Corriere 10.4.18
Elzeviro Il sacrificio secondo Recalcati
Il coraggio di affrontare il desiderio
di Emanuele Trevi
È un ritratto potente, e per certi aspetti sconsolato, del nevrotico quello che emerge dalle pagine di Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017), il recente saggio di Massimo Recalcati che sviluppa e approfondisce temi già toccati in libri precedenti, e in particolare in L’uomo senza inconscio Figure della nuova clinica psicoanalitica (stesso editore, 2010). Nei brevi e limpidi capitoli di questo libro il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta e anche alla memoria personale, come se l’autore, individuato uno dei peggiori e più insidiosi nemici della vita umana, intendesse stanarlo e aggredirlo moltiplicando i punti di vista e le possibili strategie. Ed ecco emergere, pagina dopo pagina, la cupa figura dello «schiavo del peccato», del rinunciante sempre invischiato nell’economia perversa del «fantasma sacrificale». Tutto ciò di cui non gode, pensa quest’uomo, costituisce un capitale, o meglio un investimento che gli sarà restituito a tempo debito. Non c’è impoverimento della propria vita (e di quella di chi gli è vicino!) che non gli appaia conveniente in nome di un finto ideale di purezza e superiorità morale che è solo un alibi per non assumersi mai la responsabilità del proprio desiderio.
Nello Zarathustra , Friedrich Nietzsche escogitò la metafora del «cammello» per irridere questa vita tanto priva di spirito quanto fondata sulla penitenza e l’ascetismo. Lo sguardo rivolto a terra, la schiena carica di pesi, il «cammello» è la perfetta incarnazione di un’esistenza del tutto spogliata di senso da un imperativo morale che sembra sempre giungere da fuori e dall’alto, ed esige cieca obbedienza e rassegnazione. Recalcati non ha dubbi: così sottomessa a una Legge che si afferma negando il desiderio, l’esistenza dello «schiavo della colpa» è un errore irredimibile, una pulsione di morte travestita da virtù. «La vita interiore prende il posto della vita: ruminazione incessante, abnegazione, autocolpevolizzazione, risentimento, sacrificio di sé».
Il compito dell’analisi, per Recalcati, è riconoscere che proprio l’identificazione della vita e del sacrificio è «la malattia più grande del nevrotico». La posta in gioco è altissima, perché consiste nella possibilità di fondare e rafforzare un’alleanza vitale fra la Legge e il desiderio. Se c’è una «colpa», essa va riconosciuta nell’aver tradito la propria singolarità e tutte le sue inclinazioni, di non essersi caricati sulle spalle l’unico peso che è davvero necessario assumersi, che è quello di ciò che si vuole.
Si leggono queste pagine di Recalcati come un messaggio di speranza ancora più che come un rigoroso discorso scientifico e filosofico, capace di far interagire, con grande sapienza dialettica, i Vangeli e Nietzsche, Søren Kierkegaard e Jacques Lacan. Uno dei meriti dei saggi di Recalcati è quello di far sempre proseguire per conto suo il lettore nel percorso iniziato con la lettura. Tutto sommato, è della nostra vita che si tratta, e del rischio perenne di sprecarla e dissiparla. Proprio per questo, mi sembra urgente formulare a questo bel libro, e al suo autore, una domanda: una volta liberati dal «fantasma sacrificale», come diventiamo in grado di riconoscere ciò che davvero vogliamo, e che ci definisce come individui? Non è questo un altro pezzo di strada lungo il cammino in direzione della nostra libertà?
Per il momento Recalcati confina questa ulteriore questione in una nota a piè di pagina. Ma mi sembra che valga la pena di scavare ancora in un terreno così fertile. Magari in un nuovo libro, dedicato questa volta all’arte più difficile che esiste: quella di conoscere sé stessi.
Corriere 10.4.18
il dilemma nei giornali
Pubblicare o no le foto dei bimbi che muoiono?
di Beppe Severgnini
Un dilemma che si presenta, oramai, con orrenda periodicità. Si può pubblicare la foto di un bambino morto, ucciso da un attacco chimico, come è avvenuto in Siria, o annegato in mare e raccolto sulla spiaggia, come è avvenuto per il piccolo Alan, in Turchia? Si può. Anzi, in qualche caso si deve.
Si può pubblicare la foto di un bambino siriano dopo un attacco chimico? Si può. In qualche caso, si deve.
È la nostra risposta angosciata, e non potrebbe essere altrimenti. Non c’è giornale, televisione o sito d’informazione che non si sia posto il problema, in queste ore. L’attacco chimico a Douma, nella periferia orientale di Damasco, non ha risvegliato solo governi cinici e presidenti superficiali. I gas del regime contro i civili nei rifugi — l’ultima vergogna di una serie iniziata nel 2013 — hanno svegliato anche le coscienze nelle redazioni in tutto il mondo. Le immagini sono arrivate, anche quelle delle piccole vittime: mostriamo tutto, mostriamo qualcosa, non mostriamo nulla?
La scelta si ripresenta con orrenda periodicità. Ricordo che, al Corriere , ci siamo trovati davanti allo stesso angoscioso dilemma dopo la strage nella scuola di Beslan, in Ossezia, nel 2004; quando Alan, tre anni, un bambino siriano di etnia curda che fuggiva con la famiglia da Kobane, è stato trovato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia nel 2015; dopo gli attacchi terroristici sul lungomare di Nizza nel 2016 e sulla Rambla di Barcellona nel 2017.
La scelta di mostrare tutto è difficile: può urtare la sensibilità di alcuni lettori/utenti, ma non può esistere il sospetto che sia un modo di speculare sui minori. Se qualcuno pensasse che un giornale pubblica certe foto per suscitare curiosità morbosa è fuori strada. Nei media abbiamo molte colpe — anche quella di indulgere sul crimine, soprattutto in televisione — ma non questa. La fotografia di un bambino morente è uno strazio. Per chi ha scattato la foto, per chi la pubblica, per chi la vedrà.
Ma questa sofferenza non è inutile. È il passaggio obbligato verso una soluzione dei conflitti, che passano dal coinvolgimento dell’opinione pubblica. Pochi ricordano il nome di Kim Phúc, ma quasi tutti ricordano la sua immagine. Aveva nove anni quando, l’8 giugno 1972, venne fotografata mentre scappava, nuda e in lacrime, dopo un attacco al napalm a Trang Bang, un villaggio vicino Saigon, in Vietnam. La foto venne scattata da Nick Ut della Associated Press e vinse il premio Pulitzer. Il fotografo ha seguito Phuc anche durante gli interventi e le cure per guarire dalle ustioni. Se la guerra del Vietnam è finita un po’ prima, se altri bambini non sono morti, è anche a causa di quella foto, che sconvolse l’America.
Quindi, con dolore, diciamo: le foto dei bambini siriani vittime del gas vanno pubblicate. Spiega l’avvocato Caterina Malavenda, che ha studiato a lungo la materia: «Il principio della legge è chiaro: i volti dei minori che soffrono non si possono mostrare. Ma un caso come questo è del tutto eccezionale. Le foto non arrecano alcun danno ulteriore a quei poveri bambini, hanno un impatto emotivo più forte di mille parole, e potrebbero contribuire alla fine dell’orrore di questa guerra».
Un riassunto impeccabile di una situazione insopportabile. Speriamo di non dovervi mostrare mai più certe immagini. Vuol dire che nessuno avrà usato di nuovo un’arma chimica. È quello per cui tutti preghiamo.
Repubblica 10.4.18
La guerra in Siria
Guardate quei bambini
di Gigi Riva
La bambina ha le braccia allargate, come un Cristo in croce. La testa riversa all’indietro, gli occhi chiusi, una bambola inerte. Il maglione blu si è rialzato e la pancia nuda è rimasta scoperta. Sotto, ha solo un pannolino bianco con colori vivaci sul bordo superiore. Colori allegri, incongrui. Sta nelle braccia del suo soccorritore, un ragazzo dei caschi bianchi, il servizio di soccorso organizzato dai ribelli siriani a Duma, nella Ghuta orientale. Il ragazzo guarda in camera, attraverso una luccicante e si direbbe efficiente maschera antigas, la sua divisa blu è impeccabile e intonsa. Chissà se ha provato un velo di vergogna per le protezioni del suo corpo a paragone con l’infante indifesa. Sembra offrire all’indignazione del mondo l’immagine del sacrificio di un popolo. Stride, il messaggio, con la compostezza complessiva del quadro. La fotografia non urla, quasi assecondasse il sacro e silenzioso istante della morte.
È un bene prezioso, questo scatto, da tenere per caro. Perché nella fissità pittorica favorisce la riflessione, costringe a soffermarsi, a provare empatia. La piccola, isolata nella sua unicità, diventa nostra figlia, nostra sorella minore. Siamo capaci di commozione solo nella personificazione della vittima, come ci insegnò Steven Spielberg colorando di rosso il cappotto di una bambina destinata al lager nel suo film per il resto totalmente in bianco e nero, “Schindler’s List”.
Sono arrivate, dalla Ghuta dove il regime di Bashar Assad è stato accusato di aver sparato per l’ennesima volta armi chimiche, molte altre fotografie. Alcune persino consolanti, ragazze e ragazzi che respirano dentro tubi ospedalieri l’ossigeno del ritorno alla vita, con la curiosità innocente di chi sta sperimentando un nuovo gioco, un diversivo rispetto ai giorni e alle notti passate nei rifugi a schivare colpi d’artiglieria o di fucili di precisione. Altre, la maggioranza, dove l’enormità del macello è talmente insopportabile da provocare la fuga.
Panoramiche di stanze tappezzate di cadaveri, schizzi di sangue, dettagli di membra offese. L’esibizione troppo esplicita della violenza attiva anticorpi che impediscono la comprensione, ci inducono ad allontanare una realtà che ci illudiamo essere altro da noi. Da sette anni la Siria ci piomba in casa, al mattino col caffè, o la sera all’ora del telegiornale. Nel caos indistinto di sequenze sempre uguali, benché siano sempre diverse, transitiamo indifferenti da un massacro all’altro, seguiamo con degnazione l’aumento della contabilità all’ingrosso dei morti. Numeri, fredda aritmetica. Confondiamo, nelle perenni convulsioni mediorientali, persino i Paesi e i luoghi. Assorbiamo, per poi espellere, i video sgradevoli perché non turbino il nostro consueto tran-tran.
