internazionale 1.4.18
Non c’è niente di cui stupirsi
Invece
di indignarci per la vicenda della Cambridge Analytica dovremmo
rimettere in discussione un modello di capitalismo interamente basato
sulla sorveglianza
Di William Davis, London Review of Books, Regno Unito
Nella
vicenda della Cambridge Analytica almeno una cosa è certa. se
quarantamila persone in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania avessero
cambiato idea su Donald Trump prima dell’8 novembre del 2016 e avessero
votato per Hillary Clinton, questa piccola società di consulenza non
sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali. Avrebbe potuto carpire i
dati degli elettori e fargli il lavaggio del cervello ma, se Clinton
avesse vinto, oggi questa non sarebbe una notizia. I cattivi della
storia di sicuro concorderanno con quest’affermazione, ma per ragioni
poco plausibili. nell’inchiesta condotta da Channel 4 news con il
supporto dell’Observer e del New York Times si vede l’amministratore
delegato della Cambridge Analytica Alexander Nix (attualmente sospeso)
vantarsi, con quello che riteneva un potenziale cliente, di aver
incontrato Trump “molte volte” e di aver architettato l’intera strategia
della sua campagna elettorale. Secondo Nix quei quarantamila voti sono
stati strappati a Clinton e consegnati a Trump grazie a pubblicità
mirate e a qualche messaggio molto persuasivo. “Tutta la strategia
elettorale si è basata sui nostri dati”, dice Nix.
La Cambridge
Analytica era stata ingaggiata per lavorare alla campagna elettorale di
Trump, anche se non necessariamente per la sua genialità machiavellica.
SWteve Bannon, il responsabile della campagna, all’epoca era nel
direttivo della società e probabilmente ha procurato all’azienda un
contratto di favore. All’inizio del 2017, quando la Cambridge Analytica
ha attirato per la prima volta le attenzioni dei mezzi d’informazione
britannici, si è detto che aveva avuto stretti rapporti anche con la
campagna per l’uscita del regno unito dall’unione europea. In una delle
tante inchieste sull’argomento, Carole Cadwalladr dell’Observer scriveva
nel maggio del 2017 che “gli avvenimenti negli Stati Uniti e nel Regno
Unito sono strettamente intrecciati.
La Brexit e Trump sono
intrecciati. I legami dell’amministrazione Trump con la Russia e il
Regno Unito sono intrecciati. E la Cambridge Analytica è uno snodo
attraverso cui possiamo vedere tutte queste relazioni”. Date queste
premesse, in un certo senso le rivelazioni più recenti sono una
delusione, se non altro per i clienti più ingenui della Cambridge
Analytica. In primo luogo non c’è alcuna prova concreta del fatto che la
Cambridge Analytica abbia fornito servizi di consulenza ai sostenitori
dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea in occasione del
referendum del 2016. Nix si era vantato in un articolo di averlo fatto,
ma a febbraio ha ammesso che quell’articolo era stato scritto da un
“consulente di pubbliche relazioni un po’ troppo zelante”. Di sicuro
dovremmo cercare di capire come “la Brexit e Trump sono intrecciati”, ma
per farlo occorre un’analisi sociologica ed economica: non sarà
semplice (o emozionante) come scoprire un centro di controllo segreto.
