lunedì 9 aprile 2018

l’espresso 8.4.18
Marco Damilano
Arriva il momento di cambiare motore
Lo sconquasso della sinistra non è cominciato con Renzi. Ha radici più lontane. Ma gli ultimi anni sono stati una grande occasione perduta
Neppure un istante è stato dedicato a un’elaborazione culturale, a creare un’organizzazione territoriale, a far crescere una nuova classe dirigente


Il mare calmo non ha mai fatto buoni marinai, ha scritto il segretario reggente del Pd Maurizio Martina su Repubblica (4 aprile) riportando le parole che gli ha detto un compagno. Il compagno ha ragione: mai il mare è stato così burrascoso per il centrosinistra italiano, arrivato al minimo storico della sua lunga storia. Ma è anche vero che mai, invece, è stato così tranquillo nella classe dirigente del partito, che al di là di qualche articolo e proclama si sta rivelando incapace di affrontare una crisi così grave, potenzialmente letale, in termini culturali prima ancora che politici. Una grande bonaccia delle Antille, come quella che descrisse Italo Calvino nel 1957 a proposito dell’immobilismo e della paralisi del Pci togliattiano. È lo spettacolo stupefacente di queste settimane: l’analisi del voto inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti burocratica, i capicorrente che continuano a operare nelle loro manovre esiziali come se nulla fosse successo, intellettuali di area silenti, l’incapacità di sfuggire alla morsa della domanda che rimbalza nei talk televisivi, allearsi o no con uno dei vincitori del 4 marzo. Un dilemma posto dallo stesso segretario dimissionario Matteo Renzi all’indomani del voto, per sfuggire a un più pesante quesito: che fare ora del Pd? Domanda che va allargata al resto della sinistra: i fuggiaschi di Liberi e Uguali, gli scissionisti e i paladini della nuova sinistra, tutti insieme hanno raccolto una miseria elettorale, ancor più evidente in presenza di milioni di voti in uscita dal Pd, ma per nulla disponibili ad accasarsi in un’altra formazione di sinistra, nuova, vecchia, post o ex che sia. E dopo il voto sono spariti. È questo paesaggio mutato nella società, prima ancora che in Parlamento, che nessuno vuole vedere e che dovrebbe essere il punto di partenza.
Guardiamoli da vicino, i numeri spaventosi del voto del 4 marzo che in tanti vorrebbero dimenticare. Tra gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati, il 9 per cento ha votato per il Pd, il 6 per cento per la formazione guidata da Pietro Grasso, il 47 per cento per il Movimento 5 Stelle (il 18 per cento per la Lega di Matteo Salvini). Tra i dipendenti del pubblico impiego, tradizionale roccaforte della sinistra, il 19 per cento ha votato per il Pd, il 6 per Liberi e Uguali, il 27 per M5S, percentuali che si ripetono con stacchi ancora maggiori per i dipendenti del settore privato. L’unica categoria in cui il Pd supera M5S sono i pensionati. Ricavo questi dati dallo studio curato dai ricercatori di Youtrend Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (“La nuova Italia”, Castelvecchi) appena pubblicato. «Dall’analisi dei lussi risulta che solo la metà degli elettori del Pd nel 2013 e nel 2014 ha confermato il voto nell’ultima tornata elettorale. Questo calo è omogeneo in tutti i settori sociali, ma il Pd vede il suo consenso ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storicamente una componente fondamentale del blocco sociale degli schieramenti di centrosinistra», si legge nell’analisi. «L’impatto di questo cambiamento non deve essere sottovalutato: è per natura, se non per portata, comparabile a quello del dissolversi delle Zone Rosse del Paese affrontato nel capitolo sull’analisi geografica del voto. Si definisce così un nuovo equilibrio nel blocco sociale del Pd: il tradizionale “tridente” costituito da pensionati, dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico esce dalle elezioni 2018 vistosamente ridimensionato nelle sue due componenti attive nel mercato del lavoro. Di converso, la categoria socioprofessionale presso la quale il Pd riesce a contenere meglio le perdite è quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. In questo modo il Pd si avvicina maggiormente, seppur attraverso una dolorosa cura dimagrante, all’equilibrato interclassismo che si potrebbe supporre essere adeguato a un vero “Partito della Nazione”; ma ciò sembra verificarsi al - carissimo - prezzo della perdita dell’egemonia politica su importanti componenti della società italiana, sia in termini territoriali che in termini socio-professionali». Una conclusione amara e beffarda: il partito della Nazione alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione. In formato bonsai: una piccola nazione. È l’effetto di un doppio sconquasso: uno più recente e un altro di più lungo periodo. Quello recente porta il segno e il volto di Matteo Renzi e si riassume in un pugno di settimane, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, tra la sconfitta al referendum sulla Costituzione (4 dicembre 2016) e la scissione di Pier Luigi Bersani (19 febbraio 2017, con l’uscita dei bersaniani all’assemblea nazionale dell’hotel Parco dei Principi, nonostante gli ultimi tentativi, compreso l’accorato appello del fondatore Walter Veltroni). In quelle settimane è finito il sogno del Pd come soggetto in grado di riunire tutte le anime del centrosinistra italiano e di fare da motore di un cambiamento del sistema politico italiano in senso europeo, un confronto tra due riformismi, uno di sinistra e uno di stampo liberale, conservatore, popolare. Il terremoto di più lungo periodo ci dice che quel sistema europeo da tempo non esiste più. È entrato in crisi ovunque, nei suoi elementi fondanti. È in crisi il centrodestra di governo, resiste in Germania con Angela Merkel, ma solo trasformando la grande coalizione Cdu/Csu-Spd in un centrosinistra all’italiana, la formula inventata da noi da democristiani e socialisti in dall’inizio degli anni Sessanta che ha retto con alterne vicende la politica nazionale per più di cinquant’anni. Ovunque il vecchio polo conservatore è assediato dalle voci più radicali, quello che è successo oggi in Italia, con la Lega di Matteo Salvini che ha superato Forza Italia, potrebbe riproporsi domani in altri paesi europei.