Fino a quando si spiaggia il cadavere di un Alan Kurdi. Ricordate? E’ il siriano di tre anni morto in mare a Bodrum, Turchia, il 2 settembre 2015, mentre cercava di raggiungere l’Europa con la sua famiglia. Anche allora un fremito di ribellione verso una tragedia troppo prolungata ci scosse. Ripetemmo, purtroppo senza alcun seguito, il grido di Primo Levi, “mai più”. Nel tempo ormai così corto del nostro impegno, ci affrettammo a dimenticare, con la noncuranza con cui si guarda alla riva l’altrui naufragio.
Dopo una fugace emozione, passeranno anche le immagini di questa bambina di Duma, dimenticate nell’archivio troppo esteso delle nefandezze contemporanee. Saremo contenti di cambiare argomento, di voltare pagina. Ma l’oblio è l’anticamera del perenne ritorno dei nostri fantasmi. Finché questi si fanno carne e sangue, si presentano alla nostra porta. E ci ritroviamo la Siria in casa.
La Stampa 10.4.18
La nuova campagna antiaborto
di Vladimiro Zagrebelsky
A Roma l’associazione ProVita ha affisso un gran manifesto che riproduce l’immagine di un feto mostrandone l’avanzato stadio di formazione alla undicesima settimana. Con poche parole aggiunte il messaggio è chiaro e invita a non interrompere lo sviluppo di una vita umana. Apriti cielo! Associazioni pro libertà di aborto, gruppi di donne e militanti politiche ne hanno reclamato la rimozione, poiché ritenuto offensivo di una legge dello Stato e della libertà di scelta delle donne. Le proteste hanno avuto effetto e l’amministrazione comunale di Roma l’ha fatto rimuovere credendo di potersi richiamare a un articolo del regolamento sulle affissioni che tra l’altro vieta esposizioni lesive delle libertà individuali e dei diritti civili e politici.
Così facendo, naturalmente, quello che sarebbe stato visto da poche centinaia di passanti è diventato noto a migliaia di persone, insieme al messaggio che voleva inviare. Per fortuna in una società libera questo è l’effetto della censura. L’intelligenza dei censori dovrebbe esserne avvertita.
Nel nostro Paese la critica delle leggi è ovviamente libera, così come lo è la proposta di modificarle. Non solo, ma libera è anche la propaganda diretta a spingere a non usufruire di possibilità che la legge ammette. Sembrerebbe ovvio, se la necessità di ricordarlo non venisse dalla vicenda, che ha visto, non la critica di quel manifesto, ma la pretesa di eliminarlo: la pretesa di zittire chi sente diversamente. Certo quella immagine è forte, impone di pensare, suscita emozioni e turbamento, ma non è falsa ed è veicolo di legittima manifestazione del pensiero. Agli intolleranti che si oppongono a quella che spesso è l’altrui intolleranza, va ricordato ciò che scrive la Corte europea dei diritti umani nelle sue sentenze: la libertà di espressione riguarda anche le forme utilizzate e «vale non soltanto per le “informazioni” o le “idee” che sono accolte con favore o sono considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano lo Stato o una qualunque parte della popolazione. È questa un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non esiste società democratica».
In Italia l’interruzione volontaria della gravidanza è ammessa, secondo la procedura prevista dalla legge se per la donna, «la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsione di anomalie o malformazioni del concepito». Fuori di quei casi, non esiste un diritto rimesso alla sola scelta della donna. In altri Paesi europei le leggi sono diverse, alcune molto restrittive, altre con pochi limiti. La legge italiana è equilibrata e dalla Corte europea dei diritti umani è stata ritenuta compatibile con i diritti e le libertà della Convenzione europea. Ciò detto è ben evidente che ogni critica alla legge, per restringerne la portata o per allargarla è del tutto legittima.
Il tema dell’aborto è tra i più divisivi, non solo in Italia. Negli Stati Uniti gruppi di fondamentalisti cristiani sono arrivati a sparare a medici e cliniche che, conformemente alla legge, praticano gli aborti. Anche in Francia, analoghi gruppi sono ricorsi alla violenza. Le autorità hanno naturalmente reagito alla violenza, ma si è anche andati oltre. In Francia in vista della campagna elettorale per la recente elezione del presidente della Repubblica, la sinistra al governo ha introdotto una legge che punisce non solo chi dia indicazioni false per indurre in errore e dissuadere donne che s’informano sull’interruzione volontaria della gravidanza, ma anche chi «esercita pressioni psicologiche» sconsigliando di abortire. Le proteste dei vescovi di Francia e dei gruppi cattolici, nel silenzio dei laici e della sinistra, non hanno avuto effetto e quel testo è divenuto legge.
Per la salute della democrazia è importante che, contro la censura delle idee, non protesti solo chi della censura è vittima. La libertà è indivisibile. Sta o cade chiunque ne sia privato.
La Stampa 10.4.18
Il divorzio e la tutela delle donne
di Linda Laura Sabbadini
A maggio del 2017 la I sezione civile della Corte di Cassazione deliberò che il riferimento di partenza per stabilire il diritto all’assegno di divorzio non dovesse essere il tenore di vita goduto dai coniugi, ma la disponibilità o meno di un reddito che permette l’autosufficienza. Quella sentenza ha già provocato danni. Una successiva del tribunale di Milano affermava che l’assegno può essere chiesto dall’ex coniuge che versa in condizione di povertà.
O sei povera o nulla, sentenziano a Milano, anche se hai contribuito e molto al tenore di vita della famiglia con il lavoro retribuito e non, magari per 30 anni. Pur essendo la sentenza di maggio piena di parole moderne rappresenta un arretramento storico, perché penalizza il coniuge più vulnerabile economicamente. Meno male che non tutto è perduto e che oggi le Sezioni Unite, espressione della massima collegialità della Cassazione, affronteranno la questione. Spero che, avendo una visione più ampia, confermino, rafforzandolo il criterio del tenore di vita. Ciò non vuol dire che va garantito alla donna il tenore di vita che aveva prima, impoverendo l’uomo. Significa che si parte dalla quantificazione di quel livello, e si prendono a riferimento tutti gli elementi possibili per capire se è necessario l’assegno: quanto guadagna lui, quanto lei, la ricchezza di ognuno dei due, la durata del matrimonio, il contributo al lavoro di cura di ciascuno ecc. Se la durata del matrimonio è brevissima, difficile che ci sarà assegno. Ma se la durata è 30 anni e il reddito della donna è molto più basso, un part time a fronte di un marito avvocato, lui dovrà contribuire, soprattutto se hanno avuto figli. Il progetto era comune, le rinunce della donna hanno contribuito anche alla crescita del tenore di vita del marito e della famiglia. Tutto viene fatto saggiamente, c’è il giudice. Con la nuova sentenza di maggio viene fatta tutta questa analisi per definire se c’è diritto all’ assegno. Conta solo se la donna ha il minimo per vivere. Se ce l’ha, anche se ha contribuito tanto e la differenza economica con il marito è elevata, non ha diritto a niente. In questo senso è profondamente iniqua. E decreta il deciso peggioramento della situazione delle donne, il rischio di caduta in povertà. Non a caso anche la Commissione Giustizia del Senato su proposta della sua Presidente Ferranti, ha cercato di porvi rimedio. Quella sentenza corre dietro alle dicerie e allo stereotipo attualmente assai diffuso che le donne divorziate vogliono farsi mantenere e mandano sul lastrico gli uomini. Ma non è così. Primo. Le donne che divorziano nella stragrande maggioranza dei casi non si fanno mantenere. Solo nel 13,7% dei divorzi si attiva un assegno per il coniuge quasi sempre donna. Secondo. Non si tratta di assegni miliardari. L’assegno medio è di 500 euro. Il 60% delle donne riceve al massimo 400 euro. Le donne non ci si fanno ricche. Terzo. Le coppie sono asimmetriche, sia considerando il reddito che il lavoro quotidiano. Le donne guadagnano meno degli uomini nella maggioranza delle coppie, fanno più part time, rinunciano di più a incarichi, in un quarto dei casi interrompono il lavoro dopo la nascita dei figli. Ma se consideriamo la somma delle ore di lavoro retribuito e non, lavorano un’ora in più del marito al giorno. Contribuiscono e tanto al tenore di vita ma in modo invisibile e non valorizzato da un punto di vista monetario. Lo dice su giudicedonna.it anche la mitica Gabriella Luccioli, la prima donna entrata in Magistratura e la prima a diventare giudice della I Sezione della Corte di Cassazione. La sentenza di maggio «disconosce le rinunce ed i sacrifici compiuti dal coniuge più debole in favore dell’altro e dell’intero nucleo familiare». Lo dicono le donne che hanno firmato l’appello pubblicato interamente su questo giornale. Giustizia, equità, uguaglianza non formale ci aspettiamo con fiducia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
il manifesto 10.4.18
Il voto italiano è il punto di rottura della crisi europea
di Massimo D'Alema
Non è ancora facile capire i tratti della nuova fase politica che si è aperta. Difficile dire se siamo all’inizio di una confusa transizione o se è davvero un nuovo bipolarismo quello che si delinea dopo il 4 marzo. Ma certamente un lungo periodo storico si è concluso con un risultato elettorale che segna una svolta da cui il Paese difficilmente tornerà indietro.
La sconfitta e il drastico ridimensionamento di tutte e due le forze (Pd e Forza Italia) che hanno rappresentato i pilastri del bipolarismo italiano e che sono l’espressione delle due grandi famiglie politiche europee apre scenari inediti. Nelle elezioni del 2013 questa tendenza si era già manifestata. Ma in questi anni nulla è stato fatto per invertire la rotta, al contrario le scelte compiute hanno trasformato il lento bradisismo in una frana rovinosa che ha travolto l’equilibrio politico che per oltre vent’anni ha caratterizzato il paese.
