Repubblica 10.4.18
La guerra in Siria
Guardate quei bambini
di Gigi Riva
La
bambina ha le braccia allargate, come un Cristo in croce. La testa
riversa all’indietro, gli occhi chiusi, una bambola inerte. Il maglione
blu si è rialzato e la pancia nuda è rimasta scoperta. Sotto, ha solo un
pannolino bianco con colori vivaci sul bordo superiore. Colori allegri,
incongrui. Sta nelle braccia del suo soccorritore, un ragazzo dei
caschi bianchi, il servizio di soccorso organizzato dai ribelli siriani a
Duma, nella Ghuta orientale. Il ragazzo guarda in camera, attraverso
una luccicante e si direbbe efficiente maschera antigas, la sua divisa
blu è impeccabile e intonsa. Chissà se ha provato un velo di vergogna
per le protezioni del suo corpo a paragone con l’infante indifesa.
Sembra offrire all’indignazione del mondo l’immagine del sacrificio di
un popolo. Stride, il messaggio, con la compostezza complessiva del
quadro. La fotografia non urla, quasi assecondasse il sacro e silenzioso
istante della morte.
È un bene prezioso, questo scatto, da tenere
per caro. Perché nella fissità pittorica favorisce la riflessione,
costringe a soffermarsi, a provare empatia. La piccola, isolata nella
sua unicità, diventa nostra figlia, nostra sorella minore. Siamo capaci
di commozione solo nella personificazione della vittima, come ci insegnò
Steven Spielberg colorando di rosso il cappotto di una bambina
destinata al lager nel suo film per il resto totalmente in bianco e
nero, “Schindler’s List”.
Sono arrivate, dalla Ghuta dove il
regime di Bashar Assad è stato accusato di aver sparato per l’ennesima
volta armi chimiche, molte altre fotografie. Alcune persino consolanti,
ragazze e ragazzi che respirano dentro tubi ospedalieri l’ossigeno del
ritorno alla vita, con la curiosità innocente di chi sta sperimentando
un nuovo gioco, un diversivo rispetto ai giorni e alle notti passate nei
rifugi a schivare colpi d’artiglieria o di fucili di precisione. Altre,
la maggioranza, dove l’enormità del macello è talmente insopportabile
da provocare la fuga.
Panoramiche di stanze tappezzate di
cadaveri, schizzi di sangue, dettagli di membra offese. L’esibizione
troppo esplicita della violenza attiva anticorpi che impediscono la
comprensione, ci inducono ad allontanare una realtà che ci illudiamo
essere altro da noi. Da sette anni la Siria ci piomba in casa, al
mattino col caffè, o la sera all’ora del telegiornale. Nel caos
indistinto di sequenze sempre uguali, benché siano sempre diverse,
transitiamo indifferenti da un massacro all’altro, seguiamo con
degnazione l’aumento della contabilità all’ingrosso dei morti. Numeri,
fredda aritmetica. Confondiamo, nelle perenni convulsioni mediorientali,
persino i Paesi e i luoghi. Assorbiamo, per poi espellere, i video
sgradevoli perché non turbino il nostro consueto tran-tran.
Fino a
quando si spiaggia il cadavere di un Alan Kurdi. Ricordate? E’ il
siriano di tre anni morto in mare a Bodrum, Turchia, il 2 settembre
2015, mentre cercava di raggiungere l’Europa con la sua famiglia. Anche
allora un fremito di ribellione verso una tragedia troppo prolungata ci
scosse. Ripetemmo, purtroppo senza alcun seguito, il grido di Primo
Levi, “mai più”. Nel tempo ormai così corto del nostro impegno, ci
affrettammo a dimenticare, con la noncuranza con cui si guarda alla riva
l’altrui naufragio.
Dopo una fugace emozione, passeranno anche le
immagini di questa bambina di Duma, dimenticate nell’archivio troppo
esteso delle nefandezze contemporanee. Saremo contenti di cambiare
argomento, di voltare pagina. Ma l’oblio è l’anticamera del perenne
ritorno dei nostri fantasmi. Finché questi si fanno carne e sangue, si
presentano alla nostra porta. E ci ritroviamo la Siria in casa.