l’espresso 1.4.18
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Inchiesta / Potere & affari
Caccia ai soldi della Lega
Milioni
investiti in modo illegale. E la onlus Più voci per sfuggire ai
giudici. Quel che non dice l’uomo che vuole l’incarico di governo
di Giovanni Tizian e Stefano Vergine
Un’associazione
senza scopo di lucro. Una onlus usata per ricevere finanziamenti dalle
aziende e girarli subito dopo a società controllate dalla Lega. La porta
girevole è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Matteo
Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa che ha
poi mandato sul lastrico il partito imponendo il sequestro dei conti
correnti. Ma questo non è l’unico segreto finanziario del nuovo leader
della destra italiana, in corsa per diventare capo del governo. Al
riparo da occhi indiscreti ci sono anche milioni di euro investiti in
obbligazioni societarie e titoli derivati. Scommesse proibite per un
partito politico, stabilisce la legge. Eppure la Lega le ha fatte. I
documenti ottenuti da L’Espresso permettono di andare oltre i bilanci
ufficiali e ricostruire un pezzo delle trame finanziarie architettate
dal Carroccio negli ultimi sei anni, quelli cioè che vanno dalla
cacciata di Umberto Bossi a oggi. Il risultato è che alla narrazione
legalitaria sostenuta pubblicamente da Salvini si sovrappone una
gestione economica opaca, che richiama il passato bossiano, tempi che
“il capitano” vuole far cadere nell’oblio al più presto. Ripartiamo
dunque dall’inizio. Dov’è finito il tesoro della Lega? Dove sono spariti
i 48 milioni di euro messi sotto sequestro dal tribunale di Genova dopo
la condanna di Bossi per truffa ai danni dello Stato? Da mesi i giudici
di Genova sono a caccia di quei denari: soldi pubblici, perché frutto
dei rimborsi elettorali. Finora sui conti del Carroccio sono stati però
rinvenuti poco più di 2 milioni. Gli altri? Usati, spesi, spariti:
questo hanno sempre sostenuti i massimi dirigenti del Carroccio. «Oggi
sul conto corrente della Lega nazionale abbiamo 15 mila euro», ha detto
lo scorso 3 gennaio Salvini, che non perde occasione per ricordare come
il suo partito sia senza un quattrino. La stessa cosa si legge sui
bilanci ufficiali. Alcuni documenti bancari aiutano però a comprendere
meglio che fine ha fatto la ricchezza leghista. Facendo emergere un
fatto inedito: sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito
sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti
illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di
scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli
di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro
«l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha
cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle
più famose banche e multinazionali. Colossi come l’americana General
Electric, la spagnola Gas Natural, le italiane Mediobanca, Enel, Telecom
e Intesa Sanpaolo. Una fiche da 300mila euro è stata messa anche sul
corporate bond di Arcelor Mittal, il gruppo siderurgico indiano che ha
acquistato l’Ilva promettendo di lasciare a casa circa 4mila lavoratori.
Ma lasciamo stare per un attimo gli investimenti e torniamo al momento
in cui tutto è cambiato. Il 16 maggio del 2012, poco dopo che la notizia
dell’inchiesta per truffa ha costretto Bossi a dimettersi da segretario
federale, la Lega apre un conto corrente presso la filiale Unicredit di
Vicenza. Nel giro di sei mesi vi trasferisce buona parte della
liquidità parcheggiata in altre banche: 24,4 milioni di euro in totale. È
l’inizio di una frenetica girandola di bonifici e giroconti che
porteranno, nel giro di quattro anni, al prosciugamento delle risorse
finanziarie padane. O almeno di quelle registrate sul conto della Lega
nazionale. Degli oltre 24 milioni arrivati in Unicredit, una decina
sparisce quasi subito: prelievi in contanti, pagamenti non meglio
specificati, investimenti finanziari, trasferimenti sui conti delle
sezioni locali del partito, bonifici a favore di società di capitali
controllate dalla stessa Lega come Pontida Fin, Media Padania ed
Editoriale Nord. A gennaio del 2013 un altro colpo di scena. Il partito,
allora guidato da Maroni, apre un nuovo conto corrente. Dove sposta una
buona fetta del tesoretto custodito in Unicredit. Questa volta la
scelta ricade sulla Sparkasse, la cassa di risparmio di Bolzano. Non un
istituto a caso. Il presidente della banca altoatesina è infatti Gerhard
Brandstätter, già socio d’affari dell’avvocato della Lega di quel
momento, il calabrese Domenico Aiello. Sul conto della Sparkasse
arrivano, oltre a 4 milioni di titoli finanziari, 6 milioni di
liquidità. Bastano solo sei mesi, però, e i soldi spariscono. La maggior
parte del denaro viene usata per finanziare la campagna elettorale di
Maroni alla presidenza della regione Lombardia: decine di bonifici a
società di comunicazione e organizzazione eventi, tra cui spiccano i
quasi 400 mila euro diretti alla sede irlandese di Google, punto di
passaggio obbligato per chiunque voglia farsi pubblicità sul motore di
ricerca più usato al mondo.