Credo sia giusto osservare che la tendenza all’affermazione di forze che chiamiamo populiste (con tutte le ambiguità di questa espressione) o comunque antiestablishment a danno dei partiti politici tradizionali è un fenomeno europeo. In Italia questa spinta si è manifestata in forme estreme riproponendo il nostro paese come una sorta di anello debole della catena delle democrazie europee o, se si preferisce, di laboratorio politico.
IL VOTO DEL 4 MARZO è dunque al tempo stesso un segnale ulteriore e più forte di allarme per l’Europa e insieme l’espressione di una crisi profonda della società e del sistema politico italiano. Sulla caduta del consenso verso il progetto europeo si è scritto molto, ma è importante rimarcare che con il voto italiano si è a un punto di possibile rottura. Si può sostenere con tutte le ragioni del mondo che il ripiegamento nazionalistico non è una risposta adeguata alle sfide del mondo globale. Ma è evidente che o l’Unione Europea sarà concretamente in grado di orientarsi verso la crescita, l’inclusione sociale e la tutela dei cittadini del nostro continente, oppure l’ondata «sovranista» e antieuropea metterà a rischio i fondamenti stessi dell’integrazione.
Non è difficile capire perché la caduta della speranza europeista abbia avuto effetti particolarmente laceranti nella società italiana. Il nostro paese ha sempre sofferto di una debole identità nazionale e in una scarsa fiducia nelle proprie istituzioni e il progetto dell’unità europea ha finito per assumere, in particolare nel momento della crisi della democrazia dei partiti (anni ’90) il valore di un punto di riferimento in grado di unire e motivare le forze fondamentali della società, della cultura e della politica. La spinta modernizzatrice e propulsiva determinata dall’avvento dell’euro si è consumata progressivamente nella morsa delle politiche di austerità, anche per effetto del deficit democratico e della logica tecnocratica che ha caratterizzato le istituzioni europee. La lunga crisi apertasi nel 2008 ha fiaccato il paese, aggravando diseguaglianze e povertà e approfondendo le fratture storiche a partire da quella fra Nord e Sud.
L’ITALIA FOTOGRAFATA dal voto del 4 marzo è un paese sfiduciato e diviso. Il voto esprime rancore verso le classi dirigenti, una sorta di rabbia che non sembra però generare né una speranza né un progetto per il futuro dell’Italia.
Non ci si può nascondere che questo esito è anche il punto di arrivo di una lunga e logorante battaglia culturale contro i partiti e contro la politica nel nome di una visione apologetica della società civile. Il moralismo populista contro «la casta» nella vicenda italiana di questi anni si è riproposto come un vero e proprio «sovversivismo delle classi dirigenti» con la sua carica, non nuova nella storia del nostro paese, di umori antiparlamentari e antidemocratici. Ma è ugualmente vero che la sentenza di condanna della classe dirigente è il frutto della incapacità di spezzare la spirale della crisi sociale e della crisi democratica che ha progressivamente indebolito e delegittimato le istituzioni del paese.
IL CENTROSINISTRA ha pagato il prezzo più alto a questa caduta di legittimazione. L’analisi più acuta di questa sconfitta sta in un articolo di Alfredo Reichlin pubblicato il 14 marzo dell’anno scorso, l’ultimo che egli ha scritto prima di lasciarci. È una riflessione illuminante sulla sconfitta annunciata. «Non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. È il popolo che dirà la parola decisiva… La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto e agibile dalle nuove generazioni. Quando parlai del Pd come di un “Partito della nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere».
Ma il popolo, il 4 marzo, ha detto la sua proprio come Alfredo aveva profetizzato. Certo all’origine della crisi della sinistra ci sono scelte che vengono da lontano e che hanno progressivamente segnato la subalternità del socialismo europeo al neoliberismo. Questo cedimento non è di questi anni e ha riguardato – lo ripeto – l’insieme della sinistra in Europa e negli Stati Uniti. La sinistra è rimasta schiacciata dal peso del dominio dell’economia sulla politica, nella morsa di quella contraddizione – annotata già da Gramsci nei Quaderni – tra il carattere cosmopolitico dell’economia e il carattere ristrettamente nazionale di una politica messa sulla difensiva dalla influenza pervasiva della finanza globale.
Tony Blair e Gerhard Schroeder
DELLA GLOBALIZZAZIONE la sinistra degli anni ’90 aveva enfatizzato, in modo sovente acritico, le potenzialità positive, fidando nel processo di integrazione europea come possibile contrappeso «politico» al ruolo crescente dei mercati. Ma se allora fu indubbiamente un errore avere sottovalutato le contraddizioni e il costo sociale del capitalismo finanziario globale, l’illusione di potere rilanciare il centrosinistra dopo la grande crisi del 2007/2008 riproponendo, in forma persino estremizzata, la cultura della «terza via» è stato, più che un errore, un suicidio.
Il Pd non ritroverà il suo ruolo se non fa i conti anche con l’esperienza di questi ultimi anni; con il fallimento dell’illusione neocentrista, dell’idea, cioè, che assumendo la cultura e le movenze del berlusconismo si potesse acquisire uno spazio di consenso e un ruolo centrale di potere per una lunga fase. Non sono riusciti – in un’altra epoca e con ben altri mezzi – Blair e Schroeder a trasformare le socialdemocrazie europee nel «nuovo centro», figuriamoci se questa impresa poteva riuscire a Renzi e al suo gruppo dirigente.
Pedro Sanchez, Matteo Renzi e Manuel Valls nel 2014: il patto del tortellino
L’ATTACCO ROZZO ai sindacati, il disprezzo verso i diritti dei lavoratori e degli insegnanti, la deriva personalistica che ha logorato e in parte demolito l’organismo collettivo del partito, l’avventurismo plebiscitario in materia di riforme costituzionali ed elettorali hanno generato non solo un crescente dissenso, ma persino rancore e rabbia di cui il Pd ha raccolto i frutti prima nel referendum costituzionale, poi nelle elezioni del 4 marzo.
Non avevamo torto nel ritenere che l’unica possibilità di tenere aperta una prospettiva a sinistra era quella di separarsi dal Pd e mettere in campo una proposta nuova. La sinistra non ha perso perché era divisa come è stato ripetuto con una campagna petulante e vacua. Ben altre erano le ragioni. E nessun elettore ci ha rimproverato la scissione, semmai di esserci mossi tardi rimanendo così corresponsabili di molte delle scelte che erano state compiute. Ma la sconfitta di Liberi e Uguali non è nata solo da queste ragioni. Bisogna dire, con spirito di verità, che la nostra proposta non è apparsa innovativa e non lo era con la forza necessaria né per le idee né per le persone che ha messo in campo. Ad un paese che voleva voltare pagina nessuno ha saputo offrire, a sinistra, una proposta realmente nuova.
Nello stesso tempo gli elettori si sono orientati davvero verso un «voto utile» e cioè verso le forze in grado di offrire non solo una prospettiva di testimonianza, ma di governo. E certamente Liberi e Uguali non era in queste condizioni.
COSÌ QUELLA DOMANDA di cambiamento e di governo si è rivolta altrove. 5Stelle ne ha beneficiato interpretando a modo suo un bisogno forte – drammatico nel Mezzogiorno – di lotta contro la povertà e contro i privilegi. Possiamo considerare discutibile – e certamente lo è – il modo in cui 5Stelle risponde a queste fondamentali esigenze. Ma non ce la possiamo cavare evocando la categoria ambigua del populismo. Da quella parte è andato un pezzo grande del nostro popolo, che non può essere guardato con sufficienza e disprezzo. Anche per questo credo che sia sbagliato mettere sullo stesso piano 5Stelle e la destra della Lega e spingere verso un «patto tra i populisti», giocando così al tanto peggio tanto meglio. Non è la nostra cultura, né la nostra idea del governo del paese, né il nostro senso dello Stato.
MA FORSE È pretendere troppo che il centrosinistra esca così presto dallo choc e riprenda a fare politica. Prima senza dubbio bisogna delineare il cammino della ricostruzione. Per il Pd c’è il dovere di una radicale discontinuità rispetto a questi ultimi anni. Questa è la condizione perché possa svilupparsi una riflessione fruttuosa sulla esperienza più lunga che abbiamo alle spalle.
Liberi e Uguali ha il dovere di non sciogliere i ranghi. Un milione e centomila voti, in gran parte di elettorato militante e non di opinione, non sono una forza irrilevante se si considera che il maggior partito del centrosinistra ha avuto sei milioni di voti.
Per questo Liberi e Uguali deve organizzarsi, non per chiudersi in una autosufficienza minoritaria che non avrebbe alcun senso, ma per proporsi come elemento propulsore della costruzione di un nuovo centrosinistra. Non credo ad una democrazia oltre la dicotomia destra-sinistra. In fondo tutti i tentativi di andare in questa direzione sono sfociati nel totalitarismo. La democrazia comporta una dialettica e un conflitto regolato tra forze portatrici di idee, valori e interessi diversi tra di loro. D’altro canto una dialettica destra-sinistra serpeggia anche all’interno delle forze che – come 5Stelle – teorizzano il superamento di quella dicotomia. Credo inoltre che si debba dire che la destra continua ad esserci ed è ben visibile nello scenario politico italiano come la principale forza che si candida a governare il paese. Ciò che compete a noi è ricostruire il centrosinistra, facendo tesoro delle elezioni di questi anni e cercando di imparare dalla sconfitta del 4 di marzo. È innanzitutto il compito di una nuova generazione che muova dalla convinzione che «la storia non è finita» come ci ha lasciato scritto Alfredo Reichlin.
Si tratta di un lavoro grande che deve essere compiuto e che ha bisogno anche di un forte impegno di analisi e di elaborazione e del contributo di chi, dovendo senza esitazione abbandonare la prima fila, non può tuttavia sottrarsi al dovere di aiutare i più giovani ad evitare gli errori compiuti dalla nostra generazione.
