentire.
L’intervento più violento però arriva da Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze non fa parte dei grandi elettori, parla in tv, dileggia il candidato («ve lo immaginate Marini con Obama?») e annuncia che i suoi parlamentari non lo voteranno.
Il giorno dopo in aula ognuno vota come gli pare, alla luce del sole. Marini cade malamente, Bersani deve cambiare nome. O votare per Rodotà, con Grillo e Vendola, oppure trovare un altro candidato, non più concordato con Berlusconi. Gli unici in grado di ricompattare le truppe sono i due cavalli di razza finora esclusi: Romano Prodi o Massimo D’Alema. Il cambio matura nelle prime ore del pomeriggio. Prodi è a Bamako, la capitale del Mali, per una conferenza internazionale dell’Onu.
Bersani lo chiama per chiedergli la sua disponibilità a essere il candidato del Pd al Quirinale. In serata viene convocata una nuova assemblea al teatro Capranica, alle otto del mattino. I renziani, intanto, si muovono come le correnti dc di una volta, si riuniscono a Eataly, regno dell’imprenditore amico Oscar Farinetti, tra ascensori avveniristici e prosciutti appesi alle pareti, e lì Renzi annuncia il voto per Prodi.
Nella notte ci sono altre consultazioni, tra l’Italia, il Mali, la segreteria di Bersani, gli uomini di Prodi e lo staff di D’Alema. Quando i parlamentari arrivano alle otto del mattino del 19 aprile nel teatro Capranica il copione faticosamente messo a punto nella notte è stabilito nei dettagli. Ogni elettore potrà esprimere in segreto la sua preferenza, sono pronte quattrocento schede bianche.
Bersani parlerà per candidare Prodi al Quirinale, non da segretario del partito, però, ma da parlamentare semplice. A quel punto si alzerà Anna Finocchiaro, per candidare D’Alema.
Invece, colpo di scena. Come previsto, Bersani parla, ma fa una proposta secca: c’è un solo candidato per il Quirinale, Prodi. La Finocchiaro tace e parte un lungo applauso. Delle quattrocento schede bianche non si ricorda più nessuno.
Sembra il richiamo all’unico nome che può salvare il Pd dall’auto-distruzione, e invece quell’assemblea che si alza in piedi per l’acclamazione è carica di doppi, tripli giochi.
D’Alema in privato non ha dubbi: «C’è stato un colpo di mano».
Il primo a capire che le cose non stanno andando bene è Prodi, che pure è distante migliaia di chilometri dall’Italia, ancora in Mali. «A Bamako non arrivavano le mail, ma il telefono funzionava. Dissi a Bersani che avrei preferito una votazione a scrutinio segreto ma mi rassicurò: “Non c’è stato bisogno, al tuo nome è partita una standing ovation”. Feci cinque telefonate. Una a Rodotà, per un rapporto di amicizia personale. Poi con Marini e Monti. D’Alema mi freddò: “Bisognerebbe consultare almeno la direzione del partito”. Compresi il messaggio e chiamai mia moglie: “Flavia, oggi pomeriggio vai pure a quella riunione che hai, tanto non passa”. L’ultima telefonata con Napolitano: anche lui aveva capito che la cosa era saltata».
Alle tre del pomeriggio, quando gli elettori rientrano in aula per votare, piazza Montecitorio è occupata. Ci sono i grillini che invocano il nome del giurista come allo stadio: Ro-do-tà. Ci sono i parlamentari del Pdl che hanno deciso di non partecipare al voto per il nuovo Presidente. Non ne hanno neppure bisogno per vincere, sono più informati di Bersani sul Pd, sanno già come andrà a finire. Subito prima del voto, due uomini trafelati nel corridoio dietro l’aula di Montecitorio sbattono uno contro l’altro. Il primo è Ugo Sposetti, l’ultimo tesoriere della Quercia: «Non possiamo votare per Prodi con metà del Parlamento fuori in piazza!», impreca. «Dobbiamo prendere tempo e votare scheda bianca».
«È tutto finito», gli sussurra pallido il numero due del Pd, il futuro premier Enrico Letta.
Lo spoglio comincia alle 18.30, le prime schede sono per Prodi, poi il Professore rallenta la corsa. La presidente della Camera Laura Boldrini legge lentamente, grave come una Cassandra. Prodi si ferma a 395, lontanissimo dal quorum, con 101 voti in meno rispetto ai 496 previsti. Alle 19 è già tutto finito, il delitto è terminato, i parlamentari del Pdl rientrati in aula si godono la scena, fuori il Pd va a pezzi.
