martedì 3 aprile 2018

l’espresso 1.4.18
Medici che non curano le donne
di Elena Testi

Sul foglietto illustrativo, il Vangelo di ogni farmaco, si indicano con precisione gli “effetti indesiderati”, gli “effetti indesiderati rari” e gli “effetti indesiderati non comuni”. Seguono altri mille dettagli. Nessuna specifica, però, su come varia l’effetto della medicina a seconda del genere del paziente, né c’è scritto alcunché sui diversi dosaggi tra uomo e donna. Solo una postilla: «In caso di gravidanza e allattamento consultare un medico». Nient’altro. Eppure la scienza ha da tempo sentenziato: maschio e femmina rispondono in maniere differente ai farmaci. Anche i sintomi delle malattie possono essere diversi tra i due sessi. Il problema è concreto ma in Italia la maggior parte delle Regioni non hanno ancora studiato un piano sanitario per questo. Piano che, tra i numerosi vantaggi, negli anni potrebbe anche notevolmente ridurre i costi del Sistema Sanitario Nazionale. Gli studi clinici, storicamente, si sono basati su uomini caucasici dal peso di circa 70 chilogrammi. Nel 1991 un articolo della cardiologa Bernardine Healy, direttrice del National Institute of Health, per la prima volta mostra quanto questa prassi sia sbagliata. Così la comunità scientifica inizia ad abbandonare le discriminazioni e anche l’Italia tenta l’inversione di marcia. Ma per la Direttrice ad interim del Centro per la medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, Alessandra Carè, «è ancora necessario cambiare approccio, perché nonostante la situazione sia migliorata c’è ancora molto strada da fare». Già, perché le differenze sono molte. Per i maschi, ad esempio, l’infarto arriva con un dolore al braccio e l’accasciamento improvviso, ma per la donna non è così, la sintomatologia è diversa: spesso non si avverte alcun dolore e l’agitazione viene scambiata per uno stato di irrequietezza e ansia. La conseguenza, di fronte a medici impreparati, è che la paziente non viene ricoverata o viene soccorsa in ritardo. Forse anche per questo in Italia la mortalità per malattie cardiovascolari è del 48,4 per cento nelle donne e del 38,7 per cento negli uomini. Stessa cosa per il diabete: gli studi dimostrano che la donna è meno trattata con medicinali specifici. All’elenco si aggiunge il tumore al colon, seconda causa di morte in ambedue i sessi in Europa e negli Usa: gli esami specifici sono stati cablati solo per gli uomini con la conseguenza che nelle donne possono dare esito negativo e far scoprire la malattia troppo tardi. Così per il cancro legato alle vie urinarie, che nelle donne è spesso scambiato per una semplice infiammazione o cistite. Gli studi - come riportato nell’ultimo report del Ministero della Salute - hanno evidenziato significative differenze di genere anche nell’incidenza, nell’aggressività, nella progressione, nella prognosi e nella risposta alla terapia in molte tipologie di tumori comuni ai due sessi. Tradotto: donne e uomini rispondono in maniera diversa alla malattia e una cura studiata solo sugli uomini può avere conseguenze anche gravi.
La medicina avanza e la politica tenta la risposta. Ed ecco la legge per l’Applicazione e la diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 15 febbraio. Tempo di attuazione massimo 12 mesi. La legge, dovrebbe quindi entrare in vigore entro l’inizio del 2019. Le necessità impellenti sono: sperimentazione; formazione; ricerca e informazione per la salvaguardia della salute della donne. Convegni, studi di settore e dati che si accumulano. L’attenzione nella comunità scientifica si sta spostando verso l’asticella rossa. Il primo passo è educare gli studenti. È per questo che il professore in Endocrinologia dell’Università La Sapienza di Roma, Andrea Lenzi, ha inserito, come coordinatore dei presidenti dei corsi di studio in Medicina, l’insegnamento della medicina di genere nelle università italiane. «Il progetto», specifica, «è partito per l’anno accademico 2017-2018. Ci siamo resi conto di una necessità divenuta ormai impellente, proprio per questo tutte le facoltà italiane hanno deciso di accettare l’indicazione». Ma se per i medici del domani il cambiamento è già in atto, per quelli del presente saranno necessari corsi di aggiornamento da inserire nella formazione continua per educarli a una diagnosi più consapevole.
