mercoledì 11 aprile 2018

Repubblica 11.4.18
L’atto d’accusa dell’Antitrust “ Facebook inganna gli italiani”
L’Authority contesta profilazione scorretta e condizionamento indebito degli iscritti Il colosso rischia una multa. Ma l’istruttoria può aprire la strada a un intervento europeo
di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci


Da lunedì sul tavolo di Mark Zuckerberg c’è anche la lettera del Garante della Concorrenza italiano, Giovanni Pitruzzella, recapitata in tre sedi di Facebook. In California, in Irlanda e in Italia. La lettera non è di cortesia, ma di contestazione: il social network avrebbe ingannato i consumatori italiani. «Azioni e omissioni ingannevoli » , «pratiche commerciali aggressive » e «indebito condizionamento » le accuse alle quali Facebook dovrà rispondere, giustificandosi, entro 30 giorni.
Il rischio per il gigante del web è una multa da cinque milioni di euro, che per la società di Zuckerberg è polvere o poco più. Ma che potrebbe diventare valanga: l’Italia ha già informato la Commissione europea dell’iniziativa e ciò potrebbe essere un effetto domino. Del quale, in queste ore, si sta già discutendo a Bruxelles.
La registrazione dei dati
Per Facebook l’Autorità ipotizza due presunte pratiche commerciali scorrette. La prima riguarda la fase di registrazione. Secondo l’impostazione data dai giuristi italiani il social network avrebbe adottato un’informativa priva di « immediatezza, chiarezza e completezza in fase di registrazione alla piattaforma con riferimento alle modalità di raccolta e utilizzo dei dati dei propri utenti a fini commerciali durante la navigazione dentro e fuori da Facebook ». Che significa? Il ragionamento del Garante ruota attorno all’utilizzo che Facebook fa delle nostre informazioni grazie alle quali riesce a fare una montagna di utili. L’Authority sospetta che l’utente non trovi alcuna evidenza immediata sul ruolo centrale che assume la cessione dei suoi dati, «utilizzati invece — spiega Pitruzzella — per alimentare alcuni algoritmi a fini commerciali » . Non c’è quindi, o per lo meno non sembra esserci, alcuna avvertenza reale che informi chi si iscrive al social network sul significato reale dell’operazione: Facebook si limita a sottolineare che l’iscrizione sarà gratuita per sempre.
L’utente consapevole potrebbe però cliccare sulle varie informative e leggere a cosa va incontro, come da sempre sostiene, difendendosi, Facebook. E così è. Ma, dice oggi l’Authority, le informazioni « sono assolutamente disorganiche » e soprattutto non riguardano i tre aspetti centrali della vicenda: l’impiego dei «dati in algoritmi che profilano gli utenti per campagne pubblicitarie » ; « la cessione dei dati a operatori terzi per alimentare algoritmi con finalità di profilazione commerciale e pubblicità»; «l’utilizzo delle preferenze degli utenti » . Facebook, infatti, vende anche i nostri gusti: i “ like botton” nello sport, musica, teatro. E anche le cerchie delle nostre amicizie che, come ha dimostrato il caso Cambridge Analytica, possono essere utilizzate per casi particolari di ingegneria sociale. Tali da condizionare addirittura, secondo alcuni, le competizioni elettorali.
Il condizionamento indebito
Ed è proprio sui condizionamenti che insiste l’Authority italiana nella seconda accusa mossa a Facebook. Dal social network, si è detto, hanno sempre sostenuto che l’utente può comunque negare la cessione dei suoi dati. Vero. Ma al di là della chiarezza delle informazioni secondo l’Authority italiana esiste un secondo problema: Facebook costringerebbe l’utente a cederli, non fosse altro perché l’autorizzazione è già preimpostata.
« È possibile — fanno sapere i tecnici che lavorano con Pitruzzella — revocare il consenso, con la conseguenza, però, che l’utente subisce rilevanti limitazioni nella fruizione del servizio in relazione ad aspetti essenziali che lo caratterizzano come social network». Per esempio diventa impossibile accedere ai siti, le applicazione e i giochi ed esiste un blocco nell’interazione con la comunità. « In questa maniera si è indotti a mantenere attivo lo scambio dei propri dati, per evitare di subire limitazioni nell’utilizzo del servizio conseguenti a una eventuale revoca del consenso».

Corriere 11.4.18
Articolo 18, la sintonia tra Movimento e Cgil
Camusso incontra il gruppo in Senato: si sono impegnati a discutere le nostre proposte in Parlamento
di Enrico Marro


ROMA Recuperare i rapporti tra Pd e Cgil non sarà facile, dopo la segreteria Renzi. Lo sa bene il reggente Maurizio Martina che ieri, giorno in cui al Senato si è svolto l’incontro tra i vertici della Cgil e i 5 Stelle, è andato nella sede della Cisl per parlare con la segretaria generale, Annamaria Furlan, e si è premurato di far sapere che vedrà anche le altre parti sociali. Il tutto mentre dalla Cgil osservavano che fino a quel momento dal Pd non era arrivata alcuna risposta alla richiesta di incontro che la leader Susanna Camusso ha inviato ai presidenti di Camera e Senato e a tutti i gruppi parlamentari dopo l’insediamento del Parlamento. Iniziativa con la quale Camusso ha inteso cogliere al volo il passaggio del primo discorso del presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, che ha promesso di «valorizzare» le proposte di legge di iniziativa popolare.
Musica per le orecchie della Cgil, che nella scorsa legislatura ha portato in Parlamento, con la spinta di quasi 1,2 milioni di firme, la proposta di Carta dei diritti del lavoro, che mira tra l’altro a reintrodurre l’articolo 18. Proposta che ora Camusso chiede sia esaminata dal nuovo Parlamento. I primi a rispondere sono stati proprio il presidente della Camera e, a ruota, i 5 Stelle. Ieri, al Senato, l’incontro tra la stessa Camusso, accompagnata dalla segretaria confederale con la delega al Lavoro, Tania Scacchetti, e una delegazione del Movimento guidata dal capogruppo Danilo Toninelli . «C’è un impegno ad affrontare la Carta dei diritti in quanto proposta di iniziativa popolare quando le commissioni parlamentari saranno costituite», ha detto Camusso dopo l’incontro.
Il disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Cgil propone, tra le altre cose, la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (diritto al reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti senza giusta causa), che è stata anche una delle proposte avanzate dai 5 Stelle durante la campagna elettorale e rilanciata pochi giorni fa dall’economista Pasquale Tridico, indicato dai grillini come ministro del Lavoro, anche se il Movimento vorrebbe ripristinare il diritto al reintegro solo nelle aziende con più di 15 dipendenti, come era prima della riforma Fornero, e non estenderlo a quelle con più di 5 dipendenti, come invece propone la Cgil.
Cgil che è decisa a incalzare le forze vincitrici delle elezioni. Tanto più che molti degli iscritti al sindacato hanno votato per i 5 Stelle e per la Lega nella speranza di ottenere la realizzazione di importanti punti dei loro programmi: dall’abolizione della riforma Fornero sulle pensioni al ritorno appunto all’articolo 18.

Il Fatto 11.4.18
Cari autocrati dell’Est unitevi: più poteri a uno meno diritti per tutti
Dittature soft. Da Babis a Putin, si moltiplicano le figure che accentrano ed estendono tutti i poteri
di A.V.


