Repubblica 12.4.18
Il tesoro nascosto della Russia
di Thomas Piketty
Cosa
avrebbe pensato Karl Marx, di cui ricorre il mese prossimo il 200°
anniversario dalla nascita, delle tristi condizioni in cui versa la
Russia, che non ha mai smesso di richiamarsi al «marxismo-leninismo»
durante il periodo sovietico? Sicuramente avrebbe declinato ogni
responsabilità per un regime affermatosi molto tempo dopo la sua morte.
Marx era cresciuto in un mondo di oppressione fondata sul censo e di
sacralizzazione della proprietà privata, tanto che persino i proprietari
di schiavi ricevevano laute ricompense (considerate ovvie anche da un
«liberale» come Tocqueville) in caso di violazione dei loro beni.
Difficilmente Karl Marx avrebbe potuto prevedere il successo della
socialdemocrazia e dello stato sociale nel XX secolo. Trentenne
all’epoca delle rivoluzioni del 1948, morì nel 1883, anno di nascita di
Keynes. Entrambi furono lucidissimi cronisti del loro tempo, ma è stato
indubbiamente un errore vederli come impeccabili teorici del futuro.
Di
fatto, quando nel 1917 i bolscevichi presero il potere, i loro piani
d’azione non erano affatto scientifici come sostenevano. Sull’abolizione
della proprietà privata non avevano dubbi. Ma come organizzare i
rapporti di produzione? E chi sarebbero stati i nuovi padroni? Con quali
meccanismi di decisione e ripartizione delle ricchezze in seno al
gigantesco apparato dello Stato e della pianificazione? A corto di
soluzioni, si è ripiegato sull’iper- personalizzazione del potere. E in
mancanza di risultati si sono trovati rapidamente i capri espiatori, con
purghe e incarcerazioni a tutt’andare.
Alla morte di Stalin, nel
1953, il 4% della popolazione sovietica è in carcere, più della metà per
«furto di proprietà socialista» e altri piccoli reati commessi per
vivere un po’ meglio: un’incidenza superata solo da quella attuale degli
afro-americani negli Usa (dove è in carcere il 5% degli uomini adulti
di pelle nera). Quella «società dei ladri», descritta da Juliette
Cadiot, segna il drammatico fallimento di un regime che voleva essere
emancipatore.
Certo, gli investimenti sovietici nelle
infrastrutture, nella scuola e nel sistema sanitario hanno comportato
qualche progresso. Il reddito nazionale pro capite, che prima della
rivoluzione era fermo al 30-40% del livello occidentale europeo, aumenta
rapidamente, tanto che negli anni ‘ 50 del Novecento è balzato al 60%.
Ma il ritardo torna ad aggravarsi negli anni ‘60-‘70, quando
l’aspettativa di vita — fenomeno unico in tempi di pace — risulta
addirittura in declino. Il regime è sull’orlo dell’implosione.
Tra
il 1992 e il 1995 lo smantellamento dell’Unione Sovietica ( Urss) e del
suo apparato produttivo porta a un crollo del tenore di vita. Ma dal
2000 il reddito pro capite riprende a crescere e nel 2018 si attesta al
70% circa di quello dell’Europa occidentale, a parità di potere
d’acquisto (ma è appena della metà se calcolato in base al tasso di
cambio corrente, data la debolezza del rublo). Purtroppo le
disuguaglianze aumentano molto più rapidamente di quanto emerga dalle
statistiche ufficiali, come dimostra il recente studio di Filip Novokmet
e Gabriel Zucman ( disponibile su Wid.world). In senso più generale, il
disastro sovietico si accompagna alla rinuncia a ogni ambizione
redistributiva. Dal 2001 l’aliquota d’imposta è del 13% su qualunque
livello di reddito, che si tratti di 1.000 rubli o di 100 miliardi. Né
Reagan né Margaret Thatcher sono arrivati a questo punto nello
smantellamento della progressività impositiva. In Russia (come del resto
nella Cina popolare ) l’imposta di successione non esiste. Se un
asiatico desidera trasmettere il suo patrimonio in tutta tranquillità,
gli conviene andare a morire in uno degli ex Paesi comunisti e
soprattutto evitare quelli capitalisti come Taiwan, la Corea del Sud o
il Giappone, dove l’aliquota sulle successioni di maggiore entità è
passata recentemente dal 50% al 55%.
Mentre la Cina ha saputo
mantenere un certo controllo sull’uscita dei capitali e le accumulazioni
private, la Russia di Putin è caratterizzata da una deriva
cleptocratica senza limiti. Tra il 1993 e il 2018 ha realizzato enormi
eccedenze commerciali, pari a una media annuale del 10% del prodotto
interno lordo nel corso di 25 anni, per un totale che ammonta al 250%
del Pil (due anni e mezzo di produzione nazionale). In linea di
principio, ciò avrebbe dovuto consentire un accumulo di riserve
finanziarie della stessa entità, paragonabile a quella del fondo sovrano
pubblico accumulato dalla Norvegia, sotto l’occhio vigile degli
elettori. Ma le riserve ufficiali russe sono appena un decimo di quella
cifra: non più del 25% del Pil.
Dov’è finito quel denaro? Secondo
le stime, gli attivi che i russi più facoltosi detengono all’estero
superano da soli il Pil di un anno, cioè l’equivalente della totalità
degli attivi finanziari ufficiali delle famiglie russe. In altri
termini, le ricchezze naturali del Paese (che sarebbe stato meglio
lasciare nel sottosuolo per non aggravare il riscaldamento globale) sono
state massicciamente esportate, alimentando strutture opache volte a
garantire a una minoranza enormi attivi finanziari, sia russi che
internazionali.
I russi danarosi vivono per lo più tra Londra,
Parigi e Mosca; altri non hanno mai lasciato la Russia e controllano il
proprio Paese col tramite di società offshore. Nei vari passaggi,
numerosi intermediari e società occidentali hanno incamerato le briciole
in quantità cospicue, e continuano a farlo tuttora, attraverso
operazioni sportive o mediatiche (definite a volte filantropiche).
L’entità di queste sottrazioni non ha precedenti nella storia. Anziché
applicare sanzioni commerciali, l’Europa farebbe bene a prendere di mira
queste attività, rivolgendosi all’opinione pubblica russa. Il post-
comunismo è oggi il peggior alleato del capitalismo. Marx avrebbe
apprezzato l’ironia, ma non per questo dobbiamo farcene una ragione.
Traduzione di Elisabetta Horvat