Anche in questo caso non mancano i
trasferimenti alle sedi locali del partito, ma la parte del leone - come
avvenuto pochi mesi prima con il conto Unicredit - la fanno le società
di capitali della Lega. Radio Padania: 250 mila. Editoriale Nord: 600
mila. Pontida Fin: 206 mila. Fin Group: 360 mila. Una volta prosciugato
il conto Sparkasse, si torna a puntare tutto su Unicredit. Ed è qui che
vengono a galla i dettagli sugli investimenti finanziari. Nel dicembre
del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, il Carroccio ha
in pancia titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma
equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono
obbligazioni societarie. Ci sono anche 380 mila euro investiti in un
derivato, un titolo basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale
indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto
della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza
speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi
elettorali. Strategia che non è cambiata quando a Maroni è succeduto
Salvini. Alcuni documenti bancari riassumono il saldo del conto corrente
del Carroccio presso Unicredit il 19 maggio del 2014, quando Matteo è
ormai da qualche mese in plancia di comando. Le carte raccontano due
fatti. Il primo è che anche Salvini ha investito i denari del partito in
obbligazioni societarie. Nello specifico, Matteo ha puntato 1,2 milioni
su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Il secondo fatto salta
all’occhio confrontando i saldi del conto corrente leghista a distanza
di soli cinque mesi. Da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il
patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. Non è
dato sapere in che modo siano stati spesi così rapidamente tutti quei
soldi. Di certo Salvini fino a qualche tempo fa poteva disporre di
parecchie risorse, mentre oggi i conti della Lega sono ufficialmente a
secco. Tant’è che lo Stato italiano, attraverso i giudici di Genova, si è
dovuto accontentare di sequestrare solo 2 milioni sui 48 teorici.
Perché la Lega ha investito soldi violando una legge dello Stato? E come
mai i finanziamenti delle imprese sono arrivati sui conti di una
sconosciuta associazione no profit invece che su quelli ufficiali? Alle
domande de L’Espresso, il partito guidato da Salvini ha preferito non
rispondere. Scelta che alimenta un dubbio: la onlus è stata creata per
evitare il sequestro dei soldi da parte dei magistrati? In mancanza di
risposte da parte dei diretti interessati, non resta che attenersi ai
fatti documentabili. L’associazione si chiama Più Voci, esiste
dall’autunno del 2015. All’apparenza sembra una rivisitazione in salsa
padana della fondazione renziana Big Bang. Con la differenza che la
onlus sovranista non ha nemmeno un sito internet, figuriamoci una lista
pubblica dei finanziatori. A tenerne le redini sono tre commercialisti
lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio
Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea
Manzoni. Se è vero che la onlus Più Voci finora non ha pubblicizzato
alcuna attività politica o sociale, il conto corrente di riferimento
mostra una certa vitalità. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi - che
entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso
altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui
i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo. Per
chiarire meglio il ruolo dell’associazione Più Voci è necessario tornare
tra la metà del dicembre 2015 e i primi mesi del 2016, quando sul conto
della onlus piovono due bonifici per un totale di 250 mila euro. La
causale è la classica usata per i contributi ai partiti: “erogazione
liberale”.
I versamenti sono stati disposti dalla Immobiliare
Pentapigna srl. Un nome che ai più non rivela molto. Scavando sulla
proprietà si arriva a uno dei più noti costruttori della Capitale: Luca
Parnasi, titolare del 100 per cento delle azioni dell’immobiliare. Già,
proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma, erede
di una dinastia di palazzinari (lui preferisce il termine “sviluppatore
di progetti”) che con il potere ha sempre flirtato. Il padre Sandro, era
un comunista convinto, ha gettato le basi dell’impero, oggi con le
finanze scricchiolanti e con i debiti in mano a Unicredit. Il figlio
Luca preferisce il basso profilo, anche se qualche anno fa ha tentato di
far rivivere lo storico quotidiano di sinistra Paese Sera, ma si è
dovuto arrendere poco dopo. Nella sua carriera non ha disdegnato affari
con personaggi equivoci. Come quello proposto dal capo della famigerata
“Cricca”, Diego Anemone, di recente condannato in primo grado a 6 anni
per associazione a delinquere. Una decina di anni fa, Parnasi acquistò
da Anemone per 12 milioni un complesso residenziale di pregio dietro il
Pantheon, un tempo nella disponibilità del Vaticano. Perché Parnasi ha
versato almeno 250 mila euro all’associazione leghista? L’immobiliarista
romano non ha risposto alle domande de L’Espresso. Di certo il primo
contributo versato all’associazione Più Voci si concretizza il 12
dicembre di tre anni fa. Nel pieno dunque della retorica sovranista di
Salvini, che già in quel momento può contare sul movimento Noi con
Salvini per fare proselitismo sotto il Po. E sempre a cavallo tra il
primo e il secondo bonifico il leader leghista annunciava la presenza
della Lega-Noi con Salvini alle Comunali poi vinte dai Cinque Stelle e
Virginia Raggi. Insomma, il sostegno “liberale” offerto dal re del
mattone Parnasi potrebbe essere letto in questa ottica locale-Capitale.