Nei Paesi dell’ex blocco comunista fino alle estreme propaggini orientali dell’Europa, si moltiplicano e si fortificano le figure autoritarie che voto alla mano stanno cambiando la natura del potere democratico ridisegnato dopo la caduta dell’Unione sovietica.
Viktor Orbán
Ungheria
La Costituzione post-comunista del 1989 viene riscritta già nel 2010 con Fidesz al potere. L’11 marzo 2013, il Parlamento approva decisivi emendamenti alla legge fondamentale. Fortemente ridimensionato il ruolo della Corte costituzionale, che non potrà più bocciare leggi approvate con maggioranza parlamentare di 2/3. Restrizioni sulle libertà civili, come le pene per i senzatetto che dormono in uno spazio pubblico, il sostegno alla famiglia tradizionale (contro quella omosessuale), o il monopolio dell’informazione da parte dei media di Stato in campagna elettorale. L’allora presidente della Commissione Ue Barroso parlò di “preoccupazioni per lo Stato di diritto”, anche se Bruxelles non ha sanzionato Budapest né allora, né con la successiva commissione Juncker.
Vladimir Putin
Russia
Le principali riforme alla Costituzione post-sovietica del 1993 risalgono al 2008 l’allora presidente (oggi premier) Medvedev fece approvare l’estensione del mandato presidenziale da 4 a 6 anni e di quello della Duma (la camera bassa, elettiva, che compone il Parlamento federale) da 4 a 5 anni. La proposta fu approvata in tempi strettissimi, suscitando perplessità da opposizione e parte dei media. Eletto presidente per due mandati (2000 e 2004), Putin ha formalmente rispettato il dettato costituzionale che vieta 3 incarichi presidenziali consecutivi, lasciando appunto a Medvedev la carica nel 2008. Tornato nel 2012 con mandato a 6 anni e riconfermato da poco, Putin nega per ora di volere una nuova riforma costituzionale in modo da poter restare al Cremlino a vita.
Mateus Morawicki
Polonia
La Ue a febbraio ha attivato contro Varsavia l’articolo 7 sul Trattato dell’Unione: la procedura, che potrebbe portare anche alla sospensione del diritto di voto in Consiglio Ue, è motivata dalle riforma del sistema giudiziario, che rappresenta “un attacco allo Stato di diritto e ai valori europei”. Con l’arrivo al governo nel 2015 del partito nazionalista Diritto e Giustizia (Pis) guidato da Jaroslaw Kaczynski, il governo dell’allora premier Beata Szydlo ha limitato i poteri della Corte costituzionale. Ignorando le manifestazioni di piazza, i richiami del capo dello Stato Andrej Duda e quelli di Bruxelles, e con al governo il nuovo premier Mateus Morawicki, il Parlamento ha varato una norma che sottopone Corte suprema e Consiglio nazionale della magistratura al potere di nomina del ministro della Giustizia. Perché Varsavia venga sanzionata dall’Ue, è necessaria l’unanimità: Budapest ha già fatto sapere che difenderà l’alleato.
Andrej Babis
Repubblica Ceca
Al nazionalista ed euroscettico capo di Stato Milos Zeman, si è affiancato il miliardario Andrej Babis. Il suo partito Ano è risultato primo nel voto di ottobre, ma nonostante abbia ricevuto l’incarico, il governo Babis è ancora in cerca di una maggioranza. Il Babis-pensiero è contenuto nel suo best-seller, in cui progetta di eliminare il Senato, introdurre un sistema fortemente maggioritario ed eliminare le autorità regionali e locali. Una riforma in linea con la sua idea di “gestire il Paese” come un’azienda”, che rischia secondo molti osservatori, di minare la democrazia rappresentativa.

La Stampa 11.4.18
Antisemitismo e Mosca, le spine dei laburisti
di Bill Emmott


In tutta Europa i partiti di sinistra e di area socialdemocratica sono allo sbando, incapaci di trovare una risposta coerente alla crisi finanziaria globale e all’elevato debito pubblico - in Francia, in Germania, in Spagna, in Italia. L’anno scorso c’è stata un’eccezione, il partito laburista britannico si è affermato alle elezioni del giugno 2017 e sembrava destinato a portare presto al numero 10 di Downing Street Jeremy Corbyn, il primo ministro più antiamericano e a sinistra della storia. E tuttavia anche i laburisti appaiono in difficoltà.
E la principale ragione è sorprendente: l’antisemitismo.
Da mesi i laburisti sono al centro di una serie di polemiche e scandali: si discute se nel partito ci siano gruppi ostili agli ebrei in generale o specificamente a Israele e al sionismo e anche se singoli rappresentanti o membri del Parlamento abbiano pregiudizi antisemiti. Questo ha avuto il suo peso, in termini di gestione del partito, ma fino a oggi non sembrava potesse seriamente minacciare le prospettive di un ritorno al governo dei laburisti.
Ma le cose sono cambiate perché adesso gli scandali e le polemiche riguardano direttamente il leader del partito, Corbyn. Se fin qui sembrava semplicemente incapace di gestire le pulsioni antisemite interne, ora ha mostrato di essere legato a queste correnti in modo tale da danneggiare la sua credibilità come potenziale primo ministro. È la stessa mancanza di credibilità in un momento di difficoltà economica e timori per la sicurezza che ha già tanto danneggiato il partito socialista francese, il Spd tedesco, i socialisti spagnoli del Psoe e naturalmente il Partito Democratico.
Questa serie di accuse di antisemitismo ha coinciso con la battaglia della Gran Bretagna contro la Russia per il tentato omicidio di un’ex spia russa in una città della provincia inglese usando un agente nervino, il Novichok, di cui, secondo i servizi segreti britannici disponeva solo l’Unione Sovietica. In una circostanza che ha permesso al primo ministro, Theresa May, di mostrarsi forte e patriottica nel confronto con Vladimir Putin, Corbyn è apparso al contrario debole e poco patriottico quando ha scelto di dichiarare che non riteneva corretto accusare la Russia senza precise prove della colpevolezza degli agenti russi.
Quali che siano i meriti o i demeriti di una tale presa di posizione, essa ha dato ai britannici l’impressione che Corbyn non sarebbe la persona adatta a governare il Paese in un momento in cui si rischiano attacchi chimici nelle strade. Dopotutto, May non ha dichiarato guerra alla Russia, ha solo espulso qualche spia russa sotto copertura diplomatica. A quanto pare Corbyn non avrebbe fatto nulla. E in tempi di tensioni e diffuso senso di insicurezza questa non è una mossa vincente.
Non sappiamo come andrà a finire la storia del gas nervino russo; Corbyn alla fine potrebbe uscirne meglio di come appare al momento. Contemporaneamente, però, sono riaffiorate le accuse interne di antisemitismo , con la prova che tre anni prima di diventare leader del partito, Corbyn aveva difeso un murale dipinto in una strada di Londra che raffigurava capitalisti ebrei con il naso adunco in uno stile che ricordava molto da vicino le vignette del regime nazista.
Corbyn è riuscito così a sembrare allo stesso tempo debole, ignorante della storia e dei suoi simboli, e in qualche modo incapace di comprendere perché l’antisemitismo possa offendere molti e non soltanto gli ebrei.
Non è una novità che sia critico nei confronti di Israele. Corbyn nei suoi 35 anni di attività parlamentare non ha mai fatto mistero dei suoi sentimenti filopalestinesi, criticando l’operato di molti governi israeliani. Quindi anche se non è mai stato reputato antisemita, è chiaramente e apertamente critico verso la concezione sionista di Israele come Stato ebraico piuttosto che come Paese condiviso da cittadini arabi ed ebrei con pari diritti. Questo ne ha fatto un naturale polo di attrazione per altri con visioni più radicalmente ostili e ha finito per incoraggiare a uscire allo scoperto un piccolo numero di dichiarati negazionisti dell’Olocausto all’interno del partito.
Il tema non è importante per quanto attiene allo stesso Israele o per il peso del voto ebraico nelle elezioni, come potrebbe avvenire ad esempio negli Stati Uniti. In Gran Bretagna solo circa 270 mila persone si definiscono ufficialmente come ebrei allo stato civile contro oltre tre milioni di musulmani. E molti tra questi ultimi vivono in città delle antiche aree industriali delle Midland e nel Nord dell’Inghilterra. Un elettorato ambito dai laburisti e un buon motivo per essere meno sensibili che in passato alle problematiche ebraiche.
Piuttosto, c’è un triplice potenziale problema. Innanzitutto, il partito laburista ne esce imbruttito dai pregiudizi, rinnegando la precedente immagine coltivata con cura da Corbyn di una generosa e quasi nonnesca predisposizione alla generosità e alla grandezza d’animo. Inoltre, ne viene enfatizzata la maggiore debolezza del partito guidato da Corbyn e dall’ala più radicalmente a sinistra della compagine, quella di essere non semplicemente critica verso il mondo degli affari e della finanza ma rabbiosamente e irragionevolmente anticapitalista.
Nell’attuale contingenza un messaggio anti austerità è popolare, ma non è saggio apparire violentemente ostili a ciò che dà lavoro alla maggioranza degli elettori, ovvero l’impresa privata. Sulla Brexit la posizione dei laburisti è stata quella di rivendicare che qualunque fosse il nuovo accordo con l’Unione europea preservasse il più possibile i posti di lavoro. Spingersi fino all’idea marxista di un’economia centrale pianificata significa contraddire quella presa di posizione.
Infine, si rischia anche di costringere gli elettori a chiedersi se pensano davvero che i laburisti rappresentino un’alternativa di governo credibile ai conservatori. Quasi sempre, dall’elezione di Corbyn alla guida del partito nel 2015, la risposta dell’elettorato è stata negativa, tranne per un breve periodo di pochi mesi attorno al voto del giugno 2017 quando il leader laburista ha beneficiato del calo di consensi per Theresa May. Ora, grazie all’antisemitismo e alla debolezza mostrata nei confronti della Russia, è probabile che la risposta torni a essere negativa.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 11.4.18
Atenei occupati e arresti
Studenti contro Macron
Tensioni in quindici università, a Nanterre interviene la polizia Giovani in piazza per il diritto allo studio appoggiati dai docenti
di Paolo Levi


