Corriere 10.4.18
il dilemma nei giornali
Pubblicare o no le foto dei bimbi che muoiono?
di Beppe Severgnini
Un
dilemma che si presenta, oramai, con orrenda periodicità. Si può
pubblicare la foto di un bambino morto, ucciso da un attacco chimico,
come è avvenuto in Siria, o annegato in mare e raccolto sulla spiaggia,
come è avvenuto per il piccolo Alan, in Turchia? Si può. Anzi, in
qualche caso si deve.
Si può pubblicare la foto di un bambino siriano dopo un attacco chimico? Si può. In qualche caso, si deve.
È
la nostra risposta angosciata, e non potrebbe essere altrimenti. Non
c’è giornale, televisione o sito d’informazione che non si sia posto il
problema, in queste ore. L’attacco chimico a Douma, nella periferia
orientale di Damasco, non ha risvegliato solo governi cinici e
presidenti superficiali. I gas del regime contro i civili nei rifugi —
l’ultima vergogna di una serie iniziata nel 2013 — hanno svegliato anche
le coscienze nelle redazioni in tutto il mondo. Le immagini sono
arrivate, anche quelle delle piccole vittime: mostriamo tutto, mostriamo
qualcosa, non mostriamo nulla?
La scelta si ripresenta con
orrenda periodicità. Ricordo che, al Corriere , ci siamo trovati davanti
allo stesso angoscioso dilemma dopo la strage nella scuola di Beslan,
in Ossezia, nel 2004; quando Alan, tre anni, un bambino siriano di etnia
curda che fuggiva con la famiglia da Kobane, è stato trovato morto
sulla spiaggia di Bodrum in Turchia nel 2015; dopo gli attacchi
terroristici sul lungomare di Nizza nel 2016 e sulla Rambla di
Barcellona nel 2017.
La scelta di mostrare tutto è difficile: può
urtare la sensibilità di alcuni lettori/utenti, ma non può esistere il
sospetto che sia un modo di speculare sui minori. Se qualcuno pensasse
che un giornale pubblica certe foto per suscitare curiosità morbosa è
fuori strada. Nei media abbiamo molte colpe — anche quella di indulgere
sul crimine, soprattutto in televisione — ma non questa. La fotografia
di un bambino morente è uno strazio. Per chi ha scattato la foto, per
chi la pubblica, per chi la vedrà.
Ma questa sofferenza non è
inutile. È il passaggio obbligato verso una soluzione dei conflitti, che
passano dal coinvolgimento dell’opinione pubblica. Pochi ricordano il
nome di Kim Phúc, ma quasi tutti ricordano la sua immagine. Aveva nove
anni quando, l’8 giugno 1972, venne fotografata mentre scappava, nuda e
in lacrime, dopo un attacco al napalm a Trang Bang, un villaggio vicino
Saigon, in Vietnam. La foto venne scattata da Nick Ut della Associated
Press e vinse il premio Pulitzer. Il fotografo ha seguito Phuc anche
durante gli interventi e le cure per guarire dalle ustioni. Se la guerra
del Vietnam è finita un po’ prima, se altri bambini non sono morti, è
anche a causa di quella foto, che sconvolse l’America.
Quindi, con
dolore, diciamo: le foto dei bambini siriani vittime del gas vanno
pubblicate. Spiega l’avvocato Caterina Malavenda, che ha studiato a
lungo la materia: «Il principio della legge è chiaro: i volti dei minori
che soffrono non si possono mostrare. Ma un caso come questo è del
tutto eccezionale. Le foto non arrecano alcun danno ulteriore a quei
poveri bambini, hanno un impatto emotivo più forte di mille parole, e
potrebbero contribuire alla fine dell’orrore di questa guerra».
Un
riassunto impeccabile di una situazione insopportabile. Speriamo di non
dovervi mostrare mai più certe immagini. Vuol dire che nessuno avrà
usato di nuovo un’arma chimica. È quello per cui tutti preghiamo.