mercoledì 4 aprile 2018

La Stampa TuttoScienze 4.4.18
Quando i Sapiens impararono la gentilezza
Nel Dna le prove di come ci siamo addomesticati da soli per diventare più empatici e socievoli
di Gabriele Beccaria


Noi umani siamo i cagnolini giocosi, mentre i Neanderthal sono stati i lupi feroci. Ecco un modo originale di considerare noi stessi, la specie Sapiens apparsa all’incirca 200 mila anni fa. Traducendo la metafora, si approda subito a una battuta: siamo l’unica specie conosciuta che si è addomesticata da sola.
Abbiamo cominciato con gli antenati dei cani e abbiamo proseguito - negli ultimi 30 mila anni - con molti altri animali, dalle pecore alle mucche e ai cavalli. Ma molto prima avevamo costretto noi stessi a un esperimento simile. Andato a buon fine intorno a 100 mila anni fa. Ci siamo selezionati a vicenda, sfruttando inconsapevolmente le forze dell’evoluzione. E ora, nell’anno 2018, eccoci qui: i geni nelle cellule, i tratti dei volti e i comportamenti sociali sembrano - tutti insieme - confermare una metamorfosi che potrebbe risolvere molti misteri sulle nostre caratteristiche tanto uniche.
Cedric Boeckx è un paleoantropologo della Universidad de Barcelona e ammette che molti potrebbero non gradire l’idea, appena pubblicata sulla rivista «Plos One». Abituati a pensarci come esseri violenti e brutali, forse responsabili dell’eliminazione di tutti gli altri ominidi che condividevano con noi il Pianeta, a cominciare dai Neanderthal, questa nuova visione sembra uno stonato revival romantico, un inno fuori tempo alle nostalgie dei figli dei fiori. Eppure molti indizi suggeriscono che non è così: se a sopravvivere nel passato prima della storia sono stati i più adatti, questi individui erano anche i più «docili».
Boeckx ha confrontato i genomi degli umani moderni con quelli di diverse specie addomesticate e dei corrispettivi selvatici: obiettivo era individuare la presenza di geni più «tardivi», associati proprio ai processi di domesticazione, dalla tendenza alla docilità alla fisiognomica gentile. La scoperta è stata una sorpresa anche per lo studioso catalano. Quegli specifici geni esistono e si trovano tanto negli animali che hanno imparato a convivere con noi quanto negli umani di oggi, mentre sono assenti nei Neanderthal, con i quali, peraltro, condividiamo un altro significativo set di geni, variabile, a seconda dei luoghi e delle popolazioni, tra l’1 e l’8% dell’intero Genoma.
«Una ragione per cui sosteniamo la nostra tesi è legata a come ci comportiamo: siamo tolleranti e le abilità cooperative e pro-sociali si rivelano come elementi-chiave della cognizione che ci contraddistingue - spiega Boeckx -. La seconda ragione è che gli umani moderni, quando vengono paragonati ai Neanderthal, presentano un fenotipo decisamente più gracile, che assomiglia a quello osservato negli animali addomesticati, quando li si confronta con i “cugini” allo stato selvaggio».
E allora ecco un dato prezioso in grado di svelare un enigma sul cervello. Se è di certo sofisticato e iper-connesso, perché è più piccolo di quello degli sfortunati Neanderthal? Un motivo è racchiuso nell’insieme della nostra testa, che si è ridisegnata un po’ alla volta. La scatola cranica è diventata più regolare e l’arco sopracciliare si è ridotto, mentre il mento si è spostato in avanti e i denti si sono rimpiccioliti. Dal nostro punto di vista siamo diventati belli e attraenti. Dal punto di vista delle leggi darwiniane abbiamo favorito i tratti, fisici e psicologici, che facilitavano i rapporti sociali nella stessa tribù e gli incontri casuali con gli sconosciuti, ampliando le reti di contatti e quindi di scambi di saperi.
Boeckx conferma così, in via indiretta, l’«ipotesi della cresta neurale». Ideata da un altro antropologo, l’americano Richard Wagram, sostiene che le trasformazioni di questa struttura embrionale - che si differenzia nella quarta settimana di gestazione - sono legate ai processi di addomesticamento: se è da lì che si sviluppano i neuroni dei gangli cerebrospinali e le cellule della ghiandola surrenale, e di conseguenza le «scariche» di stress e paura, i nostri antenati hanno involontariamente favorito gli esemplari di animali con meccanismi «soft». Lo stesso - aggiunge - sarebbe avvenuto in noi. Finché, 100 mila anni fa, la nostra metamorfosi si è compiuta e la fragile farfalla che riposava in noi ha cominciato a volare. E 60 mila anni fa, finalmente, ha prodotto la prima arte.