Strategia comune
In
secondo luogo, non c’è – né può esserci – alcuna prova che la Cambridge
Analytica abbia fatto vincere le elezioni a Trump (e, per le stesse
ragioni, non è possibile dimostrare che non l’abbia fatto), sebbene
l’azienda naturalmente sostenga il contrario. Clinton fa ancora fatica
ad ammettere che la sua sconfitta potrebbe non essere dovuta a queste
macchinazioni. Intervistata da Channel 4, ha parlato della “propaganda”
della Cambridge Analytica, che “ha influenzato i processi decisionali
degli elettori”. Eppure l’analisi dei dati è alla base di tutte le
moderne campagne elettorali. Clinton ha preferito studiare i dati sul
Michigan dal suo ufficio di Brooklyn invece di andare di persona nello
stato, anche quando i democratici locali l’avevano implorata di farlo
nelle ultime settimane di campagna elettorale. Se le cose fossero andate
diversamente, avremmo letto articoli sulle innovative tecniche di
analisi dei dati che per la prima volta avevano permesso a una donna di
diventare presidente degli Stati Uniti. lo scandalo ha due facce, ma
nessuna riguarda nello specifico le elezioni. La prima riguarda la
“violazione dei dati”, che ha garantito alla campagna di Trump l’accesso
a cinquanta milioni di profili Facebook senza il permesso degli utenti.
Questo è potuto succedere grazie a un’applicazione chiamata
thisisyourdigitallife, simile a quelle in cui si imbattono tanti utenti
di Facebook. Sono applicazioni che compaiono nel news feed sotto forma
di questionario sulla personalità che produce risultati relativamente
banali da condividere con gli amici. Thisisyourdigitallife è stata
creata da Aleksandr Kogan, psicologo dell’università di Cambridge, per
verificare le teorie sui modelli di personalità in base ai like su
Facebook. Solo 270mila persone hanno usato l’app, che però ha raccolto
anche i dati dei loro amici. Facebook sapeva di thisisyourdigitallife,
ma credeva che servisse solo alla ricerca accademica. Qualsiasi utente
che avesse letto termini e condizioni (ma chi di noi lo fa?) avrebbe
pensato la stessa cosa. Quello che nessuno sapeva ino a poche settimane
fa è che Kogan trasmetteva i dati alla Cambridge Analytica, che a sua
volta li metteva a disposizione di Bannon, come ha raccontato
all’Observer Christopher Wylie, che lavorava alla Cambridge Analytica.
La mietitura sono state violate diverse regole. Le norme sulla privacy
presuppongono che ogni individuo abbia il diritto di sapere come
verranno usati i suoi dati prima di permettere a qualcuno di
raccoglierli. Kogan e la Cambridge Analytica si sono comportati in modo
disonesto. Ma anche se non hanno rispettato alla lettera la sezione
“termini e condizioni” e hanno violato la normativa sulla privacy,
nessuno si sorprenderà del fatto che i dati raccolti in un ambito
possano venire usati in un altro. L’uso di dati in modi innovativi (e
segreti) è di fatto il principio guida dell’economia digitale: Sshoshana
Zuboff l’ha definito “capitalismo della sorveglianza” e Nick Srnicek
“capitalismo della piattaforma”. Vale la pena ricordare che negli anni
novanta internet era considerata tanto una minaccia quanto
un’opportunità per il capitalismo. Napster è l’esempio più celebre. Non
si capiva da dove sarebbero venuti i profitti in un contesto in cui
l’informazione era abbondante e l’anonimato la norma. Quello che è
cambiato, come hanno spiegato Zubof e Srnicek, è che si è cominciato a
pensare a internet come a un dispositivo di sorveglianza di dimensioni
potenzialmente globali: si offrivano servizi migliori, più economici o
gratuiti a condizione che gli “utenti” fossero tracciati in tutto ciò
che facevano e che vi ancorassero le loro identità reali. Il fatto che
la maggior parte dei giganti della tecnologia abbia registrato perdite
enormi nei primi anni di attività è parte integrante della strategia. La
gente dev’essere convinta a usare un servizio, e continuare a usarlo.