«È stato Renzi. È un megalomane: ha candidato Prodi e poi ha ordinato ai suoi di pugnalarlo per uccidere il Pd!». Minuti di follia: in mezzo ai marmi di Montecitorio i grandi elettori si gettano il corpo (morto) del partito addosso. «È stato Renzi», urla Andrea Orlando, uno dei giovani turchi, la corrente di sinistra del partito ostile al rottamatore di Firenze. Ce l’ha con il sindaco che dieci minuti dopo il risultato ufficiale ha chiamato i cronisti a Palazzo Vecchio e ha dettato: «La candidatura Prodi non esiste più». Orlando diventerà ministro della Giustizia di Renzi e poi suo oppositore. L’ex popolare Lapo Pistelli impreca: «Questa non è più politica, è un videogame. Mi è venuta voglia di mollare». Lascerà il Pd, entrerà ai vertici dell’Eni.
Giuseppe Fioroni e Stefano Esposito sono stati previdenti, mostrano a tutti una foto: la scheda con il nome di Prodi.
Il Professore a Bamako è già stato informato: la France Presse batte la notizia, alla conferenza gli fanno segno con il pollice, su e poi giù. C’è un altro dolore che tormenta l’ex premier: ha appena appreso che l’amico di una vita Angelo Rovati non ce l’ha fatta. «Dopo il voto Bersani mi ha richiamato, invitandomi a non mollare.
Pensai che i 101 voti mancanti avrebbero creato una band-wagon all’inverso. E poi in realtà, gli oppositori nel Pd erano più di 101: forse 117, 120.
Così ho rinunciato».
Quel 19 aprile di cinque anni fa è stato l’8 settembre del Pd. La notte del tutti a casa, la morte della patria democratica.
Dirigenti in fuga, diserzioni, il Pd terra di conquista di potenze straniere. Quando tornarono nel teatro di piazza Capranica, al numero civico 101, non c’era più nessuna contestazione, solo un silenzio allibito. Uno su quattro di loro, vecchie volpi e giovani virgulti, rottamatori e rottamandi.
La carica dei Centouno, suona disneyano, ma fu un altro film: il giorno dello sciacallo. Mai un segreto così ampio è stato così ben custodito, circondato da un’omertà collettiva, osservato e tutelato da tutti. Di certo nessun interesse a scoprirlo ha mostrato il nuovo padrone del Pd dopo Bersani, Matteo Renzi.
E quando è toccato a lui decidere il nome del successore di Napolitano nel 2015 ha fatto di tutto per affossare la possibilità che tornasse Prodi. È stato quel voto di cinque anni a determinare la prima rielezione di un presidente della Repubblica, Napolitano, e il governo delle larghe intese Pd-Berlusconi presieduto da Enrico Letta. E poi la fine della segreteria Bersani e l’avvento di Renzi alla guida del Pd e del governo e tutte le lacerazioni, fino a oggi.
In quel voto a tradimento si è mescolato chi voleva regolare vecchi conti e chi doveva eliminare Prodi per stroncare Bersani e costruire un nuovo potere, fondato sul comando del giovane Principe di Rignano e del suo Giglio Magico. Forse questi mondi, destinati a odio perenne, il mondo dalemiano e il mondo renziano, nei 101 si incontrarono, in una comune concezione della politica. E per questo, forse, oggi hanno perso entrambi.
Il segreto di quella giornata di cinque anni fa è la lettera rubata di Edgar Allan Poe, davanti a tutti. E nessuno ha mai rivelato l’identità dei 101 perché i 101 non sono mai esistiti. O meglio, coincidono con la natura del Partito democratico, per come è nato e cresciuto e tramontato. Sono stati loro, i 101, l’autobiografia di un partito mai nato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Romano Prodi all’uscita dal centro congressi internazionale di Bamako dove si trovava il 19 aprile 2013
La manifestazione dei grillini a sostegno della candidatura di Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica
Il fermo immagine dell’esito della votazione che sancì il “tradimento” di 101 parlamentari del centrosinistra
Pier Luigi Bersani al momento del voto. Subito dopo la “congiura dei 101” il segretario del Pd presentò le dimissioni

La Stampa 16.4.18
I bambini inascoltati abusati in famiglia e da sette sataniche
Boom di chiamate al numero verde per le violenze rituali Storia di Luca, vittima per molti anni dei nonni e dello zio
di Andrea Malaguti


Questa storia comincia molte volte per non finire mai, perché è costruita su un orrore che va avanti da secoli e si fonda sugli istinti più feroci e bassi degli esseri umani.