Non bastavano gli scioperi a ripetizione dei ferrovieri della Sncf o dei piloti di Air France e la guerriglia tra agenti ed occupanti no-global a Notre-Dame-des-Landes. Nella maledetta primavera della Francia che sancisce la fine dello stato di grazia di Emmanuel Macron cresce la protesta di professori e studenti in lotta per l’«accesso allo studio». Quasi in contemporanea con il 50° anniversario del Maggio ’68, oltre 1.200 persone sono scesi in piazza ieri a Parigi per dire «No» all’ultima riforma universitaria e più in generale contro la politica del nuovo inquilino dell’Eliseo. Sempre ieri, a Montpellier, centinaia di studenti hanno scandito lo slogan «Tutti contro la selezione!» universitaria dinanzi alla sede del rettorato.
Fu proprio nella cittadina del Sud del Paese che quasi un mese fa, nella notte tra il 22 e il 23 marzo, un commando di individui incappucciati vicini all’estrema destra lanciò una spedizione punitiva per cacciare a suon di botte e bastoni un primo gruppo di studenti di Lettere, che occupava l’aula magna di Giurisprudenza. Da allora, complice anche la rivolta dei ferrovieri che ha risvegliato le rivendicazioni sociali dopo mesi di torpore, la mobilitazione si è allargata fino a raggiungere una quindicina di università sulle 400 del Paese tra cui quelle parigine du Tolbiac o Nanterre. L’altro ieri, gli agenti Crs sono intervenuti nell’ateneo simbolo del Maggio francese per sloggiare una trentina di occupanti. Per il preside, Jean-Francois Balaudé, «non erano nostri studenti».
Per questo e anche per consentire il proseguimento degli esami ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine tra le mura accademiche, un fatto rarissimo, considerato quasi tabù nelle grandi democrazie della vecchia Europa. Durante le concitate operazioni di sgombero, le cui immagini hanno fatto il giro di web e tv, sono state fermate 7 persone e Nanterre è stata chiusa. Intanto, oltre 400 professori si sono uniti agli studenti per denunciare quella che ritengono l’«ipocrita selezione» della contestata riforma «Loi Orientation et réussite des étudiants (Ore)», che scardina a loro avviso il principio di eguaglianza dinanzi agli studi accademici. «La nobiltà della nostra professione è innalzare il livello di chi ancora non ce l’ha», scrivono i firmatari dell’appello, insistendo sull’assoluta necessità di «dare una chance» a chiunque abbia conseguito la maturità. Promossa dal ministro per l’Insegnamento superiore, Frédérique Vidal, la riforma è stata già adottata il 15 febbraio, tanto che alcuni si chiedono perché gli studenti si stiano «svegliando» solo ora.
Una cosa è certa: quello di un possibile innesto tra la protesta studentesca e quella dei macchinisti della Sncf opposti alla liberalizzazione ferroviaria è tra i peggiori scenari per Macron. E forse non è un caso se il leader in calo nei sondaggi si presterà a due interviste, domani pomeriggio, al tg di «Tf1» e domenica sera su «Bfm-Tv». Un esercizio inedito in un lasso di tempo così ristretto e che dimostra l’impellente necessità per il presidente di passare al contrattacco, almeno sul piano mediatico.

Il Fatto 11.4.18
One shot, one kill: Israele e il filmato del disonore
Cisgiordania - Cecchino ferisce manifestante palestinese, altri soldati girano un video ed esultano: l’episodio risale a dicembre
di Fabio Scuto


La clip girata con un telefonino attraverso un binocolo dura pochi secondi. L’obiettivo segue un gruppetto di palestinesi nei pressi della Barriera di Gaza. Ce n’è uno distante dagli altri con la maglietta rosa. “Ce l’hai nel mirino?”, chiede una voce in ebraico. “Si, cioè no. Il tiro è impedito da un filo (spinato)”, risponde il cecchino. “E Adesso?” Chiede ancora il comandante della squadra. “Ora si, ce l’ho”. “Allora spara”. Un istante dopo la figura inquadrata si accascia mentre altri palestinesi arrivano per soccorrerlo, la sua gamba sanguina abbondantemente.
Nel video si sentono urla di giubilo dei soldati israeliani e le congratulazioni, “wow, che tiro”, “hai preso quel figlio …”. Conversazioni che spesso avvengono nelle radio militari in zone di guerra, ma in genere l’obiettivo in questione impugna un AK47, sta per sparare con un mortaio o attivando una bomba.
In questo caso l’obiettivo era inerme, era disarmato e non aveva un atteggiamento aggressivo. Il filmato girato nel dicembre dello scorso anno durante incidenti nella zona di Kissufim è stato postato da un deputato arabo della Knesset. Adesso – con il clima incandescente a Gaza e i 40 morti palestinesi in due venerdì di protesta sul confine – compare in tutti i notiziari tv, accende dibattiti in Parlamento con la scesa in campo di ministri e generali. Con il governo schierato compatto con il suo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman e quello dell’Istruzione Naftaly Bennett. Anche il ministro della Pubblica sicurezza, Gilad Erdan ha difeso i soldati. “Prendere una situazione dal campo di battaglia, quando i soldati sono sotto stress, mentre vengono lanciati ordigni esplosivi e qualcuno tenta di infiltrarsi al confine, non è corretto, non si possono giudicare dalle poltrone di casa a Tel Aviv”.
Di parere nettamente opposto Jamal Zahalka della Joint List, la Lista Araba che siede nel Parlamento israeliano con 12 deputati. “Il video – dice al telefono – indica la regola: i cecchini israeliani uccidono manifestanti palestinesi disarmati a sangue freddo che partecipano a una protesta non violenta”.
“Non c’è da meravigliarsi che i soldati agiscano in questo modo – aggiunge – quando ministri, i media e l’opinione pubblica si uniscono alle celebrazioni e allegria per l’uccisione di massa dei palestinesi”.
Il nocciolo della questione resta la leadership politica di Israele, quelli che danno il tono, tramandano gli ordini, decidono le regole di ingaggio e che condividono – anche se lo negano – la responsabilità insieme ai governanti di Gaza di Hamas, per gli orrori che passano nella vita quotidiana della popolazione della Striscia. Diversi leader – in particolare il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa Avigdor Lieberman – hanno fatto tutto il possibile per minare l’esercito e le sue regole di ingaggio glorificando e abbracciando Elor Azaria, il soldato condannato a una pena irrisoria da una Corte marziale dopo essere stato filmato mentre uccideva a sangue freddo un terrorista palestinese, ferito a Hebron due anni fa.
La stessa amministrazione di Netanyahu – prima di sapere cosa è realmente accaduto – si è schierata in difesa dei soldati del video. L’Idf ha annunciato solo ieri pomeriggio di aver aperto un inchiesta sull’accaduto, il cecchino è stato interrogato e rilasciato. Ora gli investigatori militari stanno cercando di identificare l’autore del video e di capire come questo sia finito nel telegiornale della sera. “Il cecchino merita una medaglia, il fotografo (il soldato che ha registrato la clip) merita una corte marziale”, ha detto Lieberman.
“L’Idf è l’esercito con uno degli standard morali più alti del mondo”, ha voluto precisare ancora il ministro. Restano oscuri i principi con i quali viene compilata questa singolare classifica. L’amministrazione Netanyahu è stata avvertita ripetutamente e per anni – dai vari capi di Stato maggiore che si sono succeduti – che l’esercito non dispone di adeguati mezzi non letali per il controllo antisommossa e non ha barriere sufficienti per i manifestanti che cercano di attraversare il confine con Israele. Ma il premier ha preferito investire le risorse del governo altrove.
Gli ordini per l’uso di munizioni vere includevano non solo “danni fisici alle infrastrutture sulla barriera di sicurezza e penetrazione nel territorio dello stato di Israele”, ma anche l’identificazione del potenziale bersaglio come “incitatore centrale” – armato o meno. Se essere un “incitatore centrale” è motivo di pena capitale – ha scritto ieri il quotidiano Haaretz, “Netanyahu e il suo gabinetto dovrebbero tenere le loro riunioni settimanali nel braccio della morte”.