La Stampa 4.4.18
Nella democrazia radicale tutti possono cambiare il mondo
Murray Bookchin (1921 – 2006) è stato un sociologo americano che ha teorizzato la democrazia diretta
Una raccolta di saggi del sociologo americano sul Municipalismo libertario: Marx rivisto e corretto con un pizzico di anarchismo. No allo Stato e alle gerarchie, il modello politico adottato dai curdi in Siria
di Claudio Gallo


Può sembrare superfluo parlare del futuro della sinistra, in un momento in cui la sinistra appare pressoché estinta. Tuttavia, se non altro per sfuggire alle litanie dei molti realisti che celebrano questo mondo come il migliore possibile (e dunque immodificabile) leggere Murray Bookchin è una boccata di aria fresca anche per chi non voglia iscriversi al suo partito. Del padre americano del municipalismo libertario è stato appena tradotto La prossima rivoluzione (Bfs Edizioni, pp 200, € 18), saggi sulla costituzione di una società radicalmente democratica.
Cambiare il mondo: ma come e soprattutto chi è in grado di farlo? Marx pensava «scientificamente» al proletariato, ma il proteiforme capitalismo ha sparigliato la carte: l’antagonista di classe di ieri è ridotto a una minoranza fra le minoranze. E i «nuovi soggetti sociali» degli Anni 80 e 90 sono invecchiati come un qualsiasi oggetto di consumo. Dire noi è diventato quasi impossibile oltre che deprecato dal pensiero dominante, la percezione immediata di chi oggi pensa di cambiare le cose è io contro il sistema: partita persa fin dall’inizio: non si fa la rivoluzione sommando le idiosincrasie.
Bookchin parte dall’osservazione che il capitalismo ha vinto ma non è riuscito a superare la sue contraddizioni, le ha solo trasformate. Tra queste oggi la più ingombrante è «lo scontro tra un’economia basata sulla crescita infinita e la distruzione dell’ambiente naturale». Ma non l’hanno già detto i verdi che stanno nei parlamenti? No, l’idea è molto più radicale e conserva del marxismo la visione, al di là dell’ecologismo, che il capitalismo come sistema di esclusione crei inevitabilmente i suoi antagonisti, anche se non più nella forma unica del conflitto di classe.
Per arrivare alla massa informe degli scontenti e degli oppressi, Bookchin fa appello al patrimonio politico dell’anarchismo o del socialismo rivoluzionario russo del XX secolo. A differenza di bolscevichi (e fascisti) il nemico è dunque lo Stato e insieme qualsiasi organizzazione gerarchica. Il municipalismo di Bookchin parte del basso, dalle assemblee popolari, dalle città e propone come unico coordinamento nazionale un sistema confederativo: c’è la comune parigina del 1871 nel Dna della sua proposta politica. Lo slancio utopistico è però temperato da un forte realismo. Scrive Bookchin: «Il municipalismo libertario deve essere concepito come un processo, una pratica paziente che inizialmente avrà un successo limitato e anche allora solo in aree selezionate che forniranno esempi della possibiltà che si potrebbero ottenere se adottate su larga scala».
Lo stesso realismo che si trova nelle considerazioni sulla partecipazione alle assemblee popolari che sarà sempre lungi dall’essere totale. La prima fase della costruzione del progetto, la costituzione della base sociale, è certamente la più difficile, una difficoltà che ha portato Frederic Jameson a ipotizzare nel suo An American Utopia (2016) la costituzione di un «esercito popolare» (disarmato, salvo indicazioni contrarie) come struttura parallela che un tempo si sarebbe detta di classe.
Il progetto di Bookchin è diventato realtà nell’area curda del Nord della Siria dove il sociologo americano ha preso il posto di Marx nella dottrina politica del Partito di unione democratica che controlla i territori resisi autonomi da Damasco nel corso della guerra civile. La cronaca recente, con l’invasione turca dei territori siriani abitati dai curdi, getta però un’ombra cupa sui futuri sviluppi politici.
L’aspetto più controverso del pensiero di Bookchin, al di là dell’antistatalismo radicale, è forse la sua fede, consapevolmente illuministica, nella ragione e nella capacità trasformativa della tecnologia: il municipalismo può avere successo perché è la forma più razionale di una società che valorizza i diritti umani e ottimizza le conquiste tecnologiche. Tuttavia, dopo le osservazioni sulla tecnica di Heidegger, i dubbi della scuola di Francoforte (senza dimenticare l’epistemologia di Feyerabend) e dai noi la condanna di Severino, la fede nella tecnologia usata umanamente rischia di sembrare ingenua. Senza futili luddismi, la tecnica più che uno strumento appare a molti critici contemporanei come una logica totale e impositiva, che concepisce i valori umani solo al proprio interno. In modo cioè ben più limitato e strumentale di quell’assolutezza che vorrebbero concedere loro gli utopisti umanitari.