Anticipiamo l’editoriale del prossimo numero della rivista Italianieuropei
La Stampa 10.4.18
Ungheria, il trionfo di Orban spaventa la Ue
Il vicepresidente della Commissione: vigileremo perché tra gli Stati membri non si torni alla dittatura. Imbarazzo nel Ppe
di Emanuele Bonini
Adesso l’Ungheria e il suo leader Viktor Orban tengono davvero in scacco l’Europa. Il leader di Fidesz ottiene il terzo mandato di governo consecutivo con una maggioranza più ampia di quelle goduta nella precedente legislatura, che lo rende politicamente più forte in patria e all’esterno. La Commissione europea a parole sostiene lo Stato di diritto e i principi comunitari, che «devono essere difesi da tutti gli Stati membri, senza eccezioni», ma la realtà dice che in questi anni Budapest ha forzato ripetutamente la mano, in più occasioni, e il risultato è un bagno di consensi che agita Bruxelles così come gli alleati del Ppe, che guardano con preoccupazione alle elezioni europee del prossimo anno.
Il Partito popolare europeo ufficialmente esulta per «la chiara vittoria» di Fidesz, ma lo strapotere di Orban non può che diventare una problema, tanto più che all’interno del Ppe la cancelliera tedesca è invece più debole. Ne è dimostrazione il fuoco incrociato cui è sottoposta. A Berlino, Merkel deve respingere gli assalti dell’alleato della Csu (il centrodestra bavarese) Horst Seehofer, il ministro dell’Interno che vorrebbe una stretta sull’immigrazione stile Orban: «Ue troppo arrogante con i piccoli Stati». Merkel è attaccata dai socialdemocratici dell’Spd, che se la prendono con tutti i popolari per «non aver mai affrontato le derive di estrema destra di Orban». La Germania non sembra di fatto nella posizione di gestire le intemperanze del partner che il presidente del Ppe, Joseph Daul, non ha esitato a definire in passato il «bambino vivace» della famiglia del centrodestra europeo. La Commissione europea nei fatti può poco. Può proporre ai governi di prendere provvedimenti in sede di Consiglio Ue, ma ammesso che ciò avvenga, appare difficile al momento immaginare quali e quanti Stati membri siano disposti ad assumersi una simile responsabilità a un anno dalle elezioni europee che rischiano di produrre un Parlamento euro-scettico. L’Ue ha il «dovere» di assicurare che non si torni mai alla «dittatura» tra i suoi Stati membri, spiega il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. «Abbiamo visto molta retorica. Ora vedremo cosa farà», aggiunge.
Preoccupa poi l’asse che Orban ha costruito con la Polonia, altro Paese, assieme all’Ungheria, nel mirino dell’Ue per le politiche contrarie allo Stato di diritto. I polacchi, non essendo membri del Ppe, a differenza del leader ungherese hanno meno pressioni, e questo torna utile al leader magiaro che può usare gli alleati del blocco di Visegrad come ariete anti-Ue. Non sorprende, quindi, che a Bruxelles a rammaricarsi delle vittoria di Orban siano Verdi, socialdemocratici e liberali. Tutti gli altri si limitano alle dovute congratulazioni. Imbarazzati silenzi che verranno meno giovedì, quando la commissione Libertà civili discuterà la bozza di risoluzione per proporre la sospensione dei diritti di voto a Budapest.
Repubblica 10.4.18
Nadia Urbinati
Dova va il Vecchio continente
E ora l’Europa rischia di smarrire la sua identità
di Simonetta Fiori
“Adesso è l’Est che minaccia la conquista a Ovest”
«È in gioco l’identità dell’Europa: un problema molto serio». Nadia Urbinati insegna scienze politiche alla Columbia University di New York.
C’è il rischio che l’onda nera possa travolgere l’Europa?
«Sì, oggi è l’Est che minaccia di conquistare l’Ovest. Ed è una conquista di segno opposto rispetto all’espansione dell’Unione europea nei Paesi orientali, un processo nel segno della democratizzazione.
Questo significa che i temi dell’immigrazione e della difesa dei confini rischiano di affermarsi nella traduzione politica della destra nazionalista. Perché Orbán e i Paesi a lui vicini non hanno una visione isolazionista ma aspirano a espandersi in nome dei “valori cristiani” e dei “valori bianchi”».
Questo significherebbe uno snaturamento dell’Europa.
«L’Europa nasce come un’alleanza in funzione antitotalitaria, sotto le bandiere della pace e della tolleranza: il disegno di Orbán e delle forze a lui assimilabili va nella direzione contraria».
Ma c’è la possibilità che queste forze diventino maggioritarie dentro l’Unione europea?
«Sì, questo è il loro obiettivo. E per evitare che vincano, l’Europa dovrebbe rivedere la sua politica di austerità che arricchisce i Paesi dell’Est ma penalizza fortemente l’Ovest, costretto a contenere gli interventi a sostegno all’occupazione. Pensiamo all’Italia, la più esposta ai flussi migratori.
L’Europa non può essere così cieca da ignorare le ripercussioni del suo mancato appoggio: anche noi oggi siamo a rischio del contagio populista xenofobo».
Sul futuro dell’Unione pesa anche l’ambiguità del Partito Popolare che vuole tenere insieme la Cdu e Orbán, con i suoi toni xenofobi e antisemiti
Il Fatto 10.4.18
Israele e lo spettro dell’Iran: missili oltre la linea rossa
Coinvolgimento - Raid contro la base di Teheran alleata di Damasco. Netanyahu teme il nemico alle porte (e il disimpegno americano)
Israele e lo spettro dell’Iran: missili oltre la linea rossa
di Fabio Scuto
È stata una notte frenetica in Medio Oriente e un’alba ancor più tempestosa. Nelle prime ore del mattino un gruppo di caccia ha penetrato lo spazio aereo libanese, ha trafitto quello siriano e lanciato 8 missili contro Tyas, la più importante base aerea siriana. Sono state distrutte diverse installazioni nella base comunemente chiamata T-4 e la tv siriana ha annunciato almeno 14 morti, gran parte iraniani o miliziani filo-Teheran.
Lo sconvolgimento regionale continua e Israele, che non ha intenzione di restare ai margini, ha deciso di assumere un ruolo più attivo negli eventi in corso. Mentre la tv siriana ieri mattina accusava gli Stati Uniti del raid sulla base siriana, la Russia direttamente coinvolta al fianco del presidente Assad, ha puntato il dito contro Israele. Sono stati caccia con la Stella di David a colpire – per la terza volta in tre anni – la base di Tyas bucando le difese aeree libanesi a sud della città di Jounieh per poi sorvolare la valle della Bekaa fino all’obiettivo. Secondo versione russa dell’accaduto, 5 degli 8 missili sono stati intercettati dalle batterie antiaeree siriane. Israele oppone il suo abituale no comment sull’accaduto ma la conferma stavolta viene dagli Usa: il Pentagono è stato avvertito dagli israeliani nell’imminenza del raid. Nei sette anni di guerra civile siriana, Israele ha resistito al tentativo di coinvolgimento diretto ma ha stabilito delle “linee rosse” che intende rispettare. Ha annunciato che avrebbe contrastato in ogni modo il passaggio di armi sofisticate dalla Siria agli Hezbollah libanesi. E da allora circa un centinaio di attacchi con caccia e droni sono stati compiuti contro convogli e depositi di armi in Siria. Poi l’anno scorso il premier Benjamin Netanyahu ha tracciato un’altra “linea rossa”: il radicamento degli iraniani in Siria.
Questo ha già portato a uno scontro diretto nei cieli siriani a febbraio, con un caccia israeliano e un drone iraniano abbattuti in quel frangente.
Molti elementi sono contemporaneamente in movimento. L’attacco chimico denunciato dai ribelli su Duma (su cui non ci ancora sono evidenti prove), le vittorie dell’esercito di Assad contro i ribelli, la crescente influenza russo-iraniana in Siria e i chiari segnali del prossimo disengagement americano dal conflitto. Turchia, Russia e Iran la scorsa settimana ad Ankara hanno trovato un’intesa sulle sfere d’influenza in Siria di fronte alle vittorie di Assad.
Nonostante il lessico aggressivo – ieri ha annunciato “novità importanti entro 24-48 ore”, anche per non perdere la faccia come gli hanno fatto notare i democratici – Trump non si sta comportando diversamente dal suo precedessore Obama. Esattamente un anno fa ordinò un attacco missilistico (una cinquantina di missili Tomahawk) su una base militare siriana in risposta all’attacco chimico in Siria sulla cittadina di Khan Sheikhoun. Poi l’interesse del presidente è via via scemato. Se gli Usa dovessero colpire, Mosca – che sia schiera a fianco di Damasco nel denunciare l’attacco chimico a Douma come un provocazione – stavolta sarebbe costretta a far salire i toni, avviando una pericolosa escalation.
Gran parte di ciò che è stato deciso al vertice di Ankara è motivo di preoccupazione in Israele. Specie per la presenza iraniana in Siria che adesso si sposterà sulle colline del Golan, il prossimo fronte della guerra civile siriana. Proprio sul confine con Israele. Sviluppi che potrebbero accelerare gli sforzi israeliani per contrastare la presenza iraniana, come minaccia il premier Netanyahu dall’anno scorso e portare a uno scontro diretto dagli esiti imprevedibili. La “linea rossa” di Israele, specie lì lungo la frontiera a nord, si sta facendo sempre più sottile.