Un luogo dove il costruttore ha bisogno di mantenere buoni rapporti con
tutti, se vuole davvero sperare di costruire lo stadio della Roma. Ma,
forse, non si tratta solo di questioni romane. Perché i Parnasi si
stanno giocando partite decisive per il futuro del loro gruppo anche
oltre il Tevere e il raccordo. C’è per esempio il caso Ferrara. Qui la
famiglia di costruttori è proprietaria del Palaspecchi, un grande
complesso immobiliare che versa da anni in stato di abbandono. La
politica locale, con in testa la Lega, per diversi anni ha sostenuto
l’idea di demolire tutto. Un’ipotesi rischiosa per Parnasi. Per sua
fortuna, però, le cose sono cambiate. Dopo anni di tira e molla,
all’inizio dell’anno scorso la situazione sembra essere stata risolta
con un intervento finanziato principalmente da Cassa depositi e
prestiti. L’ente che gestisce i risparmi postali degli italiani dovrebbe
permettere di riqualificare l’intera area e realizzare duecentosessanta
alloggi sociali, affiancati da attività commerciali, servizi e spazi
verdi. Un bel sospiro di sollievo per il gruppo Parnasi, che intanto sta
facendo parlare di sé anche nell’altra capitale d’Italia, quella
economica, Milano. Un mese e mezzo fa, infatti, il Milan ha affidato al
quarantenne Luca Parnasi il compito di individuare un’area adatta a
realizzare il futuro campo di proprietà rossonera. L’immobiliarista ha
dunque contribuito in maniera massiccia alla causa di questa sconosciuta
associazione leghista. Non è il solo, però. Con 40 mila euro si piazza
Esselunga, la catena di ipermercati della famiglia Caprotti. Del resto
Salvini stesso non ha mai nascosto l’ammirazione per il gruppo
concorrente per eccellenza delle Coop. «Grande uomo, mai servo di
nessuno», scriveva nel suo addio su Facebook il giorno della scomparsa
di Umberto Caprotti. La causale del bonifico di 40 mila euro versato a
giugno 2016 recita “contributo volontario 2016”. Quasi a voler
sottolineare che anche per quell’anno sono in regola con l’attestazione
di fiducia verso la Lega sovranista. Esselunga è stata l’unica a
rispondere alle nostre domande. La catena di supermercati non ha
spiegato perché abbia scelto di versare almeno 40 mila euro
all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito. Si
è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio
Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti
pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perché le aziende non versano
il loro contributo direttamente alla Lega o a Radio Padania? È un modo
per confondere le acque ed evitare il sequestro dei soldi? E per quale
motivo scrivere nella causale “Contributo volontario” se di pubblicità
si trattava? Domande a cui non è possibile dare risposta. Il loquace
Salvini, questa volta, ha preferito il no comment. C’è da dire, però,
che in effetti, poco dopo essere arrivati sul conto della onlus i soldi,
non solo quelli di Esselunga, vengono girati a società di capitali del
gruppo leghista. In quattro mesi 265 mila finiscono proprio alla
cooperativa Radio Padania, quella della storica emittente del Carroccio,
mentre altri 30 mila euro vengono versati sul conto della Mc srl,
società leghista che controlla il giornale online Il Populista,
diventato lo strumento principe della propaganda salviniana in rete.
Insomma, l’operazione ha tutta l’aria di essere una partita di giro.
Anche perché l’amministratore unico sia della Mc che di Radio Padania è
lo stesso Giulio Centemero, tesoriere del partito, che siede nella onlus
da cui partono i denari. Le azioni della Mc sono saldamente in mano
alla Pontida Fin, altra cassaforte storica del Carroccio ormai caduta in
disgrazia, il cui 1 per cento continua a essere in mano al Senatur
Umberto Bossi. Frammenti di un passato che Salvini vorrebbe rottamare,
ma che non riesce a tenere fuori dalla porta. Anche se una cosa Matteo
Salvini l’ha cambiata davvero. Roma per i sovranisti cresciuti tra le
valli di Pontida non è più ladrona. Ai tempi di Umberto Bossi era
proibito frequentare i salotti. Il Senatur aveva avvertito i
parlamentari padani, guai a mischiarsi con il potere romano, tra
manager, stelle dello spettacolo e palazzinari. Con la Lega modello
Front National, certe rigidità appartengono al passato secessionista.