Repubblica 12.6.18
Zuckerberg al Congresso
L’alieno nella caverna
di Vittorio Zucconi
Vicini
nello spazio e lontanissimi nel tempo, “Zuck l’alieno” e i vecchi
terrestri della politica americana s’incontrano faccia a faccia senza
capirsi. Non parlano la stessa lingua. Usano apparentemente l’inglese, i
senatori e il viaggiatore del tempo della Rete, ma non esiste un
traduttore che possa permettere a un senatore di 80 anni, eletto quando
Zuckerberg non era neppure nato, e all’enfant prodige un po’ discolo
piovuto da un’altra galassia di capirsi.
Tutti i 44 senatori che
hanno voluto interrogare il creatore di Facebook, sotto accusa per il
torbido traffico di dati personali usati per manipolare i comportamenti
degli ignari “ amici”, potrebbero essere padri o madri del trentenne
miliardario, avendo un’età media di 62 anni. Alcuni, come il decano del
Vermont, Pat Leahy, dalla voce ormai fioca, potrebbero addirittura
esserne i nonni, con i loro quasi ottant’anni. E chi guarda il dialogo
impossibile fra un ottuagenario cresciuto a pane e carta e un trentenne
precipitato sulla Terra dal pulviscolo primordiale di bit e bytes, se è
nonno come me, tende a simpatizzare con il vecchio, disperatamente
annaspante fra “pipes”, “messengers”, algoritmi e “string”
alfanumeriche.
L’alieno, che per l’occasione si era travestito da
terrestre, risultando incongruo come un trucco di Photoshop, recitava la
parte del bambino buono e contrito, che assicura il sinedrio dei vecchi
di essere venuto in pace e promette di comportarsi bene d’ora in poi,
anche per evitare di perdere altri dieci miliardi di dollari — quasi una
“manovra” da Def italiano — dal portafoglio delle sue azioni. Ma come
lui risponde quasi roboticamente, secondo le formule scritte dagli
avvocati che lo hanno programmato, così i vecchi del sinedrio tentano di
capire e di applicare le istruzioni che i giovani dello staff hanno
preparato.
Il senatore Durbin dell’Illinois gli chiede in quale
albergo abbia trascorso la notte e l’alieno vestito da umano balbetta di
non capire il perché. «Ah ah — lo rimbrotta il senatore che di
algoritmi non capisce nulla, ma di alberghi sì — vede che lei non vuol
rivelare dettagli personali che invece i frequentatori di Facebook
diffondono » . “ Zuck robot” sbatte gli occhietti incredulo. Leahy vuol
capire che cosa siano le “pipes”, i comandi che permettono a un
programma di diffondere dati come acqua in una rete di acquedotti, e
l’alieno tenta inutilmente di spiegare che non è questione di idraulica e
non ci sono “tubi” fra Fb, Analytica e gli altri razziatori di dati.
Un
senatore dell’Alabama non capisce che cosa sia Messenger, il servizio
per scambiare messaggi che “ Zuck robot” usava, cancellando poi quelli
che voleva far sparire, cosa che ai normali utenti era vietata, ma che
dovrebbe essere ora estesa a tutti. Faticano nonni e nonne sugli scranni
del Congresso, aggrappati all’antiquariato dei contatti personali,
delle pacche sulle spalle e del telefono, ad arrendersi ai nipoti che
aborrono le conversazioni in voce. Rispondendo sdegnati ai loro avi,
come mi rispondono i nipoti: «Nessuno parla più per telefono, nonno».
E
prima ancora che le audizioni di Zuckerberg arrivino al gomitolo di
possibili abusi dei dati da lui incoscientemente diffusi e poi smazzati
fra miliardari ultraconservatori come i Mercer di Cambridge Analytica
pro Trump, i boys dell’ex Kgb putiniano, i trumpistas e i piazzisti di
tutto che ci assalgono con offerte mirate che non abbiamo mai richiesto,
il dramma al quale abbiamo assistito nella due giorni inutile dello
show è il ritorno prepotente di quello che 30 anni or sono si chiamava
il Generation gap, l’abisso fra generazioni. “Zuck” è già ripartito
verso il suo lontano pianeta nella Silicon Valley. I vecchi terrestri si
sono rintanati nella loro grande caverna di marmo e boiserie per
decifrare un mondo nel quale i tubi non sono tubi e l’algoritmo non è un
nuovo ballo.