il manifesto 4.4.18
Ecco come sarà l’Italia in mano ai razzisti
di Guido Viale


Come sarà l’Italia in mano a partiti razzisti? Cominciamo a chiedercelo. Combattere la solidarietà verso profughi e «stranieri» non la rafforza tra i «nativi», ma distrugge anche quella: promuove sospetto, invidia, insensibilità per le sofferenze altrui, crudeltà. E affida «pieni poteri» a chi governa: non solo per reprimere e tener lontane le persone sgradite, ma anche per giudicare sgradite tutte quelle che non obbediscono. La società che respinge e perseguita gli stranieri non può che essere autoritaria, intollerante, violenta.
La storia del secolo scorso ci ha insegnato che questo è un piano inclinato da cui è sempre più difficile risalire. Ma che risultati possono raggiungere i governi impegnati a fare «piazza pulita» di profughi e migranti? Nessuno. La pressione dei profughi sull’Europa continuerà, perché continueranno a peggiorare le condizioni ambientali dei paesi da cui centinaia di migliaia di esseri umani sono costretti a fuggire a causa del saccheggio delle loro risorse e dei cambiamenti climatici che colpiscono soprattutto i loro territori. Quel degrado ambientale è anche la causa principale delle guerre che creano ulteriori «flussi» di profughi: quando le risorse disponibili si riducono, la lotta per accaparrarsele si fa più feroce.
«Aiutiamoli a casa loro» non vuol dire niente: chi mai li dovrebbe aiutare? Le multinazionali che saccheggiano le loro risorse? I tiranni e i governi corrotti che si appropriano di quel che resta? Le popolazioni locali che non hanno la forza per scrollarsi di dosso quei gioghi? Nessuno di loro, ovviamente; solo la volontà di far ritorno nel proprio paese può rendere coloro che ne sono dovuti fuggire i «catalizzatori» di una rigenerazione sociale e ambientale delle terre dove sono rimaste le loro comunità d’origine.
A condizione che profughi e migranti siano accolti bene; messi in condizione di collegarsi tra loro, di organizzarsi, di consolidare legami con cittadini e cittadine europee, di mettere a punto e far valere insieme a loro programmi di pacificazione dei rispettivi paesi e di contenimento e di inversione del loro degrado.
Niente di tutto ciò è prospettato o perseguito da chi ha ripetuto fino alla nausea «aiutiamoli a casa loro»; e meno che mai verrà fatto da chi ha fatto campagna elettorale promettendo di cacciare i «clandestini» dall’Italia. Quella politica, che abbiamo già vista all’opera con il ministro Minniti, non ha fermato gli sbarchi né li fermerà. Perché, anche se tutte le navi delle Ong solidali e delle marine europee venissero messe nell’impossibilità di operare, l’obbligo di salvare chi è in pericolo in mare resterà in capo ai mercantili in transito, come accadeva prima del programma Mare Nostrum; e il porto di sbarco non potrà che essere in Italia. In compenso ci sono stati e ci saranno sempre più morti, sia in mare che nel deserto; che resteranno per sempre sulla coscienza di chi non fa niente per cercare di garantire ai vivi una via di transito sicura verso l’Europa.
Ma soprattutto ci saranno sempre più violenze, torture, ricatti, estorsioni, schiavismo, sia in Libia che in tutti i paesi in cui si sta cercando o si cercherà di bloccare il transito dei profughi. Respingere i profughi significa renderli schiavi e schiave di bande locali o spingerli a farsi reclutare nelle loro armate; il che moltiplicherà i conflitti e renderà tutti i territori dell’Africa e del Medio Oriente infrequentabili per gli europei, sia turisti che tecnici o uomini d’affari. Il modo più sicuro per strangolare sia l’economia europea che le loro.
Ma che sarà, poi, di coloro che sono già in Italia, o in Europa, come «clandestini»? Espellerli tutti è impossibile: costerebbe troppo e chi continua a prometterlo lo sa benissimo.
D’altronde, nessun governo dei paesi di provenienza è disposto ad accoglierli e anche quelli che firmano accordi in tal senso (in cambio molto denaro) non li rispetteranno: quei rimpatriati a forza creerebbero solo problemi. Quei respingimenti li si può fare, o far fare, solo verso la Libia o verso paesi ridotti nello stesso stato: campi di prigionia e tortura a disposizione di un’Europa trasformata in fortezza.
Per questo i migranti «irregolari» resteranno qui, condannati a una clandestinità permanente, che significa costringere centinaia di migliaia di uomini e donne a delinquere, prostituirsi, farsi reclutare dalla criminalità organizzata di casa in molti ambienti politici (soprattutto quelli che più strillano contro il loro arrivo) e anche tra non pochi addetti all’ordine pubblico. È questo, e non l’arrivo di nuovi profughi, a creare quello stato di insicurezza che i nemici dell’accoglienza e della solidarietà dicono di combattere. Essere sempre più feroci con i profughi non fa che peggiorare la situazione; il che fa molto comodo a quei governi europei che già contano di usare l’Italia come discarica dei migranti che non vogliono accogliere, come noi stiamo usando la Libia.
Ma in Europa ci sono già decine di milioni di immigrati, recenti e no, molti anche già «naturalizzati», cioè cittadini e cittadine europee, che da ogni nuova manifestazione di razzismo, o anche di semplice «rifiuto» dello straniero, sono indotti a viversi sempre più come un «corpo estraneo» nella società; e a covare quello spirito di rivalsa che porta alcuni a voler vendicare in qualsiasi modo le sofferenze inflitte ai loro connazionali o correligionari.
Non è un caso che foreign fighters e terroristi vengano quasi tutti da comunità già insediate in Europa.
Per fermarli non basta la polizia; non si possono controllare tutti. Bisogna prevenire; e lo si può fare solo con più rispetto sia per loro che per i loro connazionali in cerca di una vita nuova in Europa.
I partiti che hanno governato e quelli che governeranno nei prossimi anni sono chiusi a questo ascolto.
Né bastano i sermoni per aprirgliele. È dalla pratica attiva della solidarietà che nasce un nuovo modo di vivere.Ed è da una rete di tutti coloro che si impegnano in questo campo che può nascere un’alternativa reale – sociale, politica e culturale – al disastro in cui ci ha trascinato la politica attuale