Il Fatto 10.4.18
Facebook va al Congresso per provare a salvarsi
Alla vigilia dell’audizione del fondatore di fronte ai senatori Usa, il titolo risale in Borsa. Intanto la piattaforma sospende l’app italiana CubeYou
Facebook va al Congresso per provare a salvarsi
di Vds
L’ammissione di colpa, la seconda nel giro di un paio di settimane, è iniziata a circolare ieri pomeriggio: uno stralcio del discorso che Mark Zuckerberg, il fondatore e ad di Facebook, terrà oggi di fronte alle Commissioni Giustizia e Commercio del Senato Usa e poi domani alla Camera, prima delle domande. Già il solo annuncio dell’audizione ieri ha fatto guadagnare il titolo in Borsa (+1,7%) e oggi la speranza è che vada ancora meglio: Mark Zuckerberg ammetterà di non aver avuto “una visione ampia” della responsabilità di Facebook sugli utenti e le loro informazioni personali, quelle che sono finite al centro dello scandalo legato a Cambridge Analytica e ai dati di milioni di americani usati per le campagne elettorali americane. “Non è sufficiente connettere le persone – si legge nelle parti del testo diffuse ieri – : dobbiamo essere certi che i collegamenti siano positivi. Non è sufficiente dare alle persone il controllo delle loro informazioni, dobbiamo essere certi che i nostri sviluppatori le stiano anche proteggendo: non abbiamo solo la responsabilità di creare strumenti, ma dobbiamo essere anche certi che vengano usati nel modo corretto”.
Ammetterà di voler collaborare con il governo sulle indagini relative alle interferenze russe del 2016, sosterrà di essere intenzionato a portare avanti un processo di cambiamento già iniziato e che richiederà tempo. Ribadirà di voler mettere la sicurezza degli utenti prima di tutto e tutti, soprattutto prima degli inserzionisti e delle pubblicità. Con quale modello di business, però, non è ancora chiaro. Nelle stesse ore, Facebook fa anche sapere di aver sospeso dalla piattaforma una società sospettata di aver raccolto e condiviso dati degli utenti per profilarli e condividerli con altri. A segnalarlo l’emittente Cnbc: la piattaforma si chiama CubeYou e si sarebbe servita di quiz, anche attraverso una applicazione “per ricerche accademiche non-profit”. Quiz comuni e molto diffusi sul social, come “You Are What You Like (Sei quello che ti piace). Secondo Cnbc, la società avrebbe venduto dati raccolti da ricercatori che lavoravano al centro di psicometria (Psychometrics Center) della Cambridge University. La reazione dell’Università di Cambridge è stata quasi un moto di spocchia: ha detto che non ha collaborato con Cubeyou. “La nostra relazione non era commerciale e non sono stati scambiati commissioni o progetti legati a clienti – ha riferito –. Sfortunatamente i collaboratori dell’università qualche volta esagerano i loro legami per guadagnare prestigio per i loro lavori accademici”.
L’Ad di CubeYou è un italiano, Federico Treu. Lui stesso racconta, nel 2015 sul sito eastwest.eu, la genesi della società e la sua trasformazione. Nata per offrire tour virtuali dei locali di Milano associati a Google Street View, per evitare il fallimento si è trasformata in un’azienda per la profilazione online. “Dopo due anni di sviluppo io e mio fratello ci siamo ritrovati con due prodotti validi in mano – racconta Treu – Uno strumento per la gestione dei social media e una piattaforma di profilazione per raccogliere informazioni sui clienti direttamente dai social media”. I due fratelli si separano. “Io ho preso in mano il progetto di profilazione sotto l’etichetta Cubeyou e Gianluca ha fondato Social Bullguard per la vendita del suo servizio di gestione dei social media”. Quest’ultima si assicura clienti come BMW, Poste Italiane e Vodafone, mentre Cubeyou si dedica a ricerca e sviluppo. “Abbiamo siglato un accordo con l’Università di Cambridge che ha portato il trattamento dei dati social a un nuovo livello e abbiamo sfruttato sistemi di Intelligenza Artificiale per trasformare le interazioni online in predittori di comportamenti di acquisto – concludeva Treu – Il nostro obiettivo è scardinare la vecchia industria di ricerche di mercato e i suoi antiquati metodi di sondaggio introducendo una nuova tecnologia di ricerca basata su intelligenza artificiale e big data dai social media”.
Oggi Treu sostiene che l’azienda ha lavorato con la Cambridge University solo dal dicembre 2013 al maggio 2015 e che non avrebbe più accesso ai dati di chi ha fatto il quiz dal giugno 2015. Ha anche precisato che sul sito di YouAreWhatYouLike.com veniva specificato che i dati raccolti potevano essere usati anche per fini commerciali e dati a terze parti. Secondo Cnbc, i termini di servizio visibili agli utenti di Facebook che installavano la app Apply Magic Sauce parlavano però di “accesso solo per scopi di ricerca”. In attesa di verifica, Facebook ha preferito sospenderla. Non è il momento di rischiare.
Il Fatto 10.4.18
Nel tribunale dei big tech è “tutti contro Zuckerberg”
Chi gode - Dal capo della Apple al re dell’eCommerce cinese, le prediche al fondatore di Facebook, tra marketing e riflessioni sul bisogno di nuovi modelli economici
di Virginia Della Sala
È fondamentale che Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, prenda sul serio l’ondata di criticismo che si sta diffondendo in tutto il mondo contro il social network. Dalle istituzioni agli utenti, è qualcosa che non può essere ignorato. Dicono questo le parole di Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina e il fondatore del multimiliardario sito di eCommerce Alibaba, estorte dalle domande dei giornalisti durante ilBoao Forum for Asia. Vorrebbe evitare di parlarne, ma alla fine cede. “È il momento di sistemare i problemi – dice -. È il momento di prenderli sul serio. E penso che saranno risolti”. Chi parla ha ben chiaro il problema: l’ondata di repulsione e l’attacco alla reputazione potrebbe colpire anche il business di Alibaba da un momento all’altro. La velocità con cui si cresce nell’online può essere la stessa con cui si muore. Online, la reputazione è tutto. “Non dovremmo uccidere la compagnia a causa di questi problemi – ha detto Ma –, Facebook 15 anni fa non si aspettava di crescere così tanto. Sono venuti fuori tutti i problemi che non poteva prevedere”.
La posizione più interessante da osservare dopo lo scandalo Cambridge Analytica (con il quale si è scoperto che i dati di milioni di utenti raccolti su Facebook erano non solo trasmessi ad aziende terze rispetto a chi era autorizzato a prenderle ma anche usati per cercare di influenzare le elezioni) è quella dei ‘grandi della Terra’, i grandi del web, nell’accezione odierna. Grandi economicamente: imperi costruiti sull’idea dell’innovazione e del digitale a tutti i costi. Multinazionali che si sono ingrossate con Internet e le tecnologie e che si esprimono contro o a favore di Zuckerberg a seconda delle analogie tra il loro business e quelle del fondatore del social di Menlo Park.
Prima di Jack Ma, il Ceo di Apple, Tim Cook, in un’intervista a Msnbc e Recode ha ad esempio virtualmente ‘schiaffeggiato’ Zuckerberg: “Cosa farei se fossi al posto di Mark Zuckerberg? – ha detto – Non sarei finito in questa situazione”. Un’operazione d’immagine non da poco. A ridosso dello scandalo Cook ne ha approfittato per rinforzare l’immagine della propria azienda e dei suoi prodotti notoriamente inviolabili. “Potremmo fare un sacco di soldi se monetizzassimo i nostri clienti, se i nostri clienti fossero il nostro prodotto. Abbiamo scelto di non farlo. La privacy per noi è un diritto umano, una libertà civile”. Posizione sostenuta, ieri, anche dal co-fondatore di Apple, Steve Wozniak: “Ogni giorno – ha detto in una mail inviata a Usa Today – gli utenti forniscono a Facebook dettagli della loro vita e con questo Facebook fa un sacco di soldi dalla pubblicità. I profitti si basano tutti sulle informazioni degli utenti ma agli utenti non va niente”. Ha poi aggiunto che preferirebbe pagare per Facebook piuttosto che lasciare che la pubblicità sfrutti le sue informazioni personali. Gratuità contro pagamento: quando la polemica scandita dalla cronaca si sarà placata resterà l’unico dibattito aperto, su cui già da tempo ci si interroga. Tanto che lo stesso Zuckerberg, nel rispondere a Cook ha sottolineato la differenza tra i loro modelli di business. “Se vuoi creare un servizio che non sia solo per i ricchi devi avere qualcosa che le persone possono permettersi. Penso che sia importante non avere tutti la sindrome di Stoccolma e lasciare che le aziende che lavorano duramente per farti pagare di più ti convincano che in realtà si preoccupino di te mi sembra ridicolo”.
Non parla Google, impegnato a rimbalzare le accuse mosse a Youtube e alla sua gestione dei dati: ieri 20 studi legali hanno fatto sapere di aver sporto un reclamo alla Federal trade commission, l’antitrust Usa, per la raccolta di informazioni commerciali sui bambini e i loro gusti tramite Youtube. Non parla Amazon, con il capo Jeff Bezos impegnato a respingere la sempre maggiore pressione proveniente dal presidente Usa, Donald Trump. Non parla Uber, che di dati trafugati e diffusi ha un’esperienza approfondita dopo i leak dei mesi scorsi (dati rubati a circa 57 milioni di utenti in tutto il mondo). Parla, invece, Elon Musk: il fondatore di Tesla nelle settimane scorse ha cancellato le pagine Facebook delle sue aziende, Space X e Tesla, e ha per primo sposato la causa del boicottaggio al social network. Una piccola vittoria per uno tra i pochi che da anni prova a mettere un freno all’eccessivo tecno-entusiasmo e a mettere in guardia sulle conseguenze legate all’intelligenza artificiale (che si nutre appunto di dati e informazioni). A luglio si era scontrato con lo stesso Zuckerberg che aveva bollato le parole di Musk come “superficiali e irresponsabili”. Musk, con la sua solita irriverenza aveva risposto via Twitter: “Ne ho parlato con Mark. La sua comprensione dell’argomento è limitata”. Oggi, forse, sta avendo la sua piccola vendetta.
Corriere 10.4.18
Profili spiati
Adesso l’Italia chiede sanzioni per Facebook
di Martina Pennisie Fiorenza Sarzanini
Facebook ha trasferito dati alla società Cambridge Analytica senza il consenso degli interessati, cambiando la finalità d’uso. E quella finalità era di propaganda elettorale. Per questo l’Italia, con il Garante della privacy, chiederà i danni alla società di Mark Zuckerberg. Ben più di 200 mila gli utenti spiati.