È una storia che si ripete quotidianamente e sconvolge le vite di intere famiglie, segnando per sempre l’esistenza di bambini con un’età compresa tra i quattro e i dodici anni. A volte anche più piccoli. Bambini abusati sessualmente da pedofili che, nell’85% dei casi, vivono in famiglia.
Bambini sfruttati e fotografati per il mercato nero di internet.
Bambini utilizzati come marionette sacrificali nelle notti delle messe nere e dei riti satanici. Riti che la coscienza popolare tende a negare, che la giustizia fatica a perseguire e a condannare, che un esercito internazionale di Orchi vorrebbe normalizzare.
Secondo il dottor Luigi Corvaglia, membro della Federazione Europea dei Centri di ricerca e informazione sul settarismo, sono almeno dieci le sette sataniche («strutturate e organizzate») presenti in Italia. «Ciascuna con almeno cento adepti». Ed è impossibile calcolare il numero delle sette fai da te. «Gruppi che spesso sono responsabili di fatti di sangue, mutilazioni di animali e atti vandalici».
Famiglia-modello
Per capire di che cosa parliamo, partiamo da un caso che somma pedofilia, abuso familiare e abuso rituale. Un caso aperto, che potremmo intitolare: distruzione di una famiglia modello.
Ci sono volute settimane per trovare le persone giuste ed è stato necessario dare molte garanzie, a cominciare da quella dell’anonimato. Poi il dottor Claudio Foti, psicoterapeuta che dirige il centro Hansel e Gretel di Torino, ha telefonato: «D’accordo, andiamo».
Partiamo per il Veneto. Il treno si ferma in un paese collinare, in una stazione piccola, vicina a un capoluogo di provincia. Arriva a prenderci una macchina azzurra. L’uomo al volante si chiama Marco, ha poco più di quarant’anni, un bell’aspetto, anche se i capelli sono diventati precocemente bianchi.
È un piccolo imprenditore. Ha una moglie, Anna, e due bambini che potrebbero stare nello spot televisivo di una marca di biscotti. Fino a quattro anni fa la sua vita era perfetta. Un fratello ingegnere a cui è legato visceralmente, un padre e una madre, imprenditori a loro volta, presenti, amorevoli e collaborativi. Una famiglia benestante e piuttosto nota.
Una famiglia unita. Anzi, d’acciaio. Di quelle che si pranza insieme la domenica e non si fa niente senza dirlo agli altri. Una meraviglia. E invece è un bluff. Peggio è un inferno.
Le prime crepe
Luca, il figlio più grande di Marco, ha otto anni, è nervoso e nessuno capisce perché. Urla, si ribella, insulta i genitori quando lo lasciano a casa dei nonni, o dello zio, li chiama «bastardi». Da qualche settimana si tocca i genitali e fa gesti dal contenuto esplicitamente sessuale. Eppure va bene a scuola, ha il cervello rapido e in casa è amato come raramente succede.
Solo che un giorno, arrivando dai genitori di Anna, salta addosso alla nonna e le infila una mano sotto la gonna, poi schizza sul divano dove è seduto il nonno, e gli mette una mano tra i pantaloni. Marco, suo padre, sbianca. Lo porta in bagno e gli grida: «Adesso basta, dimmi che cos’hai». Luca diventa rosso, abbassa la testa e poi, inciampando sulle parole, dice: «Non te lo posso raccontare, è un segreto tra me e zio Gabriele». Marco non capisce bene. Lo accarezza sulla testa: «Luca, non ci sono segreti tra me e te, tu mi puoi dire tutto». Luca parla: «Zio fa delle cose che non vuole che ti racconti».
A Marco si gela il cuore. Quali cose? «Il gioco che mi fa strusciare il pisello». Prende l’asciugamano, lo arrotola e comincia ad accarezzarlo. Marco mantiene la calma: «Ma tu lo vuoi fare?». «No». «E allora perché lo fai?». «Perché zio dice che poi mi dimentico tutto. Ma io non mi dimentico niente». Nella testa di Marco si accendono mille lampadine. Collega una serie di episodi apparentemente secondari che diventano la sua nuova mappa della verità. Capisce che Luca non mente. «Dillo anche a mamma».