La Stampa 4.4.18
Gaza, Israele avverte Hamas: “Useremo proiettili veri”
di Giordano Stabile


Israele avverte Hamas e dice che sparerà ancora sui manifestanti che cercheranno di forzare la frontiera fra Gaza e lo Stato ebraico. Le dichiarazioni, sia di politici che di militari, arrivano mentre si prepara una nuova marcia di protesta che rischia di trasformarsi in un altro venerdì di scontri con Hamas. Il governo israeliano non intende fare la minima marcia indietro, nonostante le critiche internazionali e interne per «l’eccessivo uso della forza» contro i dimostranti. «Abbiamo fissato regole chiare e non intendiamo cambiarle – puntualizza il ministro della Difesa Avigdor Lieberman -. Chi si avvicina alle recinzioni della frontiera, rischia la vita». Lieberman ha respinto l’accusa di aver colpito manifestanti. «La maggior parte erano terroristi, dell’ala militare di Hamas e della Jihad islamica», ha ribadito: «È stata una provocazione organizzata ad arte da Hamas».
Anche fonti militari hanno lasciato trapelare ai media israeliani che l’atteggiamento non cambierà: «Continueremo ad agire contro i manifestanti come abbiamo agito lo scorso venerdì». L’uso di mezzi anti-sommossa, come lacrimogeni, cannoni ad acqua, proiettili di gomma, sarà limitato. L’esercito sparerà proiettili veri, anche se è consapevole che potrebbero esserci vittime: «È il prezzo che siamo preparati a pagare per evitare lo sfondamento del confine». Intanto il bilancio da venerdì scorso continua a salire, ora è di 18 vittime, e ci sono ancora 40 persone in gravi condizioni. Ieri un altro palestinese è stato ucciso dal fuoco israeliano a Bureij, nel centro della Striscia, mentre la Lega araba ha chiesto all’Onu di aprire un’inchiesta.
Con la tensione a Gaza che sale di nuovo, è passata in secondo piano la questione dei migranti africani. Il piano per ricollocarli in Europa, e in Italia, attraverso la mediazione dell’Unhcr, è defunto. Lunedì sera il premier lo ha congelato. Ieri Netanyahu ha incontrato una delegazione di abitanti nei quartieri meridionali di Tel Aviv, dove si concentra gran parte dei migranti africani, in condizioni precarie, e dove è aumentata la micro-criminalità. Dopo aver ascoltato le lamentele di quella che costituisce una sua base elettorale, il premier ha dichiarato che l’intesa con l’Onu era «annullata».
Netanyahu aveva trattato con l’Onu senza consultare i Paesi europei, infastiditi da questa fuga in avanti, ma neppure gli alleati del governo e i suoi collaboratori, a parte il ministro dell’Interno Arieh Deri. La destra del Likud è insorta, come pure i partiti conservatori. Anche perché l’accordo prevedeva che per ogni migrante ricollocato, uno ottenesse un permesso temporaneo di lavoro in Israele. Il leader del partito Bayit Yehudi, Naftali Bennet, ha messo l’epitaffio sull’intesa: «Se diamo asilo a 16 mila clandestini Israele diventerà il Paradiso degli immigrati illegali».

Il Fatto 4.4.18
Netanyahu cancella l’accordo con l’Onu sui migranti africani
Per una parte di Israele i profughi che fuggono da Sudan e Eritrea sono “infiltrati”
Netanyahu cancella l’accordo con l’Onu sui migranti africani
di Roberta Zunini


Benjamin Netanyahu – amico personale di Berlusconi – della freddezza della Germania, di numerosi ministri del proprio esecutivo e buona parte dell’opinione pubblica di Tel Aviv, lo stesso primo ministro ha ieri deciso di cancellare l’accordo bilaterale raggiunto lunedì tra Israele e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. L’Onu gli ha chiesto di ripensarci. Il primo ministro non ha risposto, ma è tornato su un altro aspetto della vicenda: sul suo profilo Facebook ha scritto che “la principale fonte della pressione europea nei confronti del governo del Ruanda perché si ritirasse dall’accordo per rimuovere gli infiltrati dal Paese, è il New Israel Found”, accusando questa ong americana di aver mandato all’aria l’intesa con il governo di Paul Kagame per accogliere i migranti, e costringendo invece Israele a un’intesa con l’Alto Commissariato dell’Onu (Unhcr), che poi è quella che lui stesso ha annullato. Per Netanyahu, l’ong Usa è “un’organizzazione che riceve fondi da governi stranieri e da figure ostili a Israele, come i fondi di George Soros” e mette in pericolo Israele “come nazione stato del popolo ebraico”. Era stato proprio Bibi ad annunciare che Italia, Germania e Canada avrebbero ricollocato parte dei profughi eritrei e sudanesi che il recente piano anti immigrati israeliano aveva destinato all’espulsione in paesi terzi sicuri, Uganda e Rwanda, in cambio di soldi. L’accordo con l’Unhcr avrebbe dovuto sostituire un piano di espulsione di circa 40.000 migranti, bloccato però dalla Corte suprema israeliana. La bocciatura della Corte suprema aveva così stimolato la conclusione di un accordo con l’Unhcr, in base a cui circa 16.000 migranti sarebbero stati ricollocati in paesi europei. Nel primo anno e mezzo sarebbero partiti circa 6.000 migranti. Uno scenario che ha provocato le proteste del South Tel Aviv Liberation Front: è nella zona sud di Tel Aviv che si concentrano gli “infiltrati”: africani fuggiti dalla dittatura eritrea e dalle guerre in Sudan.