Solo in seguito questo potere viene convertito in profitto. Argomentare
che un utente di Facebook dà il suo consenso a tutti i modi in cui
Facebook usa o potrebbe usare i suoi dati significa travisare la
questione. D’altronde, dire che un lettore del Guardian dà il suo
consenso a tutti i modi in cui il Guardian usa i suoi dati (di cui
lascia una traccia ogni volta che visita il sito del quotidiano)
significa fraintendere la natura essenzialmente malleabile dei dati
stessi. Il potenziale valore dei dati emerge dopo che sono stati
raccolti, non prima. Nel panico generato dal caso Trump e Cambridge
Analytica, questa dura realtà capitalista è stata definita harvesting,
la mietitura. Ma se creare un’app per raccogliere dati senza che le
persone ne siano pienamente consapevoli è “mietere”, allora lo sono
tante altre cose. Creando un wii gratuito sulla metropolitana di Londra,
l’azienda Transport for London miete dati sui movimenti dei passeggeri.
Il digital service britannico ha mietuto dati sui cittadini manipolando
l’aspetto dei siti del governo (usando due versioni diverse di ogni
sito si raccolgono dati sulla navigazione e sul tempo passato su ogni
pagina). Uber continua a raccogliere dati sul comportamento degli utenti
perfino dopo la fine della corsa, anche se ora si può scegliere di
disattivare questa funzione. I nuovi manifesti pubblicitari a Piccadilly
circus mietono dati: contengono videocamere che analizzano le
espressioni della gente. L’altra faccia dello scandalo è più sporca ma
meno significativa. Se si deve credere alle sue affermazioni, alla
Cambridge Analytica piace giocare in modo scorretto. Nix e il suo
collega Mark Turnbull sono stati colti da Channel 4 mentre parlavano di
tecniche di adescamento, ricatto e controspionaggio con toni più adatti a
una storia di James Bond che alla psicometria. Osservazioni buttate là
su come il candidato non sia altro che una “marionetta” nelle mani della
campagna elettorale e i “fatti” siano meno importanti delle “emozioni”
sembrano losche se colte da una telecamera nascosta, ma non sono poi
così lontane dall’atteggiamento del Partito laburista britannico negli
anni novanta. E quando Nix si vanta di “agire nell’ombra” e saluta il
“cliente” con una battuta a effetto (“non vedo l’ora di costruire un
rapporto lungo e segreto con lei”) ci si chiede come abbia fatto il
giornalista di Channel 4 a restare serio. Dunque siamo di fronte a un
uso improprio dei dati, cosa che ha giustamente attirato l’attenzione
dell’ufficio del commissario per l’informazione del Regno Unito, e a un
po’ di gergo da marketing che scivola in fantasticherie mafiose per poi
sparire al primo segnale di pericolo.
L’uso improprio dei dati
non è una novità: nel 2010 il Wall Street Journal aveva scoperto che le
app di Facebook (come quella realizzata da Kogan) raccoglievano
regolarmente informazioni a uso e consumo degli inserzionisti e delle
società che tracciavano i dati d’accesso ai siti, senza il permesso
degli utenti. Tenuto conto di quanto Facebook controlli l’attenzione del
mondo (con più di due miliardi di utenti attivi al mese, che
trascorrono in media cinquanta minuti al giorno sul sito), è inevitabile
che i mercanti dell’attenzione vi si buttino a caccia di scarti,
proprio come i grandi eventi sportivi attirano i bagarini. Perché tanta
indignazione? Bisogna fare i complimenti all’observer per la sua
tenacia. Con un po’ di fortuna questa storia potrebbe farci arrivare a
un punto di svolta sulla questione della riservatezza dei dati. tuttavia
il fascino e lo sgomento provocati dalla Cambridge Analytica
suggeriscono una rimozione dell’orrore che in realtà deriva da qualcosa
di molto più profondo. In parte deve avere a che fare con il trumpismo.