Luca sembra sgretolarsi, si prende la testa tra le mani, grida: «Nooo, basta». Il cervello di Marco si annebbia. La rabbia sale. Carica in macchina due taniche di benzina e una spranga per andare ad ammazzare il fratello. La moglie lo ferma. Abbraccia Luca davanti a lui.
Marco allora corre dal padre a raccontargli ogni cosa. Il nonno non lo lascia finire. Si butta a terra come se gli avessero sparato. Piange. È sconvolto. E allora Marco lo tranquillizza, mentre suo padre lo implora: «Non dire niente a mamma, non lo sopporterebbe». Tornando a casa Marco cerca di ricordare quante volte ha lasciato soli i bambini con lo zio. Un sacco di volte.
Gli torna in mente una mattina. Anna non c’era e i bambini erano nel lettone a dormire. Gabriele suona alla porta, sale, lui gli dice: «Vado a spostare la macchina e a fare colazione, bada tu a Luca e Gianni». Tornando senta delle urla. Sale di corsa e trova Luca con il pannolino abbassato. Piange come un disperato. «Che succede Gabriele?». Lo zio risponde: «Niente, si è svegliato di colpo e invece di vedere te ha visto me. Si è spaventato. Capita». Capita. Marco gli crede. Ovvio che gli crede. Adesso vede quell’episodio sotto una luce diversa. Vuole denunciare il fratello, ma il padre gli chiede di non farlo. Lui lo fa lo stesso. In casa la tensione si alza, perché Luca racconta che anche Gianni ha subito abusi dallo zio. Gianni ha solo tre anni.
I segni dell’orrore
Luca peggiora ogni giorno. Lecca i muri, si barrica in camera, dice e fa cose oscene. È come se dovesse spurgarsi dallo schifo. Fa anche dei disegni. Uno più spesso degli altri. Una casa nera con le finestre che sanguinano. E dentro la casa uno zombie verde. Quello zombie è lo zio. È un orrore. Ma non è ancora tutto l’orrore.
A tre giorni dalla prima udienza contro lo zio, Luca aggiunge al disegno anche una strega. Marco gli chiede: «Chi è la strega Luca?» e Luca dice: «La nonna». Si può scendere più in basso di così? Si può. Perché Luca ha un’altra domanda da fare a suo padre: «Tu lo sai chi è il più cattivo di tutti, papà?». Marco traballa. «Lo zio?». «No, il nonno». Cioè il padre di Marco. Cioè l’uomo al quale Marco si è appoggiato fin da bambino. «In quell’istante ho dubitato della sanità mentale di mio figlio», dice Marco. «Mi ha convinto con tre particolari che non poteva inventare. Il mio mondo è crollato».
Luca e Gianni violentati. Dallo zio. Dalla nonna. Dal nonno. Tutta la sua famiglia. Altre lampadine che si accendono. Altri episodi che tornano alla mente.
«Ricordo una sera. Arrivo dai miei per riprendere i ragazzi. Era una giornata felice perché mi era andato bene un lavoro. Sento Luca urlare. Corro in camera. E lui è lì con mio padre. Che mi aggredisce: “Tu non sai educare i tuoi figli, piangono sempre, urlano sempre”. Esco dalla camera e vedo mia madre che si picchia sul viso e dice: “non lo sopporto più, non lo sopporto più”. Una scena assurda. Che ora mi spiego benissimo».
L’avvocato di Marco e Anna suggerisce di non coinvolgere i nonni per il momento. Il processo è troppo vicino. Bisognerebbe rifare tutto da capo. I piccoli testi non sarebbero ritenuti attendibili. Ai bambini è difficile credere in generale. Figurarsi in un caso come questo. Marco e Anna accettano. Forse sbagliano. Forse. Ma sono devastati e di qualcuno si devono pure fidare, persino di questo avvocato mezza tacca.
Gli abusi dell’infanzia
Ogni volta che si addormenta Luca piange, da sveglio non lo fa mai. I suoi occhi si riempiono di lacrime. I suoi sogni sono pieni di sofferenza. Ma i suoi racconti non terminano. Anzi, si moltiplicano. E diventano sempre più duri. I dettagli sono schifosi ed è inutile raccontarli, il contesto è un abisso di sporcizia e di cattiveria.