Il Fatto 11.4.18
“La sinistra s’è rifugiata in tv e ora non sa più ascoltare”
Nicola Lagioia - “Disgustosa la lettura parassitaria del voto al Sud. È stata una protesta contro l’abbandono”
di Silvia Truzzi


Nicola Lagioia è alle prese con gli ultimi preparativi in vista della prossima edizione del Salone del libro di Torino (dal 10 al 14 maggio). Ma oggi non parliamo di editoria, parliamo di politica. E partiamo dalla parola sinistra. “A me sembra che la rappresentanza della sinistra – non solo in Italia, non solo in Europa – sia tremendamente in crisi. E contemporaneamente che i valori storici della sinistra siano più che mai urgenti. Valori sociali, economici, culturali che si sono trovati senza un partito, senza rappresentanza appunto. La forbice tra ricchi e poveri si è allargata in maniera paurosa. L’1% più ricco della popolazione detiene più ricchezza del restante 99%: i valori della sinistra sono necessari, indifferibili. Mettiamola così: se i marxisti sono smarriti, Marx mi sembra vivissimo. Basta guardare come si sta trasformando il mondo dell’economia. Prendiamo un’industria simbolo del XX secolo come la General Motors e un’altra dei giorni nostri, Amazon: dove una impiegava centomila operai, l’altra ne impiega mille. E chissà dove paga le tasse”.
Quali sono le stelle polari della sinistra?
La giustizia sociale e i diritti civili: mi pare che la prima sia stata trascurata. Quando i comportamenti tradiscono i valori, capisci che qualcosa non va. Ricordo ai tempi dell’Università molti “baroni” di sinistra che facevano lavorare per anni gli assistenti gratis. Quando ho mosso i primi passi nell’editoria, mi dicevano “lavora per un tozzo di pane, l’importante è la visibilità”. Lo sfruttamento non è un valore di sinistra, è un pensiero padronale da cui una certa classe dirigente si è fatta contagiare, tradendo i principi che negli ultimi due secoli sono stati l’architrave del progresso umano.
L’alternanza scuola-lavoro…
Ho letto di ragazzini mandati a lavorare gratis nei fast food, rinunciando a ore di lezione… Ho l’impressione che anche qui si alimentino differenze di classe: i figli delle buone scuole vanno ai festival letterari e gli altri a fare le fotocopie. Diciamo che la sinistra non mi ha ancora spiegato perché questo non è sfruttamento. E se non l’ho capito io, che magari non sono intelligentissimo ma i giornali li leggo, forse non l’hanno capito in molti.
Che lezione deve prendere la sinistra dal voto del 4 marzo?
Maurizio Maggiani ha detto che la sinistra ha perso la capacità di ascolto. È vero. E attenzione: non si tratta di essere sordi alle istanze della cosiddetta “pancia del Paese”. Certa sinistra è diventata antropologicamente aristocratica, non riesce a mescolarsi con la gente comune. Metti un senatore Pd in un quartiere popolare: difficile sia in grado di interloquire con le persone che ci vivono. Qualcuno ancora se la cava, ma sono pochi. La sinistra ha rinunciato al radicamento sul territorio in favore dei salotti, televisivi e non. Smettere di esistere nei luoghi e di ascoltare la gente non si traduce solo nel perdere voti: il guaio è che hanno perso l’occasione di capire come pensano, vivono e sognano gli italiani di oggi. Qual è stata la ricchezza della politica del Novecento? Quella di portare molti suoi rappresentanti a immergersi davvero nel Paese. Quando conosci le persone, vuoi fare delle cose per loro: è umano che accada, e a sinistra è accaduto sempre meno.
Lei è di origine pugliese: il governatore Emiliano ha da subito spinto per un dialogo Pd-M5S. Lei che ne pensa?
Il Movimento 5 Stelle fa proprie alcune istanze di giustizia sociale che sono importanti. Ma siccome io sono convinto che abbia ancora molto senso la distinzione destra-sinistra, non capisco come Di Maio sia disposto ad allearsi indistintamente a Pd e Lega, i cui valori (anche solo quelli dichiarati) sono incompatibili.
Adriano Celentano ha invitato Renzi a prendere la bici e andare a parlare con Di Maio.
In democrazia bisogna parlare con tutti. Purché il dialogo sia sincero da entrambe le parti: il famoso streaming del 2013 con Bersani aveva l’aria di uno strumento per umiliare l’avversario.
Il Pd in passato ha addirittura fatto un governo con l’arcinemico Berlusconi.
Forse la posizione del Pd sarà meno confusa dal 21 aprile, dopo l’Assemblea nazionale. Io credo che dovrebbero provare a vedere se ci sono punti di convergenza con i grillini. La posizione aventiniana a me pare puramente tattica: il Pd ha paura, alleandosi con i 5 Stelle, di diventare ancora più marginale. Mi pare che anche i tira e molla di Di Maio con Salvini – e viceversa! – siano ugualmente mosse di posizionamento.
Ultima: che pensa della lettura “parassitaria” del voto del Sud?
Disgustosa e razzista. È stato un voto di protesta: la questione meridionale è stata estromessa dai governi degli ultimi anni, e il divario tra il Nord e il Sud è cresciuto in maniera drammatica. Sono d’accordo con Roberto Saviano che ha più volte denunciato questa mancanza.

il manifesto 11.4.18
La svolta neoliberale che penalizza le donne
Assegno di divorzio. Oggi la decisione delle sezioni unite della Cassazione
di Maria Rosaria Marella


