l’espresso 8.4.18
Marco Damilano
Arriva il momento di cambiare motore
Lo
sconquasso della sinistra non è cominciato con Renzi. Ha radici più
lontane. Ma gli ultimi anni sono stati una grande occasione perduta
Neppure
un istante è stato dedicato a un’elaborazione culturale, a creare
un’organizzazione territoriale, a far crescere una nuova classe
dirigente
Il mare calmo non ha mai fatto buoni
marinai, ha scritto il segretario reggente del Pd Maurizio Martina su
Repubblica (4 aprile) riportando le parole che gli ha detto un compagno.
Il compagno ha ragione: mai il mare è stato così burrascoso per il
centrosinistra italiano, arrivato al minimo storico della sua lunga
storia. Ma è anche vero che mai, invece, è stato così tranquillo nella
classe dirigente del partito, che al di là di qualche articolo e
proclama si sta rivelando incapace di affrontare una crisi così grave,
potenzialmente letale, in termini culturali prima ancora che politici.
Una grande bonaccia delle Antille, come quella che descrisse Italo
Calvino nel 1957 a proposito dell’immobilismo e della paralisi del Pci
togliattiano. È lo spettacolo stupefacente di queste settimane:
l’analisi del voto inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti
burocratica, i capicorrente che continuano a operare nelle loro manovre
esiziali come se nulla fosse successo, intellettuali di area silenti,
l’incapacità di sfuggire alla morsa della domanda che rimbalza nei talk
televisivi, allearsi o no con uno dei vincitori del 4 marzo. Un dilemma
posto dallo stesso segretario dimissionario Matteo Renzi all’indomani
del voto, per sfuggire a un più pesante quesito: che fare ora del Pd?
Domanda che va allargata al resto della sinistra: i fuggiaschi di Liberi
e Uguali, gli scissionisti e i paladini della nuova sinistra, tutti
insieme hanno raccolto una miseria elettorale, ancor più evidente in
presenza di milioni di voti in uscita dal Pd, ma per nulla disponibili
ad accasarsi in un’altra formazione di sinistra, nuova, vecchia, post o
ex che sia. E dopo il voto sono spariti. È questo paesaggio mutato nella
società, prima ancora che in Parlamento, che nessuno vuole vedere e che
dovrebbe essere il punto di partenza.
Guardiamoli da vicino, i
numeri spaventosi del voto del 4 marzo che in tanti vorrebbero
dimenticare. Tra gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati, il 9
per cento ha votato per il Pd, il 6 per cento per la formazione guidata
da Pietro Grasso, il 47 per cento per il Movimento 5 Stelle (il 18 per
cento per la Lega di Matteo Salvini). Tra i dipendenti del pubblico
impiego, tradizionale roccaforte della sinistra, il 19 per cento ha
votato per il Pd, il 6 per Liberi e Uguali, il 27 per M5S, percentuali
che si ripetono con stacchi ancora maggiori per i dipendenti del settore
privato. L’unica categoria in cui il Pd supera M5S sono i pensionati.
Ricavo questi dati dallo studio curato dai ricercatori di Youtrend
Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (“La nuova
Italia”, Castelvecchi) appena pubblicato. «Dall’analisi dei lussi
risulta che solo la metà degli elettori del Pd nel 2013 e nel 2014 ha
confermato il voto nell’ultima tornata elettorale. Questo calo è
omogeneo in tutti i settori sociali, ma il Pd vede il suo consenso
ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storicamente una
componente fondamentale del blocco sociale degli schieramenti di
centrosinistra», si legge nell’analisi. «L’impatto di questo cambiamento
non deve essere sottovalutato: è per natura, se non per portata,
comparabile a quello del dissolversi delle Zone Rosse del Paese
affrontato nel capitolo sull’analisi geografica del voto. Si definisce
così un nuovo equilibrio nel blocco sociale del Pd: il tradizionale
“tridente” costituito da pensionati, dipendenti del settore privato e
dipendenti del settore pubblico esce dalle elezioni 2018 vistosamente
ridimensionato nelle sue due componenti attive nel mercato del lavoro.