Luca racconta di essere stato portato assieme a Gianni in un canile. Di essere stato chiuso in una gabbia. Racconta dei cani, forse morti, buttati sul suo corpo. Di uomini con le maschere. Di calici riempiti di urina e sperma che è obbligato a bere. Disegna anche il profilo di un uomo, identico al capo di suo zio. Sono abusi rituali, quelli di cui gli avvocati non si vogliono occupare, perché quasi impossibili da dimostrare a giudizio.
I bambini sono vittime perfette. Per i carnefici. Imperfette. Per la giustizia. Pochi riscontri. Molti pensieri confusi. Contraddizioni. In più c’è il trauma. Che li porta alla dissociazione.
Alla necessità di far sparire dalla testa questa valanga di fango. Paura. Dolore. Incapacità di capire. Sono dilaniati. Anna e Marco scopriranno che le violenze su Gianni e Luca andavano avanti da anni.
Scopriranno che anche Gabriele era stato abusato da bambino dal padre. E Marco si chiede ancora adesso perché lui no e suo fratello sì. «Forse mi usava da alibi».
Anna e Marco scopriranno anche che i vecchi amici di fronte a storie come questa spariscono e che alla giustizia servono anni prima di arrivare a un giudizio. Non alla verità. A un giudizio. Scopriranno anche che l’elaborazione dei traumi è lenta e straziante, che ti costringe a vedere tuo figlio che si fa del male, che si stacca a morsi sette unghie su dieci senza che il suo corpo reagisca al dolore perché ormai è anestetizzato a tutto. E scopriranno anche una nuova realtà del loro matrimonio.
Una realtà fatta di sensi di colpa. Di tensione. Di angoscia. Eppure si va avanti. Per Luca e per Gianni. Col terrore che possano diventare come il nonno.
È quasi impossibile non credere al racconto di Marco e di Anna, perché non hanno un solo motivo per distruggere la famiglia. La storia è coerente, piena di dettagli e di sofferenza. O sono dei romanzieri da Nobel o dicono la verità, anche se alla giustizia potrebbe non bastare.
Il dottor Foti aggiunge dei particolari. «Quando Anna e Marco raccontano che Luca ha fatto esplodere il suo malessere in modo plateale dopo la confessione, confermano un dato che la letteratura scientifica conosce bene e che loro non possono maneggiare. Quando un bambino inizia un sofferto processo di rivelazione, manifesta subito una grande fioritura di sintomi. Io stesso ho fatto con Luca e Gianni un percorso di terapia e i sintomi hanno cominciato a sparire quando i loro racconti e i loro sentimenti sono stati ascoltati e presi sul serio. E per esperienza so una cosa: un mitomane si gonfia come una rana e aggiunge dettagli incredibili. Una vittima invece piano piano si sgonfia, perché è come se si liberasse».
Basta per la giustizia? No. Per questo Foti dice che «i bambini sono testimoni sconvolti, fragilissimi, facilmente non credibili e quindi indifendibili: l’impunità dei colpevoli è assicurata. In sintesi, sappiamo che il fenomeno c’è, ne abbiamo le prove documentali e ne vediamo i danni nell’attività clinica. Eppure ciò che è inimmaginabile vince sulla realtà e il riconoscimento sociale è per ora impensabile». Per ora è impensabile.
Indifesi contro gli orchi
La psicoterapeuta bolognese Maria Rosa Dominici la pensa allo stesso modo. «I bambini abusati difficilmente vengono creduti e spesso portano incisa nella memoria corporea una ferita che continuerà a sanguinare. Per loro non è prevista nessuna pietà».
Mentre lo Stato resta a guardare, nei tribunali italiani trovano ancora accoglienza teorie respinte dalla comunità scientifica internazionale come la Sindrome da Alienazione Parentale, che attribuisce le denunce dei bambini a una manipolazione operata su di loro dai genitori nella guerra per divorziare.
I bambini sarebbero dunque usati e non abusati. «Ma noi sappiamo perfettamente che su cento casi di abusi denunciati, sono al massimo cinque quelli in cui i genitori manipolano i ricordi dei piccoli», dice l’avvocato Andrea Coffari, presidente del Movimento per l’Infanzia e autore di un libro in uscita sul potere delle lobby pedofile.