ROMA La contestazione del garante della Privacy è chiara: Facebook ha permesso un trasferimento di dati alla società Cambridge Analytica senza il consenso degli interessati, cambiando la finalità d’uso. E quella finalità era di propaganda elettorale.
Per questo l’Italia chiederà l’applicazione delle sanzioni previste dal Nuovo regolamento europeo — che saranno operative dal 25 maggio prossimo — pari al 4 per cento del fatturato globale della società. Ma soprattutto amplierà l’indagine alle altre aziende specializzate in marketing politico che avevano siglato accordi con il colosso californiano di Mark Zuckerberg.
Il sospetto è che i profili italiani coinvolti nello scambio illecito di informazioni siano ben più dei 214.134 comunicati inizialmente. E finiti nella Rete della società britannica perché amici dei 216 connazionali — il dato, secondo il Garante, è maggiore di quello dichiarato dal social network mercoledì scorso (57) — che avevano scaricato la applicazione «This is your digital life» dell’accademico Aleksandr Kogan.
Si teme, inoltre, che le «vittime» siano state influenzate su alcuni temi come il razzismo e l’immigrazione. Secondo le verifiche svolte dagli analisti dell’ intelligence , ci sono infatti stati scambi fra gli italiani profilati da Cambridge Analytica — che in queste ore stanno ricevendo un avviso sulla loro pagina Facebook della possibile violazione — e alcuni finti account che avevano come caratteristica quella di avere la parola «Salvini» nell’intestazione.
La riunione Ue
L’incontro di questa mattina a Bruxelles tra i Garanti europei per la Privacy servirà a fornire i risultati dei controlli svolti da ognuno a livello nazionale, ma soprattutto a decidere le prossime mosse. Antonello Soro porterà il quadro della situazione italiana, ribadendo la necessità di ampliare i compiti della task force che era stata creata per verificare l’utilizzo delle informazioni degli utilizzatori di WhatsApp da parte di Facebook. In questo contesto, si parla di due piattaforme che fanno capo alla stessa società. Quella con sede a Menlo Park amministrata da Zuckerberg, appunto.
Ma in molti casi si è accertato che la procedura dello scambio di dati fra l’applicazione verde di messaggistica e il social network era stata attivata senza il consenso esplicito degli interessati e anche coinvolgendo persone che non si erano mai iscritte a Facebook ma avevano solo registrato il loro numero di telefono su WhatsApp. Il tasto dolente, quindi, è sempre lo stesso, come è accaduto per le aziende che si occupano di politica e come avviene per il resto del mercato della pubblicità su Internet: la consapevolezza delle condizioni d’uso di questi strumenti e della destinazione finale e intermedia di quanto ci riversiamo sopra quotidianamente. La possibilità di erogare sanzioni in base al nuovo Regolamento europeo sarà operativa solo dalla fine di maggio, ma il problema dei criteri da applicare è già sul tavolo. La linea prevalente è quella di procedere tutti insieme, in modo che sia l’Unione europea a far valere le proprie ragioni. Resta da stabilire se le multe debbano essere contestate dalla Gran Bretagna — dove ha sede Cambridge Analytica — o dall’Irlanda. Finora i casi riguardanti la privacy dei cittadini dell’Unione europea sono stati infatti trattati esclusivamente dal garante irlandese, perché la sede di Facebook in Europa si trova a Dublino.
I finti profili
È stato Christopher Wylie, l’analista di Cambridge Analytica che ha rivelato l’uso illecito di dati compiuto dall’azienda di cui Steve Bannon è stato vice presidente, a parlare dell’Italia come «unico Paese che ha lavorato con noi». E qualche giorno dopo è stata accreditata la possibilità che un partito fosse stato favorito proprio grazie alla propaganda effettuata attraverso Facebook. Questo ha fatto attivare le verifiche dell’intelligence e della Polizia postale, delegata dai magistrati romani. Secondo i primi controlli, nelle settimane precedenti le ultime elezioni, sarebbero stati utilizzati almeno cinque finti profili per scatenare il dibattito o comunque inviare messaggi sui temi «caldi« della campagna elettorale, soprattutto l’immigrazione, coinvolgendo le persone profilate dai britannici.
In tutti compare la parola «Salvini». Al momento è stato escluso che siano riconducibili alla Lega. Gli analisti ritengono che potrebbero essere stati creati addirittura per danneggiare il partito, ma su questo si stanno effettuando ulteriori controlli proprio per stabilire che tipo di influenza possano aver avuto sugli utenti e se davvero — così come è stato chiesto dai pubblici ministeri — una simile attività sia in grado di influenzare il voto come si sta cercando di valutare se sia accaduto in altri Paesi e soprattutto negli Stati Uniti.
Il Fatto 10.4.18
Ipocondria, la malattia di sentirsi malato
Sempre in cura - L’ossessione dei sintomi e dei controlli: il virus è sempre avanti alla medicina
Ipocondria, la malattia di sentirsi malato
di Daniela Ranieri
“Se un medico è bravo”, diceva Vittorio Gassman, “prima o poi qualcosa te lo trova”. Dietro l’irresistibile battuta si cela la consapevolezza micidiale dell’ipocondriaco: non importa quanti progressi compia la medicina; la malattia, come la tartaruga con Achille, sarà sempre un passo avanti, amando nascondersi nei sintomi apparentemente più trascurabili della faticosa vita biologica. L’ipocondriaco – che si chiama così perché un tempo si riteneva che soffrisse agli “ipocondri”, organi che si credeva siti sotto l’addome tra fegato e milza, dove si accumula la “bile nera” responsabile della “melanconia” – è, al contrario della persona normale, qualcuno che conosce questa verità.
Quasi tutti i grandi geni melanconici del passato erano ipocondriaci: Schubert, Chopin, Liszt, Rossini, Molière (che sulle sue manie ha costruito Il malato immaginario); ipocondriaco con tendenza all’avvelenamento era Mozart; patofobico era Charlie Chaplin; germofobo era il poeta Majakovskij: sigillava le finestre, toccava le maniglie solo con un fazzoletto, temeva un raffreddore più della morte (a cui invece ricorse come estrema soluzione). Il pittore Pontormo per undici anni visse chiuso nel cantiere del coro di San Lorenzo, solo e febbrile: faceva bollire nello stesso barile in cui mischiava i colori anche 50 uova, che mangiava in un giorno, redigendo un Diario allucinatorio in cui registrava maniacalmente tutte le variazioni delle sue funzioni corporali. Freud, che curava i pazienti dalle “nevrosi d’ansia”, soffriva di cardiofobia, cioè aveva costantemente paura di morire di infarto.
Oggi l’ipocondriaco è quanto mai solo; la medicalizzazione pop della vita quotidiana, lungi dal rassicurarlo, lo sfida incessantemente. Gli spot che pubblicizzano farmaci da banco anche per il più lieve malessere non fanno che confermargli che c’è una parte del mondo che si cura, sostenuta dalla medicina ufficiale; e una parte, in cui lui si trova, per la quale non esiste rimedio perché non esiste diagnosi. La furia diagnostica che lo spinge a sottoporsi a esami su esami (in ciò aiutato da medici che preferiscono prescrivere analisi costose e invasive piuttosto che impegnarsi in una conoscenza complessiva del paziente, fondamentalmente per mettersi al riparo da eventuali cause giudiziarie) non lo rasserena; anzi, l’esito negativo lo terrorizza e lo convince vieppiù di avere qualcosa di raro e di grave.
Secondo gli psicoterapeuti Alessandro Bartoletti e Giorgio Nardone, che hanno appena pubblicato La paura delle malattie. Psicoterapia Breve Strategica dell’Ipocondria (Ponte alle Grazie), l’ossessione dell’ipocondriaco consiste nella tendenza a dare una “interpretazione catastrofica” alle proprie sensazioni corporee. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, l’ipocondriaco non inventa niente. Ha davvero i malesseri che accusa. Si tratta di dolori, disturbi, sintomi che possono essere innocui, e nella maggior parte dei casi lo sono, oppure no. È la coscienza dell’“oppure no” a caratterizzare il patofobico e a condurlo a comportamenti compulsivi o fobici (paura dell’attività fisica o dei luoghi affollati).
Gli autori chiamano questa tendenza “ricerca algica”, una specie di rincorsa del dolore; l’ipocondriaco “tende costantemente l’orecchio” alle sue sensazioni, sollecita il sintomo, lo “socializza” con amici e parenti, in una ipervigilanza sfiancante che lo debilita e nella maggior parte dei casi finisce per renderlo davvero malato (lo stress riduce le difese immunitarie). Dal personale al collettivo: dalle epidemie ipocondriache come quelle per la Sars o per la cosiddetta Sindrome della mucca pazza alla patologia della cybercondria, o ipocondria digitale, caratterizzata dalla compulsione a cercare su Internet la diagnosi al proprio male.
Bartoletti e Nardone descrivono gli stratagemmi e le tecniche che adottano coi loro pazienti per dissuaderli dall’essere ipocondriaci (come in una specie di contrappasso dantesco, si tratta di esacerbare il controllo su sé stessi fino a rendere poco remunerativa e molto sfiancante la pratica). Auguriamo a tutti gli ipocondriaci di guarire, ma offriamo loro la nostra letteraria solidarietà: come sapeva bene il grande ipocondriaco-ironico Carlo Emilio Gadda, l’ipocondriaco non solo non è matto, ma può essere al contrario un grande logico, della specie di Amleto. All’estremo limite della ragione, sa che l’ipocondria può coesistere con la malattia vera, e che riconoscere di essere ipocondriaci non immunizza certo dall’ammalarsi.
Corriere 10.4.18
Lula
A sinistra e i diritti degli amici
di Paolo Mieli
Adesso che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011, si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere (per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che all’ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo d’imputazione di Sergio Moro, titolare dell’inchiesta «Lava Jato» («autolavaggio»), una «Mani pulite» in versione brasiliana. Esistono, però, un contratto d’acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula, Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento; testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per tutto, come se fossero i «padroni di casa». Ed esistono altresì molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera Petrobras.