Repubblica 4.4.18
Annullata l’intesa con l’Unhcr: “Grande rammarico”
“Chi si fida più ora?” È il triste risveglio dei profughi d’Israele
di Marco Ansaldo


TEL AVIV «Bella Italia. Voglio venire » . Nella bettola chiamata “Ristorante sudanese” davanti ai giardini di Neve Shanan, il quartiere più povero a sud di Tel Aviv, gli avventori sono tutti d’accordo. Non ce n’è uno che non sia scappato dal regime del presidente Omar al- Bashir, condannato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Perciò quando l’altra sera la comunità africana si è riunita davanti alla tv per l’annuncio del premier israeliano Benjamin Netanyahu su un accordo con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, avente Roma come destinazione con Berlino e Ottawa, applausi e abbracci si sono sprecati. Il gelo è arrivato ieri mattina, quando nel sedersi a tavola, Alena, fuggita da Khartoum, ha saputo prima della marcia indietro, poi della cancellazione dell’intesa. « Ho ascoltato con attenzione i commenti – guarda ora Netanyahu dire in tv, dove il premier è venuto ad ascoltare nel quartiere accanto i residenti israeliani arrabbiati perché il compromesso prevede che gli oltre 20 mila profughi non compresi dall’intesa rimangano qui – ho riesaminato vantaggi e mancanze, e ho deciso di annullare l’accordo». Alena non sa quasi più che dire. « Chi si fida più ora? Un giorno ti dicono una cosa, il giorno dopo il contrario. Il pensiero di poter ricevere dal governo un permesso di lavoro, un impiego, e potermi così trasferire dalla stanza dove abito con altre due donne, mi attirava. E anche quello di andare in Italia o in Germania. Invece, tutto come prima».
Neve Shanan è il quartiere più problematico di Tel Aviv: scritte in lingua tigrina, case spoglie, saracinesche mezzo abbassate. I magazzini abbandonati sono stati convertiti in chiese, frequentate dagli eritrei cristiani. Qui vivono i 15 mila migranti sudanesi ed eritrei che in gran parte avrebbero lasciato Israele per Italia, Germania e Canada, secondo l’incauto annuncio che Netanyahu ha dovuto rimangiarsi nel giro di poche ore, attaccato dalla destra, dalla grande stampa, e travolto dal malcontento dei residenti nei quartieri meridionali. Gli stessi che si è affrettato a incontrare al mattino, rassicurandoli dopo la repentina inversione a U scritta la notte sulla sua pagina Facebook.
Ma Nathaniel, migrante eritreo seduto sullo spiazzo davanti alla stazione dei bus, ha un dubbio: «Voglio sapere per iscritto se ci arresteranno o se ci manderanno in Ruanda o Uganda per tornare da chi ci ha cacciato » . Perché l’accordo iniziale – un pasticcio, come ora è evidente – prevedeva che una parte dei profughi fosse riportata in Africa, ma in zone più sicure rispetto ai regimi eritreo e sudanese. Ipotesi a cui si sono ribellati non solo intellettuali come Grossman, Oz e Yehoshua, ma pure i piloti della El Al, rifiutatisi di essere i conduttori di «una deportazione».
Michael Teklit, 29 anni, eritreo, è arrivato qui una decina di anni fa. « A febbraio il governo ci ha offerto 3.500 dollari e un biglietto aereo per una destinazione sicura. Poi all’immigrazione ci è stato detto che avremmo dovuto scegliere fra Ruanda o Uganda, oppure essere messi in prigione. Tanta gente ha perso la speranza».
Nel vicino quartiere di Florentin, a ridosso di Jaffa, i residenti israeliani si riuniscono dopo le proteste contro il piano organizzate pure a Gerusalemme e a Haifa. Dice Arie, un uomo massiccio i cui genitori venivano dalla Spagna e che si prepara a vedere il match di Champions, Real Madrid- Juventus: « Qui entro cinque anni butteranno giù tutto e saranno tirati su alberghi e nuove case. A Tel Aviv circolano molti soldi, gli affari di giorno, i divertimenti la sera. Niente sarà più come prima, presto anche questa gente non ci sarà più».