Di converso, la categoria socioprofessionale presso la quale il Pd
riesce a contenere meglio le perdite è quella degli imprenditori e dei
lavoratori autonomi. In questo modo il Pd si avvicina maggiormente,
seppur attraverso una dolorosa cura dimagrante, all’equilibrato
interclassismo che si potrebbe supporre essere adeguato a un vero
“Partito della Nazione”; ma ciò sembra verificarsi al - carissimo -
prezzo della perdita dell’egemonia politica su importanti componenti
della società italiana, sia in termini territoriali che in termini
socio-professionali». Una conclusione amara e beffarda: il partito della
Nazione alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione. In
formato bonsai: una piccola nazione. È l’effetto di un doppio
sconquasso: uno più recente e un altro di più lungo periodo. Quello
recente porta il segno e il volto di Matteo Renzi e si riassume in un
pugno di settimane, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, tra la
sconfitta al referendum sulla Costituzione (4 dicembre 2016) e la
scissione di Pier Luigi Bersani (19 febbraio 2017, con l’uscita dei
bersaniani all’assemblea nazionale dell’hotel Parco dei Principi,
nonostante gli ultimi tentativi, compreso l’accorato appello del
fondatore Walter Veltroni). In quelle settimane è finito il sogno del Pd
come soggetto in grado di riunire tutte le anime del centrosinistra
italiano e di fare da motore di un cambiamento del sistema politico
italiano in senso europeo, un confronto tra due riformismi, uno di
sinistra e uno di stampo liberale, conservatore, popolare. Il terremoto
di più lungo periodo ci dice che quel sistema europeo da tempo non
esiste più. È entrato in crisi ovunque, nei suoi elementi fondanti. È in
crisi il centrodestra di governo, resiste in Germania con Angela
Merkel, ma solo trasformando la grande coalizione Cdu/Csu-Spd in un
centrosinistra all’italiana, la formula inventata da noi da
democristiani e socialisti in dall’inizio degli anni Sessanta che ha
retto con alterne vicende la politica nazionale per più di
cinquant’anni. Ovunque il vecchio polo conservatore è assediato dalle
voci più radicali, quello che è successo oggi in Italia, con la Lega di
Matteo Salvini che ha superato Forza Italia, potrebbe riproporsi domani
in altri paesi europei.
I nuovi vincitori, ed è la seconda
novità, conquistano consensi nei tradizionali territori sociali della
sinistra. Effetto della globalizzazione e dei suoi esiti malgestiti,
come l’immigrazione, l’impossibilità per un’intera generazione di
inserirsi in modo stabile e dignitoso nel nuovo mercato del lavoro e
l’impoverimento del ceto medio, e dell’afasia della sinistra europea
sulle urgenze del nuovo secolo. Il Pd è finito perché travolto da un
cambiamento epocale, eppure era stata l’unica forza politica riformista
del continente ad avvertire la tempesta in arrivo. Nella lunga stagione
dell’Ulivo di Romano Prodi e di Arturo Parisi che aveva preceduto la
fondazione del Pd, e poi nel 2007 con la nascita del partito di
Veltroni, l’intuizione che fosse necessario andare oltre la
socialdemocrazia europea e mettere insieme culture politiche
tradizionalmente divise, poteva rappresentare un modello nuovo e
vincente, com’è sembrato essere il giovane principe arrivato da Firenze
per conquistare il cuore del potere. Gli ultimi tre anni rappresentano
un’enorme occasione perduta. Neppure un istante di attenzione è stato
dedicato da Renzi e dal suo gruppo di comando a costruire
un’elaborazione culturale, un’organizzazione territoriale, una classe
dirigente locale e nazionale, i tre fondamenti di qualsiasi impresa
politica. Mentre molto tempo si è perduto nell’eliminazione delle voci
scomode, nel formare una militanza cieca e conformista, agitata sui
social con i metodi peggiori della Casaleggio associati, per poi perdere
di vista ogni progetto di cambiamento e ridursi al ristretto gruppo dei
fedelissimi del Capo. Oggi è necessario cancellare l’equivoco, scrive
Massimo Cacciari nelle pagine che seguono. Sciogliere il Pd, questo Pd. E
affrontare la questione più drammatica, l’assenza di un partito
socialista, riformista, laburista, liberal, democratico, chiamatelo come
volete, nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, quando si fa più
drammatica una doppia emergenza, quella economica, con il ceto
medio-alto coinvolto negli effetti della crisi dell’ultimo decennio, e
quella democratica, di una rappresentanza ormai avvertita come
lontanissima dai cittadini comuni. Non bisogna lasciar passare la
vergogna invano, aggiunge Paola Natalicchio, una delle giovani voci più
interessanti della nuova sinistra, amministratrice di un grande comune
del Sud, la Molfetta di Gaetano Salvemini e di don Tonino Bello, nella
Puglia che ha rappresentato un laboratorio di innovazione tra il 2005 e
il 2015 e che oggi è passata in blocco con il Movimento 5 Stelle. Non si
può perdere anche questa dolorosa occasione, l’irrilevanza e lo spettro
dell’estinzione, per provare almeno a ricostruire qualcosa. L’idea di
fare il partito dell’establishment restando all’opposizione non sembra
una trovata brillantissima. Allearsi con quel che resta di Forza Italia
contro il blocco populista Lega-M5S è la soluzione finale per perdere
anche quei milioni di voti rimasti. Restare all’opposizione e non vedere
l’ora che nasca un governo Salvini-Di Maio, come si è spinto a dire un
capogruppo del Pd, significa agire per istinti autolesionistici. Non
sciogliere per non scegliere è la blindatura di gruppi dirigenti
sconfitti in tutte le versioni, quella rottamatrice renziana, quella
arcaica del culto della Ditta degli scissionisti, quella
vetero-ideologica, piagnona e protestataria. Proviamo a ripartire in
queste pagine, con qualche provocazione e con quel tanto di
spregiudicatezza che la situazione richiede. E perino, se lo scenario
non fosse così malinconico, con il divertimento di immaginare che la
politica sia ancora un regno delle possibilità e non della necessità.