La disparità passa anche attraverso le strumentazioni. I macchinari e i dispositivi medici possono a volte essere inadatti al corpo femminile. A fare la differenza può essere per sino la grandezza del cuore o la presenza del seno. Il Sistema Sanitario Nazionale necessita di una ristrutturazione da bollino rosa. Ma l’equità scientifica deve affrontare talvolta anche il problema speculare. L’osteoporosi colpisce entrambi i sessi, eppure - sottolinea Andrea Lenzi - «è difficile che un maschio si faccia un esame specifico, questo solo per pregiudizio».
Vale lo stesso per la depressione, spiega Alessandra Carè: «Si pensa che l’uomo per motivi socio-culturali non ne venga colpito, eppure il tasso di suicidi tra i maschi è molto più alto». Trial clinici, sperimentazioni, pregiudizi e un immaginario comune completamente da rivoluzionare. Come il sito internet “Salute della donna”, il portale del ministero dedicato esclusivamente al genere femminile, che alla voce “Dipendenze e differenze di genere” dedica in tutto cinque righe: «La ricerca scientifica degli anni più recenti mostra significative differenze di genere». E poi: «Tuttavia, mancando studi specifici per genere, forte è il bisogno di sviluppare studi basati sulle evidenze, con metodologie che differenzino le peculiarità». E il ministero della Salute italiano se la cava così.
È del 14 febbraio 2017, invece, la risoluzione approvata dal Parlamento Europeo con cui invita gli Stati membri «a utilizzare un approccio metodologico che garantisca una rappresentanza adeguata di uomini e donne nelle sperimentazioni cliniche». Contiene una serie di raccomandazioni alla Commissione Ue perché tutto il processo di sperimentazione dei farmaci sia più inclusivo del genere femminile: ne parlerà Beatriz Becerra, eurodeputata spagnola indipendente, al Meeting mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Luca Coscioni a Bruxelles, dall’11 aprile prossimo.
Per l’Agenzia Italiana del Farmaco però «le donne rimangono ancora sottorappresentate nelle sperimentazioni cliniche in aree importanti come ad esempio l’oncologia non genere-specifica, oppure nell’area cardiovascolare». Le cause sono i costi elevati per la case farmaceutiche, ma non solo: «Le donne in età fertile sono storicamente escluse dalla partecipazione ai test». I rischi maggiori riguardano «fertilità e un regolare sviluppo del feto». Massimo Scaccabarozzi aggiunge che «esiste una difficoltà a coinvolgere le “quote rosa” nel reclutamento - che è volontario - per gli studi clinici, a causa di diversi fattori, come la variazione dei parametri fisiologici e appunto il potenziale rischio in età fertile». Secondo l’Istituto Superiore di Sanità «per evidenziare le diverse risposte ai farmaci, oltre a un arruolamento bilanciato tra i due sessi, è indispensabile un’analisi dei risultati separata per genere, ad oggi spesso trascurata». Un dettaglio cruciale. Abbattere la cecità di genere significherebbe infatti ridurre gli effetti indesiderati che si manifestano quasi due volte più frequentemente nelle donne. A dettare legge sono sempre gli studi: alcuni farmaci antinfiammatori differiscono significativamente a secondo del sesso. Conseguenza? «Senza test specifici», spiega l’Aifa, «si potrebbe rischiare di privare le donne di medicinali potenzialmente utili per la cura di malattie importanti o non essere a conoscenza della sicurezza dei farmaci» Ed eccoli, come un monito costante: “effetti indesiderati”, “effetti indesiderati rari” ed “effetti indesiderati non comuni”. Diversi per genere.