 I nuovi vincitori, ed è la seconda novità, conquistano consensi nei tradizionali territori sociali della sinistra. Effetto della globalizzazione e dei suoi esiti malgestiti, come l’immigrazione, l’impossibilità per un’intera generazione di inserirsi in modo stabile e dignitoso nel nuovo mercato del lavoro e l’impoverimento del ceto medio, e dell’afasia della sinistra europea sulle urgenze del nuovo secolo. Il Pd è finito perché travolto da un cambiamento epocale, eppure era stata l’unica forza politica riformista del continente ad avvertire la tempesta in arrivo. Nella lunga stagione dell’Ulivo di Romano Prodi e di Arturo Parisi che aveva preceduto la fondazione del Pd, e poi nel 2007 con la nascita del partito di Veltroni, l’intuizione che fosse necessario andare oltre la socialdemocrazia europea e mettere insieme culture politiche tradizionalmente divise, poteva rappresentare un modello nuovo e vincente, com’è sembrato essere il giovane principe arrivato da Firenze per conquistare il cuore del potere. Gli ultimi tre anni rappresentano un’enorme occasione perduta. Neppure un istante di attenzione è stato dedicato da Renzi e dal suo gruppo di comando a costruire un’elaborazione culturale, un’organizzazione territoriale, una classe dirigente locale e nazionale, i tre fondamenti di qualsiasi impresa politica. Mentre molto tempo si è perduto nell’eliminazione delle voci scomode, nel formare una militanza cieca e conformista, agitata sui social con i metodi peggiori della Casaleggio associati, per poi perdere di vista ogni progetto di cambiamento e ridursi al ristretto gruppo dei fedelissimi del Capo. Oggi è necessario cancellare l’equivoco, scrive Massimo Cacciari nelle pagine che seguono. Sciogliere il Pd, questo Pd. E affrontare la questione più drammatica, l’assenza di un partito socialista, riformista, laburista, liberal, democratico, chiamatelo come volete, nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, quando si fa più drammatica una doppia emergenza, quella economica, con il ceto medio-alto coinvolto negli effetti della crisi dell’ultimo decennio, e quella democratica, di una rappresentanza ormai avvertita come lontanissima dai cittadini comuni. Non bisogna lasciar passare la vergogna invano, aggiunge Paola Natalicchio, una delle giovani voci più interessanti della nuova sinistra, amministratrice di un grande comune del Sud, la Molfetta di Gaetano Salvemini e di don Tonino Bello, nella Puglia che ha rappresentato un laboratorio di innovazione tra il 2005 e il 2015 e che oggi è passata in blocco con il Movimento 5 Stelle. Non si può perdere anche questa dolorosa occasione, l’irrilevanza e lo spettro dell’estinzione, per provare almeno a ricostruire qualcosa. L’idea di fare il partito dell’establishment restando all’opposizione non sembra una trovata brillantissima. Allearsi con quel che resta di Forza Italia contro il blocco populista Lega-M5S è la soluzione finale per perdere anche quei milioni di voti rimasti. Restare all’opposizione e non vedere l’ora che nasca un governo Salvini-Di Maio, come si è spinto a dire un capogruppo del Pd, significa agire per istinti autolesionistici. Non sciogliere per non scegliere è la blindatura di gruppi dirigenti sconfitti in tutte le versioni, quella rottamatrice renziana, quella arcaica del culto della Ditta degli scissionisti, quella vetero-ideologica, piagnona e protestataria. Proviamo a ripartire in queste pagine, con qualche provocazione e con quel tanto di spregiudicatezza che la situazione richiede. E perino, se lo scenario non fosse così malinconico, con il divertimento di immaginare che la politica sia ancora un regno delle possibilità e non della necessità.