Il 10 aprile le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimeranno sui criteri di quantificazione dell’assegno di divorzio e in particolare su quel parametro del «tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio», di cui la Prima Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 11504 del 2017 ha messo in dubbio attualità e fondatezza dopo oltre venticinque anni di giurisprudenza costante. In tal modo i giudici della Prima Sezione hanno inteso por fine alla cosiddetta solidarietà post-coniugale, argomento con il quale si è giustificato sin qui il mantenimento dell’ex coniuge senza limiti di tempo, con risvolti che in alcuni casi hanno anche potuto sollevare qualche perplessità.
Sennonché la strada imboccata dalla corte è ben peggiore del male cui intendeva rimediare. Non solo perché si pretende, in virtù di un’interpretazione letterale (e pedissequa) della legge sul divorzio, di scindere il giudizio sul diritto all’assegno dal giudizio sulla sua determinazione, come se la sussistenza del diritto ad essere mantenuto dall’ex-coniuge non dipendesse direttamente dalla definizione dello standard di vita che il mantenimento deve soddisfare. E non solo perché il principio di diritto che ribalta un orientamento consolidato viene espresso in occasione di un caso del tutto peculiare, nel quale la ex moglie che reclama l’assegno è un’imprenditrice benestante che nulla ha preteso in sede di separazione. Ciò che veramente colpisce e sgomenta è l’adozione incondizionata della razionalità neoliberale, in forza della quale si afferma che il criterio cardine nella disciplina dei rapporti post divorzio è l’autoresponsabilità economica, sintagma che tanto da vicino richiama «l’individuo imprenditore di se stesso» di Foucault.
In virtù della stessa logica, gli ex-coniugi vanno considerati come singoli senza che in alcun modo riverberi il precedente ménage comune e il matrimonio non è più la fonte di una sistemazione economica per la vita, ma invece un atto di libertà. Un atto di libertà iniziale che deve esitare poi in una condizione – possibilmente permanente – di autoresponsabilità economica.
Nel mezzo fra il prima e il poi un regime giuridico matrimoniale che è per contro ancora informato alla solidarietà familiare, cosicché, in costanza di matrimonio, il lavoro di cura è dovuto in quanto forma di contribuzione al ménage familiare, senza che sia possibile negoziare una qualche forma di retribuzione, neppure per il surplus prestato in rapporto al contributo dell’altro coniuge. Sempre la solidarietà familiare impedisce che le rinunce alla carriera professionale fatte per dedicarsi ai figli, ai genitori anziani, alla famiglia siano direttamente remunerate. È stata opinione comune sinora che una remunerazione fosse affidata al parametro del mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, da garantirsi anche dopo il divorzio.
La prima sezione civile della Cassazione ci ha detto nel maggio scorso che non è più così, che questo criterio non è più adeguato ai tempi, che è giunto il momento dell’emancipazione. La Cassazione usa un linguaggio neutro, ma è chiaro che si riferisce all’emancipazione economica delle donne. L’argomento dell’emancipazione femminile è stato spesso usato per promuovere riforme epocali del regime giuridico del divorzio in altri paesi. In alcuni casi ha effettivamente corrisposto al raggiungimento dell’indipendenza economica delle donne. In altri casi ha condotto alte percentuali di donne divorziate sotto la soglia di povertà. Inutile dire che gli effetti positivi si sono avuti solo in paesi, come la Svezia, dotati di formidabili sistemi di welfare pubblico. In paesi come gli Stati Uniti l’alleggerimento degli oneri di mantenimento post-divorzile, a fronte di un sistema di welfare molto marginale, non ha fatto altro che rimpinguare la schiera delle donne povere.
Nell’Europa meridionale, in paesi come l’Italia o la Grecia, dove l’assistenza agli anziani e alle nuove generazioni è per lo più a carico delle famiglie, fissare col divorzio la fine dei rapporti di solidarietà familiare significa negare a quei familiari, mogli e madri nella stragrande maggioranza dei casi, il riconoscimento del valore prodotto dal lavoro riproduttivo.
La logica del tenore di vita goduto in costanza in matrimonio è una logica perequativa: mira a redistribuire la ricchezza comune creata durante il matrimonio a prescindere dalla posizione che si ricopre nel mercato. La logica dell’autoresponsabilità economica è puramente ideologica: non produce alcun effetto emancipatorio concreto e lascia irrisolto il problema del valore sociale del lavoro di cura.
Ovviamente la soluzione potrebbe essere trovata in qualche forma di sostegno al reddito. In assenza di misure di welfare pubblico, la disciplina del divorzio resta essenziale: come dicevano due noti realisti americani, i coniugi negoziano in the shadow of the law.
Più il regime legale del divorzio è sperequato, maggiore è la disparità di potere nei rapporti fra i coniugi. Già oggi più del 25% delle donne subisce violenza psicologica o economica dal partner. Se nelle Sezioni Unite dovesse prevalere la razionalità neoliberale aumenterà irrimediabilmente la percentuale delle donne soggette e violenze e ricatti in famiglia.

La Stampa 11.4.18
Madame de Staël, il legno storto della Révolution
Regina dei salotti, ma anche acuta osservatrice degli eventi
Le sue Considerazioni rivelano una apripista della storiografia liberale, che esplora le cause della degenerazione nel Terrore
di Alberto Mingardi


Se la politica è l’arte del possibile, una faccenda empirica, quando si ragiona di istituzioni bisognerebbe anzitutto guardarsi attorno. L’esperienza altrui potrebbe essere maestra. Eppure molto spesso si preferisce la creatività a tutti i costi anziché adottare un modello sviluppato altrove: nel nostro Paese, è il caso dei frequenti cambi di legge elettorale.

In Francia, nel 1789, l’assemblea costituente sceglie di non seguire l’esempio della costituzione inglese, che pure aveva «conciliato le istituzioni di una repubblica con l’esistenza di una democrazia» e che dai tempi di Montesquieu era un punto di riferimento per i liberali francesi. «Una mania di vanità quasi letteraria ispirava ai francesi il bisogno di innovare in questo senso. Temevano, quasi come fa uno scrittore, di assumere i caratteri e le situazioni di un’opera già esistente. Ora nel campo dell’immaginazione si ha ragione di cercare l’originalità, ma nel campo delle istituzioni reali è una vera fortuna che l’esperienza le abbia garantite».
Bisogna esser grati ad Aragno per aver ripubblicato le Considerazioni sui principali avvenimenti della Rivoluzione francese di Madame de Staël (1766-1817), nella traduzione di Eva Omodeo e con densa prefazione di Francesco Perfetti (pp. XXXVI-606, € 35). «Ci sono tre grandi potenze in Europa», come osservò Madame de Chastenay: «l’Inghilterra, la Russia e Madame de Staël»: la biografia della figlia di Jacques Necker è un turbine di avventure, complotti, amori. Per i (molti) nemici, confondeva la libertà col suo diritto ad abitare in rue de Bac. Regina di uno dei più importanti salotti, frequentò i grandi dell’epoca e tenne vivo lo spirito dei Lumi. Seppe realizzare un capolavoro politico convincendo Bernadotte a aderire alla sesta alleanza contro Napoleone. L’imperatore, al quale pure aveva inizialmente guardato con speranza, la osteggiava e la voleva il più lontano possibile, e non soltanto perché la Madame de Staël cercava di farsi restituire l’enorme prestito accordato dal padre al Tesoro francese.
Una vita da romanzo. Proprio per questo, succede che la donna metta in ombra il pensatore. Al punto che la raccolta di Opere pubblicata quest’anno dalla Pléiade non comprende gli scritti politici.
Chiunque legga le Considerazioni si accorgerà subito che si tratta di un’ingiustizia. De Staël, moglie dell’ambasciatore svedese a Parigi, poteva assistere ai dibattiti dell’assemblea. Le Considerazioni non sono però soltanto una cronaca, e neppure una difesa appassionata dell’operato di Jacques Necker (tema che pure è centrale nelle preoccupazioni dell’autrice). Sono soprattutto un’acuta ricerca di «quel che è andato storto». Come ricorda Perfetti, il libro è un apripista di quella storiografia liberale che aveva il problema di «dissociare 1789 e 1793»: di scindere una rivoluzione «buona» dall’esito del Terrore.
Le cause della rivoluzione sono esplorate con rigore dall’autrice, che mette egual passione nell’identificare le contingenze e i fattori di lungo periodo. Terribili furono le conseguenze dell’egemonia di Parigi sul resto della Francia, dell’accentramento della Corte, della «creazione» di nobili da parte del sovrano. «Nessuna potenza umana può fare un vero nobile, sarebbe come disporre del passato (…) ma in Francia nulla era così facile come divenire un privilegiato». Ciò significava «entrare in una casta a parte e acquistare, per dir così, il diritto di nuocere al resto della nazione, aumentando il numero di quelli che non sopportavano i pesi dello Stato e che si attribuivano diritti particolari in proprio favore». Quando l’opinione pubblica, morsa dalla fame e allertata dai Lumi, decreta intollerabili i vecchi privilegi, l’edificio inizia a crepare. Ma come si passa dalla denuncia del privilegio alla ghigliottina?
Le Considerazioni descrivono come tutta una serie di avvenimenti, nessuno dei quali «inevitabile», finiscano col mettere in moto quel meccanismo. La fazione «costituzionale» è debole, la figura che avrebbe potuto assumerne la leadership, Mirabeau, è molto chiacchierata e lascia presto questa terra, nel 1791, i giacobini si rafforzano a ogni passo, un po’ per incapacità altrui e un po’ perché «un popolo in insurrezione di solito è inaccessibile ai ragionamenti, e non è possibile agire su di esso se non per sensazioni rapide come scariche elettriche».
Gli scontri politici sono sovrastati da una fondamentale questione istituzionale: cioè, come ha spiegato Biancamaria Fontana nel suo Germaine de Staël: A Political Portrait (2016), l’incapacità di fare i conti con il potere esecutivo. Nella convinzione che l’esecutivo fosse necessariamente «un nemico della libertà», e pensando fosse impossibile «farne una delle sue salvaguardie», l’assemblea ha «combinato una costituzione come avrebbe combinato un piano di attacco». Le Considerazioni sono un grande libro della storia del pensiero politico. Anche chi per la storia ha poco interesse può trovarci intuizioni profonde, che hanno qualcosa da dire sulla natura della democrazia, pure nell’Italia del 2018.

