l’espresso 1.4.18
Medici che non curano le donne
di Elena Testi
Sul
 foglietto illustrativo, il Vangelo di ogni farmaco, si indicano con 
precisione gli “effetti indesiderati”, gli “effetti indesiderati rari” e
 gli “effetti indesiderati non comuni”. Seguono altri mille dettagli. 
Nessuna specifica, però, su come varia l’effetto della medicina a 
seconda del genere del paziente, né c’è scritto alcunché sui diversi 
dosaggi tra uomo e donna. Solo una postilla: «In caso di gravidanza e 
allattamento consultare un medico». Nient’altro. Eppure la scienza ha da
 tempo sentenziato: maschio e femmina rispondono in maniere differente 
ai farmaci. Anche i sintomi delle malattie possono essere diversi tra i 
due sessi. Il problema è concreto ma in Italia la maggior parte delle 
Regioni non hanno ancora studiato un piano sanitario per questo. Piano 
che, tra i numerosi vantaggi, negli anni potrebbe anche notevolmente 
ridurre i costi del Sistema Sanitario Nazionale. Gli studi clinici, 
storicamente, si sono basati su uomini caucasici dal peso di circa 70 
chilogrammi. Nel 1991 un articolo della cardiologa Bernardine Healy, 
direttrice del National Institute of Health, per la prima volta mostra 
quanto questa prassi sia sbagliata. Così la comunità scientifica inizia 
ad abbandonare le discriminazioni e anche l’Italia tenta l’inversione di
 marcia. Ma per la Direttrice ad interim del Centro per la medicina di 
Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, Alessandra Carè, «è ancora 
necessario cambiare approccio, perché nonostante la situazione sia 
migliorata c’è ancora molto strada da fare». Già, perché le differenze 
sono molte. Per i maschi, ad esempio, l’infarto arriva con un dolore al 
braccio e l’accasciamento improvviso, ma per la donna non è così, la 
sintomatologia è diversa: spesso non si avverte alcun dolore e 
l’agitazione viene scambiata per uno stato di irrequietezza e ansia. La 
conseguenza, di fronte a medici impreparati, è che la paziente non viene
 ricoverata o viene soccorsa in ritardo. Forse anche per questo in 
Italia la mortalità per malattie cardiovascolari è del 48,4 per cento 
nelle donne e del 38,7 per cento negli uomini. Stessa cosa per il 
diabete: gli studi dimostrano che la donna è meno trattata con 
medicinali specifici. All’elenco si aggiunge il tumore al colon, seconda
 causa di morte in ambedue i sessi in Europa e negli Usa: gli esami 
specifici sono stati cablati solo per gli uomini con la conseguenza che 
nelle donne possono dare esito negativo e far scoprire la malattia 
troppo tardi. Così per il cancro legato alle vie urinarie, che nelle 
donne è spesso scambiato per una semplice infiammazione o cistite. Gli 
studi - come riportato nell’ultimo report del Ministero della Salute - 
hanno evidenziato significative differenze di genere anche 
nell’incidenza, nell’aggressività, nella progressione, nella prognosi e 
nella risposta alla terapia in molte tipologie di tumori comuni ai due 
sessi. Tradotto: donne e uomini rispondono in maniera diversa alla 
malattia e una cura studiata solo sugli uomini può avere conseguenze 
anche gravi. 
La medicina avanza e la politica tenta la risposta. 
Ed ecco la legge per l’Applicazione e la diffusione della medicina di 
genere nel Servizio sanitario nazionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale
 lo scorso 15 febbraio. Tempo di attuazione massimo 12 mesi. La legge, 
dovrebbe quindi entrare in vigore entro l’inizio del 2019. Le necessità 
impellenti sono: sperimentazione; formazione; ricerca e informazione per
 la salvaguardia della salute della donne. Convegni, studi di settore e 
dati che si accumulano. L’attenzione nella comunità scientifica si sta 
spostando verso l’asticella rossa. Il primo passo è educare gli 
studenti. È per questo che il professore in Endocrinologia 
dell’Università La Sapienza di Roma, Andrea Lenzi, ha inserito, come 
coordinatore dei presidenti dei corsi di studio in Medicina, 
l’insegnamento della medicina di genere nelle università italiane. «Il 
progetto», specifica, «è partito per l’anno accademico 2017-2018. Ci 
siamo resi conto di una necessità divenuta ormai impellente, proprio per
 questo tutte le facoltà italiane hanno deciso di accettare 
l’indicazione». Ma se per i medici del domani il cambiamento è già in 
atto, per quelli del presente saranno necessari corsi di aggiornamento 
da inserire nella formazione continua per educarli a una diagnosi più 
consapevole. 