il manifesto 4.4.18
Rivolta nel governo, Netanyahu cancella l’accordo con l’Unhcr
Israele. Il premier ha fatto marcia indietro di fronte alle proteste nel governo e tra gli abitanti delle periferie di Tel Aviv dove si concentrano i richiedenti asilo
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Eritrei e sudanesi si sono presentati in catene, a petto nudo, senza scarpe. Come gli ‎schiavi. Però determinati a spezzarle quelle catene e a non rassegnarsi alla ‎deportazione “volontaria” o al carcere a tempo indeterminato, le uniche possibilità ‎che il governo israeliano aveva offerto loro ad inizio anno. Una “offerta” che non ‎è destinata a migliorare dopo la clamorosa retromarcia fatta dal premier Netanyahu ‎che lunedì ha annunciato un accordo con l’Unhcr, per il ricollocamento di 16 mila ‎dei circa 38mila richiedenti asilo africani oggi in Israele, per poi sospenderlo ‎appena qualche ora dopo. Assieme ai dimostranti eritrei e sudanesi ieri nelle strade ‎di Tel Aviv c’erano decine di attivisti che mostravano cartelli con la scritta ‎”Le ‎vite umane non sono in gioco”. ‎«Netanyahu non può giocare con gli esseri umani‎» ‎ha ripetuto ai giornalisti Daniela Eliashar, che da mesi partecipa alle proteste ‎contro il piano di espulsioni del governo. ‎«Ieri (lunedì) eravamo in lacrime per la ‎gioia e ora siamo in lacrime‎ per la rabbia», ha commentato un’altra manifestante ‎Veronika Cohen. La giornalista Sima Kadmon di Yediot Ahronot ha calcolato in 6 ‎ore e 45 minuti la durata dell’accordo con l’Unhcr annunciato da Netanyahu. ‎«Era ‎una decisione ‎importante e coraggiosa ma è calpestata dagli stivali dei contrasti ‎nella destra‎», ha aggiunto.‎‎
Poche frasi che descrivono bene i motivi del ripensamento di Netanyahu. A far ‎cambiare idea al primo ministro non sono state certo le reazioni di Germania e ‎Italia che, chiamate in causa da Netanyahu, hanno detto di non essere a conoscenza ‎di accordi con l’Unhcr per l’accoglimento dei richiedenti asilo africani ora in ‎Israele. Netanyahu ha dovuto fare i conti una vera e propria insurrezione nella ‎coalizione di estrema destra che guida del 2015. A fare la voce grossa sono stati ‎diversi esponenti del suo partito, il Likud, e soprattutto i ministri Naftali Bennett e ‎Ayelet Shaked del partito nazionalista religioso Casa ebraica, ago della bilancia ‎della maggioranza. Contemporaneamente è scattata la protesta degli abitanti dei ‎degradati quartieri meridionali di Tel Aviv che si sono sentiti “traditi” da ‎Netanyahu. Per anni la destra li ha aizzati contro i richiedenti asilo nella più ‎classica delle guerre tra poveri e quando il governo si era deciso a cacciare via gli ‎africani il premier ha annunciato un accordo con le tanto odiate Nazioni Unite che ‎prevedeva la regolarizzazione di 16mila “infiltrati”, “alieni”, come li chiamano in ‎Israele. Anche in questa occasione non ha mancato di far sentire la sua voce Sheffi ‎Paz del cosiddetto “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” creato per cacciare ‎via i richiedenti asilo. Paz era una pacifista negli anni Ottanta e Novanta e ‎un’attivista dei diritti degli omosessuali, ora passa gran parte del suo tempo a ‎urlare, davanti a telecamere e registratori, che Israele «deve liberarsi di un pericolo ‎‎(gli africani,ndr) che mette a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». ‎
 Questo l’ha sempre pensato e proclamato per anni anche Netanyahu. E infatti il ‎premier, dopo il suo incontro ieri con gli abitanti della periferia di Tel Aviv, ha ‎subito recuperato il tono agguerrito che lunedì aveva messo da parte per qualche ‎ora. ‎«Ho ascoltato con attenzione i molti commenti, ho riesaminato i vantaggi e le ‎mancanze e ho deciso di annullare l’accordo‎», ha detto. Più di tutto Netanyahu ha ‎annunciato perentorio che ‎«Malgrado le limitazioni giuridiche e le crescenti ‎difficoltà internazionali continueremo ad agire con determinazione per ricorrere a ‎tutte le possibilità che abbiamo a disposizione per far uscire gli infiltrati dal ‎Paese». Parole che non lasciano alcun dubbio sulla politica del suo governo nei ‎confronti degli “infiltrati” a maggior ragione dopo la figuraccia che ha fatto. ‎Inutile l’appello dell’Onu a ‎«riconsiderare‎» l’annullamento dell’intesa sui ‎migranti. ‎«Crediamo nella necessità di un accordo vantaggioso per tutti che possa ‎giovare a Israele, alla comunità internazionale e alle persone che hanno bisogno di ‎asilo‎» ha provato invano a spiegare William Spindler, il portavoce dell’Unhcr. ‎
 Netanyahu, attaccato anche dall’opposizione laburista per l’indecisione ‎mostrata, ha rassicurato la sua opinione pubblica che ‎«continuerà a cercare altre ‎soluzioni» in riferimento a un “Paese terzo” pronto ad accogliere i richiedenti ‎asilo che lasceranno “volontariamente” Israele. Al momento questo Paese non c’è. ‎Il Ruanda e l’Uguanda hanno fatto un passo indietro e proprio questo, due giorni ‎fa, aveva favorito l’intesa tra Israele e l’Unhcr e aperto la strada al compromesso ‎poi rinnegato da Netanyahu. ‎
 ‎
il manifesto 4.4.18
Un accordo voluto dall’italiano Filippo Grandi per mettere fine alle espulsioni
Unhcr-Israele. Il «rammarico» dell’Agenzia Onu. «Mesi di lavoro buttati via. Israele ci ripensi»
di Carlo Lania