Corriere 11.4.18
Il reporter che creò quattro Stati
Nel 1876 MacGahan scosse il mondo rivelando i crimini turchi in Bulgaria
L’inviato del «Daily News» innescò una reazione a catena che trasformò la mappa dei Balcani
di Gian Antonio Stella


«C’erano testoline ricciolute in quella massa in putrefazione, schiacciate da pietre pesanti, piedini non più lunghi del dito di una mano, sui quali la carne era stata seccata dal caldo ardente prima che avesse il tempo di decomporsi; manine tese come a chiedere aiuto; neonati che erano morti sorpresi dall’intenso luccichio delle sciabole e degli occhi rossi degli uomini dallo sguardo feroce che le brandivano…». Il reportage sul «Daily News» di Januarius Aloysius MacGahan dal villaggio di Batak, 150 chilometri a sud di Sofia, piombò in faccia al primo ministro inglese Benjamin Disraeli come una scudisciata. E da lì incendiò la Gran Bretagna, la Russia e l’Europa. Era il 2 agosto 1876. E quel reportage, racconterà David Randall nell’appassionante Tredici giornalisti quasi perfetti , edito da Laterza, fu «il più grande pezzo di giornalismo di tutti i tempi».
Ci chiediamo in questi giorni: riusciranno le foto dei bambini asfissiati in Siria a scuotere il mondo? Riusciranno il piccino con la maschera antigas e le creature avvolte nei fagotti bianchi a risvegliare troppe coscienze intorpidite? Januarius, un secolo e mezzo fa, ci riuscì: «Svelò un genocidio, dimostrò che due governi mentivano sistematicamente, suscitò un’ondata d’indignazione che, spazzando il mondo civilizzato, portò a dichiarare una guerra, a ridisegnare la mappa dell’Europa, a creare quattro nuovi Paesi», cioè la Bulgaria, la Serbia, il Montenegro e la Romania, «e a segnare la sconfitta elettorale di un primo ministro britannico. Nessun altro singolo pezzo di giornalismo gli si avvicina per i suoi effetti».
Negava da settimane, il premier. E sfidava collerico i giornali che avevano osato raccogliere voci di una repressione sanguinaria, da parte degli «amici turchi», dei focolai di insurrezione in Bulgaria. Macché massacri! Come potevano i giornali «irresponsabili» diffondere «chiacchiericci da caffè»? Il «Daily», poi!
E fu così che, messo alle strette dal governo, il «Daily News» non vide altra scelta che dimostrare che le mattanze c’erano state davvero. Bisognava arrivare nel cuore dei Balcani, violare i confini, sfuggire ai pattugliamenti turchi… «Chi mandiamo?», si chiesero. Poteva riuscirci solo lui, MacGahan, un giovanotto dalla barba bionda, nato a New Lexington, in Ohio, 32 anni prima, figlio d’un ex marinaio irlandese che aveva preso parte giovanissimo al viaggio che aveva deportato Napoleone a Sant’Elena.
Rimasto orfano troppo presto, cresciuto lavorando nei campi d’estate e studiando d’inverno, intelligenza scintillante, promosso quindicenne a fare il maestro ad altri nell’Illinois, deciso a diventare avvocato, appena trasferito a Saint Louis fu preso a ben volere dal generale Philip Sheridan. Il quale, colpito dalla rapidità con cui il ragazzo si era impadronito da autodidatta del francese e del tedesco, lo spinse a studiare in Europa. A Bruxelles. Per poi suggerire al «New York Herald» di affidargli dei servizi sulla guerra appena scoppiata tra Napoleone III e Guglielmo di Prussia. Fu così che, come ha ricostruito Nicola Attadio, raccontò la disfatta di Sedan, la resistenza di Léon Gambetta, il caos della Comune di Parigi, quando rischiò di essere fucilato con l’accusa d’essere comunista. Dirà il più celebre reporter britannico dell’epoca, Archibald Forbes: «Di tutti quelli che si son fatti la reputazione di corrispondenti di guerra, MacGahan è il più brillante».
Coraggioso, rapido, infaticabile, saltò per anni da San Pietroburgo a Londra, da Cuba al Caucaso, dall’assolata Spagna alle gelide acque dell’Artico, che cercò di solcare spavaldo nonostante la nave di legno venisse serrata sempre più nella morsa dei ghiacci. Per non dire di quando, deciso a raggiungere una spedizione di truppe zariste nel  Turkestan, sfidò tutti i divieti e la morte in una pazza cavalcata nelle steppe di quasi mille miglia coi cosacchi alle calcagna. Nella scelta su chi mandare, insomma, al «Daily News» non potevano avere dubbi. E Januarius, che si guadagnerà la fama di eroe della Bulgaria, fu all’altezza: «Partì ai primi di luglio e il 23 del mese era sul posto per indagare e intervistare centinaia di sopravvissuti», sc rive Randall . «Quel che scoprì andava oltre l’immaginazione». Il 28 luglio, a dispetto delle difficoltà per spostarsi e trasmettere, dettava la prima conferma: «Penso di essere arrivato in una disposizione d’animo equa e imparziale (…) temo di non essere più imparziale, e certamente non sono più distaccato». Notizie secche come fucilate: «Sono stati bruciati 60 o 70 villaggi, (…) sono state massacrate intorno alle 15.000 persone, in larga parte donne e bambini».
Fermò il fiato al mondo intero il reportage da un borgo chiamato Batak: «All’improvviso tirammo le redini (…) perché proprio davanti a noi, quasi sotto gli zoccoli dei nostri cavalli, una vista ci fece rabbrividire. Era un cumulo di teschi, frammisti a ossa di tutte le parti del corpo umano, scheletri quasi interi e in putrefazione, vestiti, capelli umani e carne putrida giacevano lì in un ammasso nauseante. (…) Osservammo che erano tutti piccoli…». Ecco la scuola: «A giudicare dalle mura che in parte sono ancora in piedi, era una grande e bella costruzione capace di accogliere 200 o 300 bambini. Sotto le pietre e i rifiuti che coprono il pavimento per un’altezza di diversi centimetri, ci sono le ossa e le ceneri di 200 donne e bambini, bruciati vivi tra queste quattro mura». Ecco la chiesa: «Entrammo (…) ma qui l’odore divenne così cattivo che era quasi impossibile andare avanti. Prendiamo una manciata di tabacco e lo teniamo contro i nostri nasi…». È lì dietro, nel piccolo cimitero, che MacGahan trova lo spaventoso ammasso di «testoline ricciolute».
Tutto intorno, il silenzio: «Non ci sono lacrime né grida, né pianti, né urla di terrore, né preghiere di misericordia. I raccolti marciscono nei campi e i mietitori marciscono qui nel cimitero». Più in là, «i corpi di 200 ragazzine» che «erano state nelle mani dei loro aguzzini per parecchi giorni» e «avevano sofferto tutto quello che ragazze povere, deboli e tremanti potevano soffrire». Dopo esser state violate, «furono portate alla piena luce del giorno, sotto la sorridente volta del cielo, e decapitate a sangue freddo».
Quelle cronache, avrebbe scritto lo storico Edwin Pears, «colpirono l’opinione pubblica britannica come un fulmine». Scatenando l’effetto a catena. Forse fu tutto merito di quel leggendario giornalista (stroncato due anni più tardi dal tifo dopo aver seguito la guerra russo-turca con un piede ingessato!), che era capace come nessuno di toccare il cuore delle persone. O forse fu merito delle persone, ancora capaci di provare sdegno e dolore.

