l’espresso 8.4.18
Rivoluzione o estinzione
colloquio con Fabrizio Barca di Alessandro Gilioli
Fabrizio
Barca, 64 anni, oggi fa politica occupandosi del Forum sulle
disuguaglianze, fondato per fornire proposte concrete alle nuove e
urgenti esigenze dei ceti alla base della piramide sociale. Quegli
stessi ceti che hanno abbandonato il Pd e in generale la sinistra, di
cui Barca è stato un autorevole esponente. Con lui proviamo a capire
allora il percorso di questo abbandono e le eventuali prospettive.
Barca,
i numeri degli ultimi dieci anni sono chiari: 12 milioni di voti al Pd
nel 2008, 6 milioni nel 2018. Mentre anche la sinistra radicale è finita
nell’irrilevanza. Che cos’è successo?
«Andrei ancora più
indietro nel tempo. È da almeno 25 anni che vediamo un’incapacità
progressiva della sinistra di rappresentare le classi subalterne della
società, quelle che il nostro Forum chiama gli ultimi, i penultimi e i
vulnerabili. Quando non rappresenti più quegli interessi il tuo
elettorato cerca qualcosa altrove. E a un certo punto le cose
precipitano».
Perché 25 anni?
«Fino agli anni Ottanta non
solo il Pci ma anche i socialisti e la sinistra della Dc hanno svolto un
ruolo di rappresentanza popolare. Ma hanno iniziato a perderlo quando
il neoliberismo è diventato egemone e li ha inibiti dal contrastare la
concentrazione di reddito e ricchezza che veniva dalla globalizzazione e
dai cambiamenti tecnologici. Persa questa capacità di rappresentanza,
le tre aree politiche in questione - Pci, Psi e sinistra Dc - hanno
cercato di perpetuarsi unendosi gradualmente in un unico partito, il Pd,
senza però ritrovare un ruolo di tutela del lavoro e dei più deboli,
anzi assecondando le dinamiche che aumentavano le disuguaglianze. E
nessun partito di sinistra oggi comunica una genuina ed empatica
sensazione di dire “siamo con voi”».
“Siamo con voi”, chi?
«Con
i lavoratori, naturalmente. Ma c’è anche un aspetto geografico,
territoriale: mi riferisco a quei milioni di persone che abitano nei
luoghi dimenticati, nelle periferie, nelle microcittà sparpagliate e
nelle aree rurali. Questi elettori non hanno tardato ad accorgersi che
la sinistra parlava sempre di più alle città, anzi ai centri delle
città, alla “borghesia urbana riflessiva”. E ovviamente hanno cercato
una rappresentanza diversa».
Ma perché la sinistra ha assecondato le dinamiche che toglievano tutele ai lavoratori e ai dimenticati?
«È
iniziato tutto con la caduta del Muro di Berlino. Vede, noi della
sinistra - anche nel Pci - sapevamo benissimo che il “socialismo reale”
non era il modello giusto per liberare le persone. Eppure dopo la caduta
del Muro abbiamo pensato che fosse finito tutto quello in cui avevamo
creduto: l’avanzamento sociale, la lotta contro le disuguaglianze,
l’emancipazione delle classi deboli. Abbiamo pensato che davvero fosse
finita la storia, come diceva Fukuyama, e che la vittoria del
neoliberismo fosse definitiva. C’è stato un totale ripudio del passato e
un’adesione interiore al neoliberismo. Un’intera generazione di
sinistra - la mia - dopo il 1989 si è convinta che i suoi ideali di
uguaglianza fossero una sorta di romantico errore di gioventù. Un po’
come se avessimo detto alle generazioni successive: “Noi abbiamo creduto
ingenuamente nell’uguaglianza ma poi abbiamo capito che quelle idee
erano sbagliate, quindi voi è meglio che ve le togliate subito dalla
testa, non pensateci nemmeno a cambiare il mondo”».
E così nel
Paese che aveva il più grosso partito comunista d’Europa la sinistra non
c’è quasi più. Mentre in altri paesi europei - la Gran Bretagna di
Corbyn, la Spagna di Podemos, in qualche modo anche il Portogallo e la
Grecia - una rappresentanza politica della sinistra c’è, e anche
significativa. Perché?
«La crisi della sinistra non è solo
italiana, basta guardare alla Francia e all’Olanda, per esempio. Credo
che però la particolarità italiana abbia due ragioni. Una è il Pd
stesso, che ha continuato a lungo a illudere di essere quella cosa
prolungando la non ricerca di una reazione. Sa, nel Pd c’è ancora un
grande senso di appartenenza, come se gli iscritti fossero ancora dentro
un partito di sinistra. La seconda risposta è legata al Movimento 5
stelle. Che, certo, è diverso da Podemos o da Syriza, ma ha dato una
risposta alla stessa richiesta di radicalismo - e anche di scorciatoie,
come se andare al potere potesse sostituire una strategia di
cambiamento. In ogni caso, in Italia ci sono masse di persone che non si
sentono più rappresentate dalla sinistra e hanno trovato il porto dei 5
stelle. E questo ha tolto la base anche ai partiti che hanno provato ad
affacciarsi alla sinistra del Pd».
Ma esiste ancora qualcosa che il Pd e i partiti alla sua sinistra debbano fare? Oppure è semplicemente finita per tutti?
«Credo
che la questione oggi non sia quella che ha animato il dibattito in
queste settimane (governo o opposizione) ma stia piuttosto nelle
battaglie parlamentari. Il ruolo del Parlamento (se lo è augurato anche
Fico nel suo discorso di insediamento) può e deve tornare centrale, come
lo è stato nel Dopoguerra, quando anche dall’opposizione il Pci ha
contribuito profondamente a cambiare in meglio il Paese. Credo che la
strada da percorrere sia quella delle battaglie parlamentari su
obiettivi concreti in direzione dell’eguaglianza sociale, a partire dal
lavoro e dalle aree abbandonate. Anche il nostro lavoro come Forum sulle
diseguaglianze va nella direzione di individuare - alla fine del primo
anno di vita - proposte e battaglie sociali che possono diventare
parlamentari, quale che sia il prossimo governo».
Intanto però è
probabile che in Parlamento arrivino proposte “popolari” ma non del Pd:
ad esempio, per cambiare la legge Fornero e per il reddito minimo. Se la
sinistra si opponesse “da destra” saremmo daccapo.
«Non penso
che queste proposte siano vitali, non si gioca lì l’uscita dalla crisi
di milioni di persone. La forza di un partito serio e solido sta nella
capacità di spostare l’agenda sulle proprie proposte, non limitandosi a
rincorrere quelle facili avanzate da altri, le idee massimaliste che
lisciano il pelo alla gente. Chi propone quelle cose le faccia e le
gestisca, se ci riesce».
Abbiamo parlato di sinistra cercando le
cause e guardando le prospettive. Sul breve, però, il Pd sembra guardare
al massimo a domattina. Litiga sui capogruppo, si divide in nuove
correnti, insomma non sembra proprio aver capito cos’è successo e come
uscirne.
«Lo schiaffo è stato violentissimo. E quando si riceve
una sberla così ci sono due sole reazioni possibili: la prima è
arroccarsi ancora di più - magari guadagnando un anno o due - e allora
ci si condanna al suicidio, all’estinzione. Oppure la classe dirigente
trova il coraggio di dirsi: “Va così male che mi metto a repentaglio,
ora ho da perdere molto meno di prima”. Quindi si cambia tutto,
innovando in modo radicale».
Quale delle due strade sceglieranno? «Ancora non lo so, ma so che non ce n’è una terza»