Mesi di lavoro buttati al vento. Un sforzo diplomatico cesellato fino all’ultima parola e reso nullo dalla protesta di alcuni ministri del governo di Benjamin Netanyahu, ma anche dalle dichiarazioni, a dir poco intempestive, con cui il premier israeliano ha reso noto l’accordo firmato lunedì con l’Unhcr per il ricollocamento di 16 mila dei circa 40 mila rifugiati sudanesi ed eritrei che Israele vuole espellere.
Da Ginevra, dove l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha la sua sede centrale, le vicende di queste ore vengono seguite con sbigottimento, quasi incredulità vedendo andare improvvisamente in fumo la possibilità per alcune migliaia di rifugiati di essere ricollocati, e quindi messi in sicurezza. Un lavoro seguito tra gli altri personalmente dall’Alto commissario per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, che non ha mai risparmiato critiche alla scelta di Israele di espellere i profughi africani. «Le politiche di ricollocamento forzato sono sbagliate e controproducenti. Ci sono alternative possibili», aveva detto Grandi a gennaio scorso sollecitando il governo israeliano a non dare avvio alle partenze.
Dietro l’appello c’era la consapevolezza dei rischi che una simile politica comporta per la vita dei profughi. Quando la minaccia del carcere non basta, pur di «convincere» eritrei e sudanesi ad andare via Israele concede loro 3.500 dollari, soldi che anziché aiutare rischiano di diventare una fonte di pericolo per la vita stessa dei profughi, trasformati in bersaglio della criminalità una volta trasferiti in un Paese africano (tra quelli di cui in passato si è parlato come possibili destinazioni ci sono anche il Ruanda e l’Uganda). Prede di criminali disposti a tutto pur di riuscire a mettere le mani su quel piccolo tesoro. Motivo per cui una volta deportati i profughi vivono letteralmente nel terrore di essere aggrediti.
Come testimoniano i racconti fatti ai funzionari dell’Unhcr da 80 eritrei, alcuni dei quali con familiari ancora in Israele. «La maggior parte ha detto di essere stata inviata da Israele in un Paese africano con una somma di 3.500 dollari», è spiegato in un report dell’Agenzia. «Tuttavia la situazione all’arrivo è apparsa a tutti ben diversa dalle aspettative, al di là della sistemazione fornita per la prima notte. Gli uomini hanno raccontato di essersi sentiti a rischio, anche perché si sapeva che avevano con sé denaro». Molti di loro non hanno avuto altra scelta che affidarsi ai trafficanti che dopo un viaggio di centinaia di chilometri durante il quale non sono mancate torture e maltrattamenti, li hanno condotti in Libia e imbarcati su un gommone diretto in Europa.
C’era anche tutto questo dietro l’accordo incautamente bruciato da Netanyahu. Che quasi a caso ha citato Canada, Italia e Germania come tre dei Paesi disponibili ad accogliere i profughi ma che invece non figurano in alcun modo nell’accordo sottoscritto con l’Unhcr. In realtà il premier avrebbe citato i tre Paesi solo perché il Canada si è sempre dimostrato disponibile ad accogliere profughi, mentre un numero molto esiguo di rifugiati ha parenti stretti in Italia e Germania e quindi per loro sarebbe stato possibile attuare un ricongiungimento familiare.
Per quanto riguarda invece la reale destinazione dei profughi, all’Unhcr ricordano come all’inizio di ogni anno si tiene una conferenza internazionale sui ricollocamenti nella quale ogni Paese comunica quanti posti è disposto ad offrire per l’accoglienza di richiedenti asilo. Spesso si tratta solo di pledges, promesse che purtroppo sono destinate a rimanere tali. Ma comunque utili all’Agenzia dell’Onu per pianificare il proprio lavoro e cercare di portare in salvo il maggior numero possibile di disperati.

La Stampa 4.4.18
Così Russia, Turchia e Iran si spartiscono la Siria
Ecco come Russia, Turchia e Iran cercano di spartirsi la Siria
Dopo aver consolidato il potere di Assad, il Cremlino dovrà usare la diplomazia Oggi il vertice ad Ankara. Damasco dovrà rinunciare a parte del territorio
di Giordano Stabile