La Stampa 11.4.18
L’epopea delle “Exodus” italiane, pescherecci verso la terra promessa
Mostra al Memoriale della Shoah di Milano: tra il ’45 e il ’48 34 navi partirono dai nostri porti per raggiungere la Palestina
di Marco Sodano


Nahariya, Nord della costa palestinese, 25 dicembre 1945. La nave Hannah Szenes, agli ordini del capitano (italiano) Ansaldo, sbarca 250 ebrei scampati alla Shoah su una spiaggia che due anni e mezzo più tardi diventerà territorio di Israele. Bambini, donne e uomini sfuggiti ai nazisti, che hanno peregrinato per mezza Europa trovando una prima e provvisoria salvezza in Italia e hanno fronteggiato un nuovo nemico: le navi della Marina militare britannica che cercano di impedire l’immigrazione illegale degli ex deportati nella futura Israele.
La Hannah Szenes è la prima di 34 navi che partiranno dall’Italia tra il ’45 e il ’48 facendo traversare il Mediterraneo a oltre 20 mila ebrei sotto la regia dell’Aliya Bet, l’agenzia per l’immigrazione clandestina che aiutava gli scampati ebrei in tutta Europa. Carrette del mare: pescherecci riattrezzati per trasportare persone ma che dovevano fingere di fare il loro lavoro, barche adatte a navigazioni molto più brevi. Navi cui era stato cambiato il nome, i cui documenti di bordo non esistevano, che spesso furono affrontate con durezza dalle unità britanniche, che non esitavano a rispedire indietro i profughi a costo di speronare le imbarcazioni, abbordarle, usare la violenza.
L’epopea italiana dell’Aliya Bet ha dimensioni importanti. Le 34 navi italiane sono più di metà delle 65 partite complessivamente dall’Europa, i 20 mila profughi sono quasi un terzo dei 70 mila che raggiunsero la Palestina in quegli anni. Numeri impressionanti per un’operazione condotta sotto copertura. Enrico Levi, capitano di lungo corso italiano (radiato dalla Marina militare italiana dopo le leggi razziali) l’ha raccontata così: «Non ero sionista ma mi piaceva questa sfida da condurre in mare. Le condizioni erano impossibili, non c’erano navi da trasporto, il Mediterraneo era infestato dalle mine, gli inglesi sorvegliavano le coste italiane e quelle palestinesi».
Eppure l’impresa riuscì. Grazie a Levi e grazie a persone come Mario Pavia e Gualtiero Morpurgo, ingegneri, incaricati di trasformare pescherecci acquistati in porti secondari in navi adatte a trasportare persone sotto la supervisione di Levi. I tre, insieme, inventarono un sistema di teli, traverse e barre di metallo che nella stiva si trasformavano in cuccette ma potevano essere trasportate senza che se ne intuisse lo scopo. Inventarono anche il modo di montarlo senza farsi notare in porto. Rischiarono l’arresto dopo l’incidente (diplomatico) più grave, tra aprile e maggio 1946, alla Spezia: 1014 profughi pronti a partire sulle navi Fede (Dov Hoz) e Fenice (Elyhau Goulomb) e bloccati dalle autorità britanniche, non senza l’aiuto di quelle italiane che già avevano messo sotto sequestro altre tre imbarcazioni in Puglia.
Fu necessario che i mille profughi iniziassero uno sciopero della fame e minacciassero di far saltare le navi con i loro occupanti perché il caso La Spezia diventasse una formidabile arma di pressione sui britannici e sugli italiani convincendo infine i primi a vistare i lasciapassare per la Palestina. E fu imprescindibile l’intervento di Ada Sereni, che era a capo dell’Aliya Bet in Italia. Ada si era trasferita in Palestina nel ’27 con il marito Enzo per fondare un kibbutz. Era tornata in Italia a cercarlo dopo che lui, arruolato nelle Brigate ebraiche per combattere i tedeschi, era scomparso (si scoprirà poi che era morto a Dachau). La ricerca di Enzo, per Ada, si trasformò in un’opera di salvataggio incessante.
Conoscenze, bustarelle, persuasione, durezza: tutti i mezzi erano buoni per lei, che una notte riuscì anche a convincere una pattuglia di allibiti carabinieri che gli uomini e le donne che stazionavano in spiaggia erano un gruppo di suoi amici in vacanza - un centinaio di persone - che avevano deciso di dormire sotto le stelle non avendo trovato un albergo.
Questo fiume di storie si è lasciata alle spalle una scia di fotografie, lettere, cartoline che ora sono visibili al Memoriale della Shoah di Milano, nei sotterranei della Stazione Centrale, al Binario 21 da cui partivano i convogli destinati ai campi nazisti. La mostra («Le navi della speranza Aliya Bet dall’Italia 1945-48», curata da Rachel Bonfil e Fiammetta Martegani, aperta fino a fine maggio), è un percorso di dolore e di gioia.
Se non è difficile capire il dolore, la gioia degli scampati è quella di persone capaci di sfidare qualunque avversità perché, dopo l’orrore «si sentivano immensamente liberi e forti», scrive Primo Levi nella Tregua. «La comunità milanese ebbe una parte importante nell’Alya Bet», conclude il presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Roberto Jarach, «ma il punto è un altro. Questo Memoriale ricorda un luogo nel quale il martirio cominciava, i sorrisi degli ebrei stipati sulle navi salpate dall’Italia concludono in qualche modo quella pagina di storia».

Il Fatto 11.4.18
Da rifugiata a regista
“Shakespeare già sapeva quanto dolore c’è nel mare”
Vanessa Redgrave, scappata da Londra a 3 anni, presenta il suo doc
Sul set del doc che sarà presentato al Festival del giornalismo di Perugia il 14 – Ansa
di Anna Maria Pasetti