Secondo punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi competitori. Talché può essere presa in considerazione l’ipotesi di un complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma Rousseff, la donna che ne ha raccolto l’eredità, ha guidato il Brasile dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata anche lei travolta dal Parlamento con l’accusa di aver truccato i dati del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita. Ma veniamo alle modalità con le quali Lula si è consegnato alla giustizia. Dapprima l’ex presidente si è rifugiato per alcuni giorni nella sede del «suo» sindacato a Sao Bernardo do Campo in attesa che quelli che lo sostengono si radunassero attorno all’edificio. Poi ha avviato una trattativa con le autorità, politica e giudiziaria, per ottenere un volo privato che lo portasse al luogo predisposto per la detenzione e una sistemazione carceraria più confortevole di quella prevista per gli altri detenuti. Faceva questo, sosteneva, per tranquillizzare i suoi seguaci e «prevenire i disordini» che avrebbero potuto verificarsi in caso di suo arresto «manu militari». Ottenute le due cose, Lula ha lasciato scadere, senza onorare l’impegno a consegnarsi, i termini ordinari per l’esecuzione della sentenza e ha ottenuto un giorno di permesso in più per la celebrazione, in sua presenza, di una funzione religiosa in ricordo della moglie, la Marisa Leticia di cui si è detto, scomparsa un anno fa. Tempo che gli è stato concesso sicché ha potuto aver luogo quella che Rocco Cotroneo su queste pagine ha descritto come «una cerimonia che assomigliava vagamente a una messa con preghiere e canzoni amate dall’ex primeira dama celebrata da don Angelico Sandalo Bernardino «già vescovo, compagno di strada del partito di Lula». E mentre il prete «parlava a vuoto» (proseguiva Cotroneo), l’ex presidente abbracciava le persone che salivano sul palco, salutava a pugno chiuso, leggeva ad alta voce i bigliettini che gli venivano consegnati. Finché prendeva lui stesso la parola e per un’ora abbondante arringava la folla contro gli orditori della congiura ai suoi danni: «Hanno voluto togliere di mezzo l’unico Presidente senza titolo scolastico, colui ha fatto di più per i poveri di questo Paese», ha gridato. Finita la «messa», ha annunciato che avrebbe voluto assistere alla partita di calcio tra le squadre del Palmeiras e del Corinthians e qui sono stati i suoi stessi avvocati a fargli presente che sarebbe stato più saggio consegnarsi all’autorità. Cosa che lui ha fatto tra ali di folla che, senza essere scoraggiate, lo imploravano di «resistere», di «non consegnarsi». Nel frattempo il Movimento Sem Terra paralizzava, bruciando copertoni, trentasette autostrade in tutto il Paese e il suo leader, Joao Pedro Stedile annunciava che il loro beniamino «verrà liberato da grandi manifestazioni di massa». Lula è un personaggio fuori dal comune, amatissimo dal «suo popolo» e chi conosce anche superficialmente l’America Latina non può stupirsi del modo con cui i suoi seguaci hanno ritenuto di testimoniargli affetto. Stupisce, semmai, che qui in Europa ciò che è accaduto sia stato trattato alla stregua di un episodio folkloristico, privo di qualsiasi implicazione politica. In Italia poi, la sinistra — nelle ore in cui era dilaniata sul tema se accettare o meno le profferte di Luigi Di Maio — per qualche ora ha sospeso le ostilità fratricide e si è «riunificata» per firmare un impegnativo manifesto pro Lula. In esso si poteva leggere che, non essendo «emerse a suo carico prove tali da dimostrare che egli si sia appropriato di risorse pubbliche o abbia ricattato imprese per ottenere benefici personali», era da biasimare il fatto che venisse incarcerato (pur se si riconosceva essere ciò avvenuto in osservanza di specifiche norme). A leggere tra le righe, un’esibizione di certezza — da parte dei firmatari — circa l’inconsistenza delle prove a carico di Lula e una implicita pesantissima accusa nei confronti dei magistrati brasiliani. Il documento esprimeva poi «grande preoccupazione e un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente». Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro «azioni giudiziarie» venivano accusati di aver «avvelenato» la vita politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia negli ultimi trent’anni è stato detto e scritto da avversari della sinistra a proposito di «competizioni elettorali» distorte per effetto di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura — a meno che non siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime — vanno sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul merito delle decisioni e sull’operato dei giudici. Cosa peraltro non infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei «nostri» valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una personalità della propria «famiglia», fosse stato redatto per difendere i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito familistico di appartenenza. Sarà per un’altra volta.
Repubblica 10.4.18
L’altra Germania
Con tre colpi a Rudi “il rosso” si spense il ’68
di Angelo Bolaffi
Con l’attentato a Dutschke, cinquant’anni fa, la spinta rinnovatrice appena nata fu travolta dal settarismo e dal terrorismo della Raf Ma si aprì anche la stagione di Willy Brandt e del “dorato decennio”
Sul Kurfürstendamm la principale via di Berlino-Ovest la mattina dell’11 aprile del 1968 Joseph Bachmann, un imbianchino avvelenato dalla campagna d’odio della stampa reazionaria del gruppo editoriale di Axel Springer, sparò riducendolo in fin di vita tre colpi di pistola contro Rudi Dutschke l’indiscusso leader del movimento studentesco tedesco: nell’ex capitale del Reich e nelle altre principali città della Repubblica federale seguirono giornate di scontri violentissimi. Le immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo ricordarono quelle di una settimana prima negli Usa dopo l’omicidio di Martin Luther King. Dutschke riuscì a sopravvivere nonostante le gravissime lesioni cerebrali ma dovette persino imparare di nuovo a parlare e a leggere. (Morì alla vigilia di Natale del 1979 annegato mentre faceva il bagno nella sua casa in Danimarca per un attacco di epilessia conseguenza delle ferite riportate nell’attentato). L’uscita di scena di Rudi “il rosso” segnò la fine del’68 tedesco: una fine suggellata da una drammatica serie di lutti.
Prima la scomparsa nell’agosto del 1969 di Theodor W. Adorno, provato dalla contestazione di quegli studenti dei quali era stato padre spirituale. A guidarli contro il vecchio maestro Hans Jürgen Krahl il “Robespierre di Bockenheim”, il quartiere universitario di Francoforte, che di Adorno era stato l’allievo più geniale e amato. Krahl, del quale Dutschke aveva detto «è il più intelligente di tutti noi», restò vittima di un incidente stradale a febbraio del 1970 (Claus-Jürgen Göpfert-Bernd Messinger, Das Jahr der Revolte. Frankfurt 1968,
Schöffling & Co). Quello che era stato un movimento di massa nel segno dell’antiautoritarismo e del pensiero critico sprofondò nel buio del settarismo dogmatico. O peggio ancora nel delirio sanguinoso del terrorismo della Rote Armee Fraktion. E molti, anche se non tutti per fortuna, di quelli che anni prima erano scesi in piazza intonando The Times They Are Changing di Bob Dylan si scoprirono seguaci del maoismo disposti a sacrificare gli insegnamenti della kritische Theorie sull’altare dell’ortodossia marxista-leninista. E tuttavia oggi, a mezzo secolo di distanza, è impossibile negare l’importanza del ‘68 tedesco nel processo di riforma politico e morale, di quella metanoia tedesca di cui ha parlato Peter Sloterdijk, che ha fatto della odierna Germania il paese di riferimento dell’europeismo e dei valori liberal-democratici della tradizione occidentale. Ma un simile giudizio storico è possibile a patto di rivedere la tradizionale lettura di quegli anni giudicando dunque il ’68 non già, come suggerisce una ideologica e ormai datata interpretazione, l’anno della grande rottura chiamata “opposizione extraparlamentare”, ma piuttosto un momento di un processo materiale e culturale più complesso e articolato — quello dei “ lunghi anni ’60” (così Anselm Doering-Manteuffel) — che aveva trasformato la società tedesca. Di questa metamorfosi il ’68 fu al tempo stesso fattore di accelerazione e di conclusione: «Il vero ’68 fu il ’67 che rappresentò il culmine di un processo iniziato nel 1964. Col 1968 ebbe inizio un anno in cui le idee della generazione del ’67 andarono in pezzi, si radicalizzarono o si rovesciarono. L’antiautoritarismo divenne autoritarismo» (Klaus Hartung). Dai primi anni ’60, in particolare col processo di Francoforte del 1964 contro i responsabili di Auschwitz, venne fatta luce su quel “labirinto del silenzio” costruito nel primissimo dopoguerra tedesco da una società che aveva cercato di ottenere una collettiva amnistia grazie alla amnesia collettiva della colpa chiamata Shoah e aveva sperato di cavarsela sostituendo l’antico antisemitismo col nuovo anticomunismo. L’arrivo sulla scena di una generazione nata negli ultimi anni della guerra o in quelli immediatamente successivi segnò una cesura decisiva: «Nel 1967 accadde in Germania qualcosa che può essere paragonato all’Autunno caldo in Italia o al Maggio del ’68 in Francia. Venne posto all’ordine del giorno il compito di portare a termine la liberazione del passato nazista» (Detlev Claussen). E così quella Germania che nel 1950 era apparsa ad Hannah Arendt incapace di “rielaborare il lutto” per il «rifiuto profondamente radicato, ostinato e in qualche caso brutale di confrontarsi e fare i conti con ciò che è realmente accaduto» ( Ritorno in Germania, Donzelli) voltò pagina. La contestazione studentesca scardinò le tradizionali coordinate del modo di pensare e di stare al mondo divenendo nuovo senso comune di massa: il pensiero critico in cui la lezione di Freud contava quanto quella della tradizione del marxismo critico penetrò dentro le relazioni personali.
