Repubblica 14.4.18
Revisionismi
L’Europa assalita dai vuoti di memoria
Il mito del ratto di Europa in un dipinto greco antico
di Simonetta Fiori
Non
è stato facile costruirla. E oggi non è facile difenderla dalle
critiche di segno diverso che piovono da svariate parti del vecchio
continente, a cominciare dal Regno Unito e dai paesi dell’Est, e ora
anche dall’Italia. Nella Casa della storia europea il condominio appare
piuttosto agitato. E non potrebbe essere altrimenti: tra Brexit,
pulsioni separatiste e l’onda nera di Orbán non tira aria da Inno alla
gioia e tanto meno da celebrazioni memoriali condivise. Ed è proprio per
queste fibrillazioni che il museo di Bruxelles – nato con l’obiettivo
di dare un fondamento storico alla nozione di cittadinanza europea –
appare una sfida necessaria. Ma in che modo è stato realizzato? Qual è
l’idea di Europa che scaturisce da questo progetto, il più grande
investimento del Parlamento sul piano della politica della memoria? E —
questione centrale — è possibile il racconto condiviso di una comune
storia europea, tra le infinite lacerazioni politiche e religiose che
segnano passato e presente?
Che la questione sia complessa è
dimostrato anche dalla difficile gestazione dell’House of European
History, proposta nel 2007 dall’allora presidente Hans Gert Pöttering e
inaugurata solo lo scorso anno dopo un finanziamento di 56 milioni di
euro e un lavoro politico-culturale rimasto sotterraneo: anche questa
una scelta contestata da chi avrebbe preferito un confronto più aperto e
trasparente tra gli storici.
Quale il risultato dopo dieci anni
di discussioni? Marcello Verga, presidente dell’Istituto di storia
mediterranea al Cnr e da sempre attento alle politiche della memoria
della Ue, ne sottolinea il profilo sfocato, come se per approdare a un
passato comune si fosse lavorato nella direzione di una sottrazione dei
valori e dei simboli della “storia d’Europa”. «Ne è scaturito un
progetto di storia politica tra il XIX e il XX secolo per molti versi
senz’anima, senza le donne e gli uomini in carne d’ossa, senza un chiaro
punto di vista che non sia una generica linea di progresso e di
affermazione dei valori di libertà». Una storia che rinuncia ad
affrontare i nodi più problematici di questa parte del mondo. «Può
sorprendere che nei cinque piani del bel palazzo Eastman non si parli
mai né di religione né di migrazione. E colpisce che il discorso sulla
colonizzazione riesca volutamente ambiguo. L’assenza di ogni riferimento
alla religione vuol forse dire che si intende proporre una storia
d’Europa all’insegna della secolarizzazione? O significa piuttosto la
rinuncia della Casa a confrontarsi con uno degli elementi che più
caratterizzano l’heritage europeo?».
Ma è possibile raccontare in
modo condiviso la storia di centinaia di milioni di uomini e donne che
sono stati separati da guerre e mille altri conflitti? «Io credo di sì»,
risponde Verga, «ma solo a condizione di non nascondere le divisioni
politiche, religiose e culturali che sono parte essenziale del loro
patrimonio. E a condizione di assumere, sia pure attraverso un racconto
espositivo unitario, una pluralità di punti di osservazione della storia
europea. La casa di Bruxelles sembra assumere una prospettiva
continentale che guarda all’area mediterranea dal Nord come fosse una
sorta di periferia della vera storia europea e ancora all’Europa
dell’Est come fosse l’Oriente d’Europa». Anche lo storico Carlo
Spagnolo, che alle memorie divise d’Europa ha dedicato un fascicolo
della rivista Ricerche storiche, contesta alla Maison di Bruxelles uno
sguardo incompatibile con la nozione di casa comune. «Una casa allude
alla costruzione di una comunità, quindi dovrebbe riconoscere dignità a
prospettive contrastanti.
Altrimenti il rischio è di fare
l’apologetica dell’esistente, quasi non ci fossero state alternative,
scelte costose e conflitti che ci portiamo dentro e possono riaffiorare
in fasi di profondi cambiamenti». Sul piano culturale, secondo Spagnolo,
il limite principale consiste nell’assimilare la storia d’Europa alla
storia dell’integrazione europea. «Si tratta invece di due vicende
diverse e persino opposte». Ma il punto che gli appare più debole è il
ricorso al totalitarismo come direttrice memoriale. «Il totalitarismo
non è un concetto univoco. E usare oggi una nozione così ricca di
significati diversi rischia di riaccendere i conflitti che si vorrebbe
superare. In altre parole, una storia d’Europa che muova dal
totalitarismo corrisponde a una lettura autocritica del passato da parte
della Germania ma non è adeguata a rendere conto delle esperienze di
molti altri paesi europei». Il rischio – ha rilevato altrove Filippo
Focardi – è di rigettare tutte le colpe sui tedeschi (per la Shoah) e
sui russi (per il comunismo). Ma in questo modo gli altri paesi non sono
sollecitati a fare i conti con le proprie pagine buie. Altri sguardi
critici sono emersi durante un dibattito alla Treccani al quale ha
partecipato anche Beatrice Dupont, curatrice della Casa venuta in Italia
per presentare il museo. «È vero che non c’è stato un confronto largo
tra gli storici europei», ammette la studiosa, «ma non oso immaginare il
chiasso che ne sarebbe scaturito. E quale sarebbe potuto essere
l’esito: un compromesso per rendere tutti contenti?». Secondo Dupont
l’unica critica davvero convincente riguarda la mancanza
nell’esposizione di un chiaro punto di vista, ma è vista come
un’opportunità: «C’è chi ci accusa di preferire l’Europa di Hitler e
Stalin a quella di Gutenberg o Chopin. Ma c’è anche chi si sorprende
perché si aspettava un museo di propaganda e invece si è ritrovato
davanti un discorso critico sull’Europa». La scelta di non dare delle
risposte definitive e di lasciare molto spazio a domande aperte «non è
una soluzione museale facile», dice Dupont. «Ma l’abbiamo ritenuta utile
nel contesto attuale dell’Unione Europea». Una storia con molti
interrogativi e poche risposte certe: anche questo uno specchio
inquietante della nostra attuale condizione di europei.