“Ci caricarono in fretta su una barca, ci trasportarono per qualche lega in alto mare e qui ci lasciarono a gridare al mare che ci ruggiva contro”. Non è cronaca di drammatica attualità ma è Shakespeare. Che già aveva le parole giuste per descrivere una condizione disumana, quella di profughi e rifugiati, gli eterni e disperati reietti dalla società di allora come di oggi. E come la Miranda de La tempesta scacciata col padre Prospero dal Ducato di Milano, Vanessa Redgrave aveva tre anni quando si ritrovò “rifugiata in patria” a causa della Seconda guerra mondiale. La memoria personale, l’esperienza d’interprete shakespeariana (tuttora in scena, a 81 anni) e la difesa dei diritti umani hanno trovato sintesi nel documentario Sea Sorrow – Il dolore del mare, opera prima da regista della grande attrice londinese.
Non viene neppure in mente di rievocare con lei quel passato glorioso, pur così italiano con Antonioni a dirigerla in Blow Up nel 1966, che comunque ricorda con affetto.
Oggi dame Vanessa è su altri “lidi”, quelli emergenziali dei bambini rifugiati, memore dei suoi traumi infantili da “dislocata” per fuggire dai bombardamenti su Londra nel 1940. Ma chi la immagini attivista di primo pelo si sbaglia: “Prima di tutto non sono un’attivista ma una testimone” sottolinea in un buon italiano, e poi è sufficiente vederla negli anni ’50 in filmati d’archivio quale volontaria per i profughi ungheresi catapultati in Gran Bretagna. Se questa è la sua prima regia, Redgrave già da anni produce col figlio Carlo Nero (avuto dall’attuale marito Franco) documentari a sfondo umanitario, non a caso da un trentennio è ambasciatrice dell’Unicef e ha avuto per questo film il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) che la tiene in grande considerazione e infatti sarà la portavoce per il Sud Europa Carlotta Sami a introdurla sabato sera a Perugia al Festival del Giornalismo dove presenterà Sea Sorrow; il doc uscirà nelle sale il 20 giugno in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. “Chi si rifiuta di accogliere e soccorrere questi derelitti trasgredisce la legge, niente di più evidente” chiosa l’attrice. “Perché sia la Convenzione europea dei Diritti umani del 1950 che la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 sono legislazioni obbligatorie e vincolanti per tutte le nazioni, a meno che una non chieda una revoca ufficiale. Quindi chi non le osserva è contro legge”.
Eppure la situazione sta precipitando e Redgrave non se ne capacita, e attribuisce alla politica “un atteggiamento criminale. Certo, non tutti i Paesi si comportano allo stesso modo verso questi disperati, ma sempre più nazioni europee sono indifferenti se non egoiste”. Colpa delle nuove destre? “Semmai delle vecchie sinistre che non hanno fatto né stanno facendo nulla di veramente sociale, di democratico, di umanitario. Io oggi conto più sulla coscienza individuale che non quella politica, perché ho incontrato eserciti di volontari e anime generose verso la causa”. Per l’attrice pluripremiata serve partire dai più piccoli: “Educarli a scuola, farli incontrare con i loro coetanei rifugiati, non privarli della realtà per quanto dura possa essere”.
E per gli adulti incollati al web farli tornare al Bardo, proprio come lei, che ha persino desunto da La tempesta il titolo Sea Sorrow. “Immaginate di vedere degli stranieri derelitti con bambini in spalla arrancare verso i porti e le coste. Se foste voi banditi dal vostro re, dov’è che andreste? Quale Stato vi darebbe rifugio? Ovunque vi trovereste a essere degli stranieri. Vi piacerebbe trovare una nazione d’indole così barbara che vi scacci come cani, quasi non foste figli e opera di Dio? Che ne pensereste di essere trattati così?”. Sono queste alcune delle parole attribuite a Shakespeare dal manoscritto del dramma teatrale Sir Thomas More sul finire del XVII secolo. Vanessa Redgrave le commenta commossa: “Shakespeare sentiva la verità in maniera profonda, e sapeva comunicarla. E io provo a farlo attraverso di lui. Lui ci dà il coraggio e la capacità di una comprensione migliore, ecco perché parla da sempre a gente di ogni paese. Un’anima di grandezza illimitata, eterna”.

La Stampa 11.4.18
Gli antenati del Viagra
Storia millenaria degli afrodisiaci, dagli antichi romani alle parole in chat
di Andrea Cionci

qui

Corriere 11.4.18
Parigi A trent’anni dalla grande mostra del Musée de Ville, una nuova retrospettiva dedicata all’artista ceco
Kupka pioniere dell’astrattismo «Non dipingo alberi ma concetti»
di Sebastiano Grasso


Trent’anni dopo la grande mostra al Musée de la Ville, Parigi ripropone una retrospettiva di František Kupka (1873-1957), pioniere dell’astrazione , a cura di Brigitte Leal, Markéta Theinhardt e Pierre Brullé. Circa 300 lavori (dipinti, disegni, incisioni) per una lettura cronologica e tematica (Grand Palais, sino al 30 luglio) dell’artista ceco, vissuto per lo più a Parigi e considerato uno dei padri dell’arte astratta: questione tuttora dibattuta (è venuto prima o dopo Kandinsky?).
Già a 17 anni Kupka dimostra doti eccezionali come disegnatore. Tant’è che, dalla Scuola reale e imperiale di Arti e mestieri, nel 1889 passa a quella di Belle arti di Praga, dove si diplomerà nel 1891. Di famiglia povera, l’artista per mantenersi fa anche il medium. Dopo un soggiorno a Vienna di circa tre anni, durante i quali affina la sua cultura — filosofia greca (Platone) e tedesca (Schopenhauer e Nietzsche), letteratura classica (Dante, Milton, Heine, Tolstoj), studi scientifici (anatomia, astronomia, chimica, storia naturale) e di teosofia —, nel 1895 si stabilisce a Parigi. Qui — l’antichità e le scienze continuano ad affascinarlo — frequenta i musei (reperti caldei e fenici) e la Sorbona (lezioni di fisica, biologia e fisiologia). Inizia lo scandaglio dei colori: rompe gli schemi d’una figurazione naturalistica e approda a una pittura composita, dove la spiritualità si amalgama con la musica e un certo romanticismo di fondo col Simbolismo orfico, sino ad arrivare all’Astrattismo. «Sembra non essere necessario rappresentare alberi quando la gente può vederne di più belli lungo le vie. Io dipingo solo concetti, sintesi, accordi», scrive, nel 1905, all’amico Josef Machar.
I lavori parigini di questo periodo risentono del clima internazionale vissuto a Vienna e, al tempo stesso, sembrano guardare alla pittura di Odilon Redon e di Ensor, al gusto decorativo di Kolo Moser (tra i fondatori della Secessione). Per vivere, l’artista boemo illustra anche libri di Baudelaire (che ritrae), Villiers de L’Isle-Adam, Leconte de Lisle e fa caricature per «L’assiette au beurre» e altri periodici.
La prima decade del Novecento è fondamentale per la trasformazione della sua poetica. Partendo da una pittura apparentemente tradizionale, in cui è evidente l’ammirazione per i fauves , per certe soluzioni matissiane e per gli espressionisti della Brücke, Kupka verifica il linguaggio sino ad allora rapportato esclusivamente al visibile. Accanto alla realtà di tutti i giorni ne esiste un’altra: quella dell’intuizione: il medium ch’è in lui gioca la sua partita. Dalle esperienze visionarie alle visioni astratte. Una buona mano gliela danno alcune conquiste scientifiche: la diffusione della luce elettrica, per esempio. Cui si aggiunge l’interesse per l’assorbimento e la rifrazione dei fenomeni luminosi, la scomposizione per fasce dei colori e il loro accostamento a forme geometriche (il rosso, rotondo; l’arancione, ovale; il verde, ondulato; il blu, verticale), l’esperienza del linguaggio musicale (un capolavoro? I tasti del piano. Il lago , del 1909). Scomposte le forme, Kupka studia il movimento e lo razionalizza. Tuttavia, essendo la sua base profondamente romantica, solo verso gli anni Trenta arriverà all’astrazione totale. Prima, infatti, si confronta anche con teatro e musica.
Sconcertato e affascinato dal primo manifesto futurista (1909), Kupka arricchisce le proprie esperienze. Comincia a elaborare le proprie tesi sull’arte astratta (1910) e al Salon des Indépendants espone tre Plan par couleurs nella sala dei cubisti, pur rifiutando un paragone con essi (1912). L’anno dopo, confesserà al «New York Times»: «Vado avanti a tentoni, ma credo di poter trovare qualcosa fra la vista e l’udito e posso produrre una fuga a colori come Bach ha fatto per la musica». Su questo binario si muoverà la sua ricerca futura. La purezza del colore deve equivalere a quella della musica. Da qui la scomposizione dei piani che lo porta alla verticalità statica. Poi, tra figurazione e astrazione, studia i movimenti del corpo umano e delle forme vegetali e biologiche, per giungere al «macchinismo» del 1925-‘35, con le composizioni ispirate dalle macchine e dal jazz. Biciclette, automobili (già usate dai futuristi e dai costruttivisti russi) hanno la stessa struttura delle nature morte e sono viste in funzione del cinema e della cosmogonia. Nel ‘31 Kupka è tra i fondatori di Abstraction-Création (con van Doesburg, Arp, Vantongerloo, Mondrian). È la prima volta che il pittore aderisce a un gruppo o ne fa parte. Probabilmente grazie all’amicizia con van Doesburg; ma anche perché vede codificate le sue idee sull’astrattismo. Che lo spingeranno nei vortici della geometria.