Un fenomeno così terribile dev’essere stato provocato da strumenti
altrettanto terribili. Chi si è battuto con fervore per restare
nell’unione europea deve pensare la stessa cosa riguardo alla Brexit. È
chiaro che nella campagna elettorale statunitense sono intervenute forze
segrete e subdole. Grazie alle indagini di Robert Mueller sappiamo che
Facebook ha venduto spazi pubblicitari per un valore di centomila
dollari alle “fabbriche di troll” russe, e che 126 milioni di americani
potrebbero essere stati esposti a notizie false diffuse dalla Russia nel
2015 e nel 2016. Poi c’è la ripresa delle indagini dell’Fbi sulle email
di Clinton in un momento critico della campagna elettorale. ma che
tutto questo ci permetta di comprendere o spiegare la vittoria di Trump è
discutibile.
Cattivi rassicuranti
La Cambridge Analytica
sembra un sicuro colpevole soprattutto perché si è vantata più volte di
esserlo. Rispetto agli eventi del 2016 Nix e Turnbull sono quello che i
manager della Goldman Sachs e della Royal Bank of Scotland sono stati
per la crisi finanziaria del 2008: personalità grottesche su cui
concentrare rabbia e allarme. Ascoltare uomini simili vantarsi della
loro spregiudicatezza è paradossalmente rassicurante, perché
contribuisce a spiegare la perdita di senso morale del mondo. Come nel
caso della crisi finanziaria, tuttavia, il circo rischia di distrarre
dalle vere questioni istituzionali e politiche che, in questo caso,
riguardano aziende come Facebook e il modello di capitalismo che
tollera, facilita e addirittura celebra le loro estese e sofisticate
forme di raccolta e analisi dei dati. È significativo che due dei più
grandi scandali etici che hanno colpito Facebook negli ultimi anni
coinvolgano dei ricercatori universitari (l’altro scandalo è
l’esperimento sul “contagio emotivo” da cui è emerso che Facebook aveva
alterato il news feed senza il consenso degli utenti). Avere a che fare
con ricercatori esterni significa rinunciare a una parte del controllo.
La disponibilità di Facebook a collaborare con i ricercatori è già
scarsa, e questi scandali spingeranno Mark Zuckerberg a chiedersi se
valga davvero la pena di correre rischi. Se tutti i dati restano
all’interno dell’azienda non emerge nessun dilemma etico. Le dimensioni e
la portata sempre più vaste di queste piattaforme eliminano
gradualmente la necessità di condividere dati con qualcun altro. Si è
detto che i dati sono il “petrolio” dell’economia digitale, la risorsa
che alimenta tutto il resto. Un’analogia più utile è quella tra il
petrolio e la privacy, una risorsa naturale nascosta che viene
progressivamente saccheggiata per ricavare un profitto, con conseguenze
sempre più nocive per la società nel suo complesso. Se questa analogia è
corretta, le leggi per la protezione della privacy e dei dati non
basteranno a lottare contro i giganti della tecnologia. distruggere la
privacy in modi sempre più avventurosi è il lavoro di Facebook. Proprio
come gli ambientalisti chiedo no all’industria dei combustibili fossili
di “lasciarli nel sottosuolo”, quello che dovremmo fare è chiedere alla
silicon valley di “lasciare le informazioni nelle nostre teste”. Il vero
cattivo in questo caso è una logica economica espansiva che insiste nel
voler controllare una quantità sempre maggiore dei nostri pensieri, dei
nostri sentimenti e delle nostre relazioni. Il modo migliore per
fermare tutto questo è quello che la silicon valley teme più di ogni
altra cosa: le leggi antitrust. una volta frammentate in società più
piccole, le aziende tecnologiche sarebbero comunque in grado di
controllarci, ma da punti di vista diversi che non potrebbero essere
messi in connessione tra loro con facilità o in modo poco trasparente.
un mondo pieno di truffatori come la Cambridge Analytica, che alla fine
vengono colti in fallo a causa delle loro stesse stupidaggini, è meglio
di un mondo in mano a enormi monopoli come Amazon e Facebook, che un po’
alla volta assumono le funzioni del governo mantenendo un inquietante
silenzio su quello che fanno.
L’AUTORE William Davies è un sociologo ed economista britannico. Ha scritto The happiness industry (Verso Books 2015).