Ogni giorno il numero verde anti sette (800-228866), voluto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, e diventato ben presto strumento prezioso per le forze dell’ordine, riceve quindici telefonate di vittime. Oltre cinquemila l’anno. Molti sono genitori di bambini abusati, che davanti alla legge non riusciranno mai ad ottenere giustizia.

Repubblica 16.4.18
India
Proteste a Nuova Delhi dopo un altro stupro di una bambina
di Siria Guerrieri


Al grido di “Stop alla violenza maschile sulle donne” e “Punite i colpevoli” la società civile indiana si è riversata ieri nelle strade di Nuova Delhi, Mumbai, Thiruva Anthapuram, Bangalore, Surat e altre città del paese. Manifestazioni, marce silenziose, fiaccolate, veglie, sit-in di protesta: l’India è in rivolta contro la piaga degli stupri. “Giustizia per le vittime di Kathua e Unnao”, recitano i cartelli portati dai manifestanti.
Un’ondata di rabbia che ha scosso l’intero paese, sotto shock dopo gli ultimi casi di violenze sessuali: una bambina di 8 anni nella regione di Kathua, una ragazzina di 16 anni vittima di stupro a Unnao, nell’Uttar Pradesh, e una bambina di 9 anni brutalmente assassinata pochi giorni fa nel Gujarat. Una violenza endemica, sintomo di una società ancora profondamente patriarcale.

La Stampa TuttoLibri 14.4.18
Oliver Sacks
Addio alla vita con i fiori di Darwin
Prima di morire il celebre neurologo affidò a tre amici una decina di scritti da cui emerge una curiosità sconfinata per ogni aspetto del sapere
di Piero Bianucci

Due settimane prima di morire Oliver Sacks pubblicò sul New York Times un lungo articolo intitolato Shabbat . A 82 anni, non credente, andava alla riscoperta delle radici ebraiche, incluse quelle religiose e rituali. È alla fine della vita che ci si volta indietro, ed è come posare lo sguardo su un panorama vasto, familiare e nello stesso tempo velato dalle foschie della lontananza. Sacks aveva appena contemplato il suo lungo passato scrivendo
In movimento: 400 pagine autobiografiche, storia di un medico con la passione delle motociclette, amante della musica, sperimentatore dell’LSD e altre droghe, omosessuale a lungo clandestino, autore di successo. In questo clima di congedo imminente, pochi giorni prima di cedere alle metastasi di un melanoma, Sacks convocò tre amici e consegnò loro una decina di saggi brevi perché ne curassero la pubblicazione sotto il titolo Il fiume della coscienza.
Quegli scritti di argomento vario, lievi ma non leggeri, che un indice dell’autore cercava di mettere in una successione coerente, nascevano da un incontro televisivo del 1991, quando Sacks si era trovato a conversare con il fisico Freeman Dyson, il biologo Rupert Sheldrake, il paleontologo Stephen Jay Gould, il filosofo Daniel Dennett e lo storico della scienza Stephen Toulmin. Un Parnaso di intellettuali dalla notorietà planetaria. I testi ispirati dal dibattito davanti alle telecamere e rimaneggiati alla vigilia del passo di addio, possiamo leggerli ora come una seconda piccola autobiografia, questa volta di taglio scientifico, impressionistica, concisa e sfumata come le pennellate di Claude Monet.
Ritroviamo qui molte ricerche che, con il pretesto di bizzarri casi clinici, hanno fatto di Sacks uno straordinario narratore: il «mal di testa» – tecnicamente emicrania –, l’arto fantasma, la cecità ai colori, le allucinazioni sensoriali, la sindrome di Tourette, l’encefalite letargica, le intermittenze della memoria. Più la curiosità per la botanica e la chimica di quando era ragazzo e frequentava il laboratorio di «Zio Tungsteno». Se per coscienza intendiamo la consapevolezza di sé che emerge dalla mente, a sua volta radicata nella fisicità del cervello, non la riconosceremo come il collante che tiene insieme debolmente la diversità enciclopedica di queste pagine. Ma Sacks adotta una idea di coscienza più ampia, tanto da intravvedere qualche traccia di «vita mentale» persino nelle piante. E per non sembrare troppo eretico si fa guidare dall’autorità di Darwin, che al mondo vegetale dedicò gran parte dei suoi studi dopo aver pubblicato nel 1859 L’Origine delle specie, paradigma dell’evoluzione biologica.