La disparità passa anche attraverso le 
strumentazioni. I macchinari e i dispositivi medici possono a volte 
essere inadatti al corpo femminile. A fare la differenza può essere per 
sino la grandezza del cuore o la presenza del seno. Il Sistema Sanitario
 Nazionale necessita di una ristrutturazione da bollino rosa. Ma 
l’equità scientifica deve affrontare talvolta anche il problema 
speculare. L’osteoporosi colpisce entrambi i sessi, eppure - sottolinea 
Andrea Lenzi - «è difficile che un maschio si faccia un esame specifico,
 questo solo per pregiudizio». 
Vale lo stesso per la depressione,
 spiega Alessandra Carè: «Si pensa che l’uomo per motivi socio-culturali
 non ne venga colpito, eppure il tasso di suicidi tra i maschi è molto 
più alto». Trial clinici, sperimentazioni, pregiudizi e un immaginario 
comune completamente da rivoluzionare. Come il sito internet “Salute 
della donna”, il portale del ministero dedicato esclusivamente al genere
 femminile, che alla voce “Dipendenze e differenze di genere” dedica in 
tutto cinque righe: «La ricerca scientifica degli anni più recenti 
mostra significative differenze di genere». E poi: «Tuttavia, mancando 
studi specifici per genere, forte è il bisogno di sviluppare studi 
basati sulle evidenze, con metodologie che differenzino le peculiarità».
 E il ministero della Salute italiano se la cava così. 
È del 14 
febbraio 2017, invece, la risoluzione approvata dal Parlamento Europeo 
con cui invita gli Stati membri «a utilizzare un approccio metodologico 
che garantisca una rappresentanza adeguata di uomini e donne nelle 
sperimentazioni cliniche». Contiene una serie di raccomandazioni alla 
Commissione Ue perché tutto il processo di sperimentazione dei farmaci 
sia più inclusivo del genere femminile: ne parlerà Beatriz Becerra, 
eurodeputata spagnola indipendente, al Meeting mondiale per la libertà 
di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Luca Coscioni a 
Bruxelles, dall’11 aprile prossimo. 
Per l’Agenzia Italiana del 
Farmaco però «le donne rimangono ancora sottorappresentate nelle 
sperimentazioni cliniche in aree importanti come ad esempio l’oncologia 
non genere-specifica, oppure nell’area cardiovascolare». Le cause sono i
 costi elevati per la case farmaceutiche, ma non solo: «Le donne in età 
fertile sono storicamente escluse dalla partecipazione ai test». I 
rischi maggiori riguardano «fertilità e un regolare sviluppo del feto». 
Massimo Scaccabarozzi aggiunge che «esiste una difficoltà a coinvolgere 
le “quote rosa” nel reclutamento - che è volontario - per gli studi 
clinici, a causa di diversi fattori, come la variazione dei parametri 
fisiologici e appunto il potenziale rischio in età fertile». Secondo 
l’Istituto Superiore di Sanità «per evidenziare le diverse risposte ai 
farmaci, oltre a un arruolamento bilanciato tra i due sessi, è 
indispensabile un’analisi dei risultati separata per genere, ad oggi 
spesso trascurata». Un dettaglio cruciale. Abbattere la cecità di genere
 significherebbe infatti ridurre gli effetti indesiderati che si 
manifestano quasi due volte più frequentemente nelle donne. A dettare 
legge sono sempre gli studi: alcuni farmaci antinfiammatori differiscono
 significativamente a secondo del sesso. Conseguenza? «Senza test 
specifici», spiega l’Aifa, «si potrebbe rischiare di privare le donne di
 medicinali potenzialmente utili per la cura di malattie importanti o 
non essere a conoscenza della sicurezza dei farmaci» Ed eccoli, come un 
monito costante: “effetti indesiderati”, “effetti indesiderati rari” ed 
“effetti indesiderati non comuni”. Diversi per genere. 
 