A differenza di quanto accade col ’68 in Italia o in Francia la metamorfosi della società tedesca (occidentale) provocò una profonda riforma del lessico dei rapporti interpersonali. Davvero il privato divenne politico cambiando la dinamica delle relazioni quotidiane e affettive.
Grazie al movimento degli studenti termini quali Kindergarten e Antiautoritarismus conquistarono notorietà internazionale pari a quella che in passato avevano avuto termini quali Panzer e Blitzkrieg.
Insomma secondo la celebre formulazione di Jürgen Habermas «i mandarini furono mandati in pensione». La rivolta studentesca fu dunque al tempo stesso esito finale e fattore di socializzazione di quello che potremmo definire la “degermanizzazione” dello spirito tedesco. E al di là e addirittura anche contro le intenzioni soggettive dei protagonisti fattore di arricchimento della vita politica e di rafforzamento delle istituzioni democratiche che gli Alleati avevano imposto alla Germania dell’Anno zero.
Poi si aprì un nuovo ciclo politico: nel ’69 col primo governo guidato da Willy Brandt e soprattutto con la sua trionfale riconferma nella elezione del 1972, la Spd sfiorò la maggioranza assoluta, ebbe inizio il “dorato decennio” socialdemocratico che realizzò una radicale democratizzazione della società e delle relazioni economiche e sindacali che i politologi indicarono come Modell Deutschland. Del resto non era stato proprio Rudi Dutschke a parlare di “lunga marcia attraverso le istituzioni”?
Repubblica 10.4.18
Julia Kristeva
“Io, agente del Kgb bulgaro? Accuse false e tossiche”
La filosofa Julia Kristeva replica a un articolo del “Nouvel Observateur”
Il Nouvel Observateur ha fatto la scelta di pubblicare un lungo articolo intitolato Julia Kristeva ex agente del Kgb bulgaro, che si dedica ad attribuirmi il ruolo romanzesco di informatrice dei servizi segreti bulgari tra il 1970 e il 1973. A sostegno di un’accusa del genere porta la divulgazione di un rapporto proveniente da «archivi» della polizia bulgara, che menzionerebbe la mia partecipazione ad attività di intelligence sotto lo pseudonimo fantasioso di «Sabina».
Ho già smentito pubblicamente il contenuto di quei rapporti e quelle informazioni immaginarie. L’articolo che si pubblica mi costringe e farlo di nuovo: affermo di non aver mai, in qualsiasi modo, preso parte a simili attività, la cui rivelazione, repentina e tardiva, arreca pregiudizio alla comprensione e alla diffusione delle mie ricerche nel campo della psicanalisi, della linguistica, della filosofia e della contestazione politica del totalitarismo, in particolare nella mia analisi dell’opera di Hannah Arendt. Simili asserzioni screditano i miei lavori, e sul piano personale, torno a dirlo, risvegliano vecchie ferite.
Ho abbandonato la Bulgaria grazie a una borsa del governo francese, in condizioni difficili, lasciando laggiù la mia famiglia e con la consapevolezza che le posizioni che avrei assunto dall’altro lato della Cortina di Ferro avrebbero esposto i miei cari, e in particolare mio padre, ai pericoli di un regime totalitario.
È storia vecchia, ma oggi constato con grande pena che le pratiche equivoche delle polizie segrete al servizio di questi regimi rimangono terribilmente vive e tossiche. Il discredito che il giudizio della storia ha inflitto a questi regimi passati non ha colpito, a quanto pare, la giornalista che firma l’articolo. La schedatura di persone a loro insaputa, il fatto di attribuire a esse delle parole, dei ruoli e delle funzioni senza raccogliere il loro consenso e di costruire dossier sulle loro presunte attività sono metodi ormai noti, ma non abbastanza noti. Ricercatori e giornalisti, negli stessi Paesi ex comunisti, protestano oggi vigorosamente contro queste falsificazioni e il loro utilizzo da parte di commissioni tendenziose. Mi sarebbe piaciuto trovare nell’articolo consacrato a questi «archivi» una traccia di quel discernimento critico, invece di credulità e fascinazione verso questi detriti del passato. Basta leggere, per esempio, le frasi inverosimili che il dossier mi attribuisce, in forma di discorso indiretto, su Aragon e il surrealismo, sulla Primavera di Praga o sulle «azioni di aiuto filopalestinesi» frustrate dalla «propaganda francese in mano a organizzazioni sioniste», se si pensa ai miei scritti e alle mie posizioni pubbliche ben note su questi argomenti, all’epoca come adesso; e, last but not least, basta leggere la ripresa integrale (20 pagine tradotte in bulgaro!) della mia intervista con Jean-Paul Enthoven sui «dissidenti» nel numero 658 del Nouvel Observateur, 20-26 giugno 1974, che fa di me una persona sotto sorveglianza più che un’«agente», per constatare che questa manipolazione è intessuta di pettegolezzi riferiti e pseudofonti mediatiche sovrainterpretate, senza alcun valore probatorio in questa farsa penosa.
Non solo: il credito che l’articolo a me dedicato accorda a informazioni archiviate in un edificio staliniano, partecipa — e la cosa mi spaventa — alla perpetuazione spudorata di quei metodi totalitari. Mi sarebbe molto piaciuto che la scoperta di quegli archivi fosse un’occasione, per un settimanale come questo, di indignarsi per azioni tanto indegne! E invece, nella pubblicazione così ingenua e compiacente, leggo una forma avventata di giustificazione di quelle pratiche.
Quegli «archivi» sono dei fossili ideologici sconfessati e combattuti dalle democrazie: perché accordarvi oggi una fede tanto cieca? Come si fa a non assumere il distacco che impongono ancora una volta metodi del genere, e a ricavarne insegnamenti per il presente e per il futuro? Come sempre, bisogna porsi la domanda: cui prodest?
Traduzione di Fabio Galimberti
Corriere 10.4.18
948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione — non più di un triennio —, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7? Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)? Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma — forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento — si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
Repubblica 10.4.18
Occhio alla penna
La bellezza (e l’utilità) dello scrivere a mano
di Giuliano Aluffi
La scrittura manuale va salvata, per quanto superata possa apparire nell’era multimediale di WhatsApp, Instagram e YouTube, non solo per motivi storici o estetici, ma soprattutto perché aiuta a pensare e a ricordare, e quindi può renderci persone più attive e più capaci rispetto ai tastiera-dipendenti. A sottolinearlo è il simposio “Ri-Trascrizioni, la scrittura manuale tra storia, arte e neuroscienze”, in programma oggi all’Università di Pavia: nuova tappa di un progetto di esaltazione del valore cognitivo della scrittura già attivo in più città. «Ri-Trascrizioni - idea di Antonello Fresu, psichiatra e artista visivo – consiste nell’esporre in pubblico capolavori letterari perché tutti possano trascriverne a mano una parte» spiega Gabriella Bottini, docente di neuropsicologia all’Università di Pavia. «In questo momento in Sardegna, al museo della tonnara di Stintino, si sta ultimando la copia di Lo sa il tonno di Bacchelli. Alla casa della psicologia di Milano è in corso la copia di Uno, nessuno e centomila di Pirandello.
All’Università di Pavia lanciamo oggi la copia degli Esercizi di stile di Queneau». Difendere la scrittura manuale in tempi sempre più digitali non è una sterile concessione alla nostalgia, ma un vero e proprio favore che facciamo a noi stessi: «Scrivere a mano può essere vantaggioso per l’attenzione, la cognizione e la memoria» spiega Gabriella Bottini. «E lascia una traccia che ci aiuta a migliorarci: mentre l’editing al computer e il correttore automatico, fanno svanire nel nulla i nostri errori, come se non fossero mai esistiti.
Esponendoci al rischio di ripeterli». Carta e penna aiutano a ricordare. «Quando prendiamo appunti a mano durante una lezione, la lentezza dell’atto ci obbliga a selezionare molto» spiega Daniel Oppenheimer, docente di psicologia alla University of California e autore di diversi studi sul tema. «E questo è cruciale per fare propria la lezione, perché dobbiamo pensare a ciò che ascoltiamo, quanto basta per poterlo trascrivere con parole nostre».
Il computer ci rende più veloci ma anche più scervellati: «Diventa difficile resistere alla tentazione di trascrivere bovinamente tutto quello che dice il docente. Io stesso, se prendo note al computer, non posso fare a meno di trascrivere in maniera pressoché letterale» confessa Oppenheimer.
«Apprendere è faticoso, e il nostro cervello cerca scorciatoie ogni volta che può. Scrivere a mano ci toglie la scorciatoia della trascrizione senza pensieri».
«Vale anche per la trascrizione al computer di lezioni registrate in classe: la registrazione facilita il compito dello studente, ma nello sbobinare c’è una passività che stimola meno il cervello» spiega Gabriella Bottini. «Invece prendere appunti a mano è qualcosa di più attivo e coinvolgente, assomiglia di più a ciò che si chiama chuchotage, la traduzione in tempo reale che gli interpreti fanno bisbigliando all’orecchio di chi deve intendersi in lingue diverse.
Attività che costringe a una valutazione, seppure sommaria, di ciò che si vuole riportare». E poi c’è un altro aspetto importante ai fini della memoria: «Nello scrivere a mano, lo sguardo è puntato sulla mano che guida la penna sul foglio. La punta della penna è il luogo dove convergono sia l’atto motorio che quello visivo. Se scriviamo al computer, invece, la mano corre sulla tastiera ma lo sguardo è rivolto altrove, al monitor» sottolinea Bottini.
«Questa divergenza tra occhio e mano può penalizzare la memoria, perché diminuisce quella che nel gergo dei neurologi chiamiamo integrazione multisensoriale: se riusciamo a mettere insieme in una sola esperienza più stimoli di diverso tipo – visivi, uditivi, motori, tattili, olfattivi – allora i tempi di richiamo dei ricordi, e la loro qualità, possono essere migliori». Perché il ricordo avrà più “maniglie” per essere ripescato. Magari insieme a un bel voto.
La Stampa 10.4.18
Viaggio nella città natale di Marx: due mostre per celebrare il suo bicentenario
di Andrea Battaglini
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