L’icona classica è un Darwin che alle isole Galàpagos intuisce la legge dell’evoluzione – mutazioni casuali e successo riproduttivo del più adatto – osservando la diversa forma del becco in una dozzina di specie di fringuelli. Ma Darwin fu botanico ancora più che ornitologo: 200 piante raccolte in quell’arcipelago formano una collezione oggi considerata «l’esempio meglio documentato prodotto da Darwin sull’evoluzione delle specie insulari». L’interesse per le piante – fa osservare Sacks – in Darwin non era classificatorio ma tutto teorico e orientato alla verifica della concezione evoluzionistica. Lo affascinavano i viticci delle piante rampicanti e gli apici delle foglioline di avena ancora chiuse nelle gemme: in essi vedeva la manifestazione di una «intelligenza» guidata dalla luce, e lo dimostrò con esperimenti in cui schermava le zone fotosensibili.
La comparsa dei fiori, databile intorno a 100 milioni di anni fa, è uno snodo cruciale dell’evoluzione. Darwin notò nelle primule due tipi di fiori e ciò lo indusse a studiare la sessualità delle piante e a mettere in discussione l’idea dell’autofecondazione. Se l’autofecondazione avesse vinto, scrive Sacks, «il mondo sarebbe rimasto fermo a un’unica pianta autofecondata invece di possedere la straordinaria gamma di specie che di fatto ha». Ed ecco Darwin alla ricerca delle soluzioni evolutesi per evitare l’autoimpollinazione: strutture anatomiche, ma anche complesse nicchie ecologiche. Il mondo fiorisce, diventa colorato e profumato per attirare gli insetti impollinatori, e gli insetti sviluppano organi e abilità per estrarre il polline. Il cerchio si chiude quando alcune piante, per esempio la Drosera, «imparano» a catturare gli insetti e diventano carnivore. È la scoperta della coevoluzione. Restava tuttavia l’enigma di una orchidea del Madagascar dotata di un nettario lungo trenta centimetri, inaccessibile a tutti gli insetti impollinatori noti. Darwin predisse che sarebbe stata scoperta una falena «munita di una proboscide abbastanza lunga da sondarne le profondità». Non sbagliava. Decenni dopo la sua morte quella specie di falena venne finalmente scoperta e fu il suo capolavoro teorico.
Come si vede, il «fiume della coscienza» che Sacks cerca di tracciare è in realtà il torrente carsico della ricerca. Dalle astuzie vegetali alla chimica della mente, dalla fallibilità della memoria al mistero delle illuminazioni creative, Sacks dà al lettore la vertigine di una cultura elegante e sconfinata. Esperienze e letture accumulate nei decenni lo supportano. Da bambino cercava di rallentare o accelerare i fenomeni della natura scattando lunghe sequenze di fotografie. Da neurologo osservava rallentamento e accelerazione nei malati di Parkinson, nei letargici trattati con dopamina, nei tic di chi ha la sindrome di Tourette. In uno dei saggi-racconto torna al suo esordio di neurologo, quando si occupava di emicrania, analizza l’aura che talvolta accompagna questo malessere con allucinazioni – forme luminose a zig-zag che attraversano il campo visivo – e scopre che se n’era già occupato un astronomo, John Herschel, ottocentesco esploratore del cielo australe, ma nessuno l’aveva notato. Il cammino del sapere non è lineare, oscilla a caso tra scoperte e oblio: l’ultima passione di Sacks è stata la filosofia della scienza.

La Stampa TuttoLibri 14.4.18
Così nacque e morì l’ultima versione di quel mostro che chiamiamo Stato
Lo storico di Harvard si concentra sul “secolo lungo” tra il 1880 e il 1980 Il primo Leviatano fu l’assolutismo, il secondo il partitismo. E il terzo?
di Massimiliano Panarari


Le «azioni» e le fortune dello Stato nazione sono precipitate nel corso nell’ultima ondata di globalizzazione. E, dunque, tanto più oggi in epoca di revanche nazionalista e sovranista in tutta la nostra parte di mondo, si rivela tempo speso utilmente quello investito per comprendere la lunga gestazione e genealogia storica dello Stato moderno. Ad aiutare il lettore in tal senso ci pensa un bel libro di un importante storico contemporaneista, lo statunitense Charles S. Maier (professore di Harvard, dove ha diretto il Centro di studi europei), intitolato Leviatano 2.0 e pubblicato da Einaudi. Un volume denso, che scandaglia i nodi concettuali e i passaggi evenemenziali di un paio di secoli di storia politica e culturale occidentale con maestria, e facendosi leggere bene (come tipico dello stile di scrittura anglosassone).
Il Leviatano «prima versione» è quello detentore dell’autorità assoluta teorizzato dai filosofi politici come Jean Bodin e, soprattutto, Thomas Hobbes, alla fine del Cinquecento, allorché lo Stato coincise con l’oggetto fondamentale di analisi del pensiero politico, in un contesto profondamente mutato dalla rottura della koiné cristiana determinata dalla Riforma, dalla nascita della stampa e dalla ricerca di principi di fondazione dell’autorità non più di derivazione religiosa. Così, i (due) Trattati di Vestfalia post-guerra dei Trent’anni stabilirono la forma della sovranità statuale, nei termini del primato del governo del monarca all’interno dell’unità territoriale e dell’indipendenza esterna totale. Una specificità in confronto al resto del pianeta – in particolare rispetto alla concezione di statualità e agli imperi asiatici, dalla Cina all’India e al Giappone (a cui il libro dedica varie pagine) – che visse un cambio di paradigma intorno alla metà del XIX secolo, con l’emergere di quello che Maier battezza Leviatano 2.0.
Lo storico – che, a differenza di Eric Hosbawn, sostiene la tesi del Novecento quale «Secolo lungo» (dal 1880 al 1980, e sovrapponibile alla logica produttiva e sociale del capitalismo di tipo fordista) – colloca negli anni compresi tra i Cinquanta e gli Ottanta dell’Ottocento un turning point e una riconfigurazione strutturale. Il globo stava diventando in quel periodo sempre di più un continuum, in virtù dell’esplosione dei nuovi sistemi di trasporto e mezzi di comunicazione. Gli attributi dello Stato si conservarono, e rimasero gli stessi, ma si registrò un salto di grado del «software statuale», perché grazie alle nuove tecnologie trasportistiche e comunicative crebbero ulteriormente le aspirazioni territoriali, dando il via all’età degli imperialismi.
L’effetto di questa mondializzazione fu il dilagare dei nazionalismi a supporto ideologico di una competizione durissima tra i Paesi. Nel corso della quale sul continente europeo l’idea illuministica e liberale del governo della legge, che aveva affiancato e sostituito l’assolutismo, si trasformò via via nella convivenza tra la preminenza delle norme statuali e una società che esprimeva reti organizzate di interessi parziali e corporativi e trovava forma nel regime di partito. Invece l’area angloscozzese (e, in seguito, il Nordamerica), che vide l’ascesa del liberalismo, elaborò su impulso dei whigs – alfieri della prevalenza del mercato (e della mercificazione) con una finalità di neutralizzazione dei disordini sociali – una via differente, ove la dimensione privata, commerciale e associativa, non venne separata nettamente, e neppure formalmente in vari casi, da quella legislativa.
Il Leviatano 2.0, che ha smesso di essere lo «Stato incontaminato» basato su un ordinamento giuridico supremo e autonomo, nel Novecento si declina proprio sotto la forma del sistema di partito, pluralista e competitivo o drammaticamente totalitario e autoritario (a partito unico).
È una storia che, per certi versi, inizia il 25 giugno del 1876 a Little Bighorn, con la temporanea vittoria dei nativi americani sul Settimo cavalleggeri del generale Custer, l’ultima conseguita da un mondo tribale e con una visione liquida e fluida del territorio al cospetto della soverchiante forza militare ed espansiva garantita dalla superiorità organizzativa del modello di Stato europeo. Una storia di politici e di teorici della politica, che viene ripercorsa portando alla ribalta tutte le questioni centrali all’insegna di una capacità di sintesi esemplare (con il solo neo di un giudizio piuttosto stereotipato e «luogocomunista» su Cesare Lombroso).
Quella del Leviatano 2.0 è stata un’egemonia ininterrotta, e senza soluzione di continuità, giunta fino agli anni Settanta del XX secolo, quando ha dovuto cedere il passo al neoliberismo in economia e, in politica, all’idea di governance quale alternativa funzionale allo Stato. Un potenziale Leviatano 3.0 su cui lo studioso si mostra critico, nella persuasione che il potere e la violenza, in assenza di leggi, proliferino ancora maggiormente. E che il tema sia quello di ridurre le imposizioni dello Stato ai propri cittadini, ma non di cancellarlo per andare verso un futuro-presente troppo gravido di incognite.