Per Vladimir Punti il difficile comincia ora. Ha vinto la guerra in Siria, salvato l’alleato Bashar al-Assad, aperto la strada, con misto di brutalità e astuzia, alla riconquista di due terzi dei territori da parte dell’esercito del regime. I principali rivali del raiss sono in ginocchio: l’Isis respinto in qualche remota area nel deserto, Al-Qaeda assediata nelle campagne di Idlib, i ribelli moderati cacciati da Aleppo, Damasco, Homs, deportati e posti sotto l’ombrello turco, dove possono attaccare sì i curdi ma non hanno più l’autorizzazione a condurre offensive contro i governativi.
Con la vittoria nella Ghouta orientale, la banlieue della capitale rimasta per cinque anni in mano agli insorti, Assad adesso guarda da vicino tre fronti ancora aperti, tre spicchi di Siria che gli sfuggono. Per consolidare il potere dell’alleato, lo Zar li deve mettere in sicurezza tutti e tre. Più con la diplomazia che con la forza. E per farlo deve trovare l’accordo fra Assad e Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco che ambisce al suo spicchio e ha un odio viscerale, ricambiato, per il raiss di Damasco.
Lo spicchio nord-occidentale, quello finito sotto l’influenza turca, è stato definito la «discarica dei jihadisti». Vi sono confluiti negli ultimi due anni tutti i gruppi ribelli, moderati e no, cacciati dal centro del territorio siriano. La parte settentrionale, dove c’è il cantone di Afrin appena strappato ai curdi con una campagna altrettanto brutale di quella nella Ghouta, è saldamente in mano a truppe turche e agli alleati di Jaysh al-Khor, l’Esercito libero siriano. La zona occidentale, attorno a Idlib, è contesa fra Al-Qaeda e i ribelli filo-turchi. Qui si gioca anche la partita Assad-Erdogan. Il presidente siriano vuole recuperare più territori possibile. Erdogan deve sbarazzarsi di Al-Qaeda ma vuole soprattutto allargare la sua zona verso Est, a spese dei curdi. I russi sono disposti ad aiutarlo, concedendo lo spazio aereo ai suoi cacciabombardieri. I dettagli di questa cooperazione sono stati discussi ieri ad Ankara dal capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov e il collega turco Hulusi Akar. In cambio dell’ok di Mosca il leader turco dovrà rinunciare a qualcosa attorno a Idlib.
Assad comunque non potrà recuperare tutto lo spicchio nord-occidentale ma dopo potrà concentrare le truppe sugli altri due fronti. Dove saranno indirizzate dipende dal vertice Putin-Erdogan-Rohani di oggi, ma anche da quello fra il leader russo e Donald Trump alla Casa Bianca. A Damasco sentono aria di smobilitazione da parte degli statunitensi. Lo spicchio nord-orientale, in mano a forze speciali Usa e guerriglieri curdi dello Ypg, è in bilico. È verso l’Eufrate, quindi, che si concentrano le manovre iraniane e siriane. L’intento, anche qui, è quello di recuperare più territori possibile, e lasciare al massimo in mano a Washington l’estrema punta nordorientale. Assad ha riallacciato le vecchie alleanze che il padre Hafez aveva instaurato con alcune tribù beduine della zona: con gli Shaitat, con lo sceicco dei Baggara, Abdullah Ghadawi, e con i Sabkha. Nelle zone liberate dai curdi non c’è ancora acqua potabile ed elettricità. La mancata ricostruzione spinge gli arabi, pur sunniti, nelle braccia del raiss. Sono nati gruppi di guerriglia che hanno già effettuato attacchi contro gli alleati degli Usa.
La situazione degli americani quindi è precaria, sia per le divisioni all’interno dell’Amministrazione Trump che per la situazione sul terreno. I guerriglieri curdi hanno ritirato gran parte dei loro uomini dal fronte, per spostarli al confine con la Turchia, tanto che l’Isis ha rialzato la testa e ripreso alcune posizioni. La riconquista, parziale, del Nord-Est, è possibile, anche perché, se gli Usa vanno via, ai curdi, minacciati da Ankara, non resterà che accordarsi con Damasco. Dove invece Assad non potrà avvicinarsi più di tanto, pena scontrarsi con un muro di ferro e di fuoco eretto da Israele, è la frontiera sudoccidentale. Le province di Dara’a e Quneitra sono ancora in parte in mano ai ribelli, mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu reclama una zona cuscinetto attorno al Golan, e ha colpito degli ultimi cinque mesi centinaia di volte postazioni e convogli di Hezbollah e dei Pasdaran. Assad non potrà riprendersi lo spicchio sud-occidentale se non con una guerra aperta. Ed è poco probabile che Putin in questo lo sostenga.

La Stampa 4.4.18
Nuovi equilibri
Una sfida per l’Italia
di Marta Dassù


Abbasso l’ordine internazionale liberale. E quindi abbasso la Germania, viva l’America di Trump e bene anche Putin. È meglio che l’Italia si schieri con i Grandi lontani che con i Grandi vicini europei: avrà meno vincoli e maggiore libertà d’azione. In estrema sintesi, la Lega e in parte i 5 Stelle – in parte: le posizioni dei due, anche in politica estera, non coincidono certo – propongono una visione internazionale del genere. Ciò significa che una percentuale consistente del nuovo Parlamento e un ipotetico governo futuro concepiranno la difesa degli interessi nazionali dell’Italia in modo diverso dalla tradizionale combinazione fra europeismo classico e atlantismo (o ciò che ne rimane).
Non si tratta di un peccato mortale: a differenza di quanto si tende a pensare, la valutazione degli interessi nazionali non è mai oggettiva, è politica e soggettiva. E quindi può evolvere nel tempo – anzi deve evolvere di fronte a un contesto esterno che si sta frammentando. Il problema vero è un altro: è di capire fino a che punto la visione di politica estera sovranista/populista sia credibile e possa garantire risultati efficaci per l’Italia.
L’Italia ha lo spazio e le capacità per giocare una carta «anti-establishment» in chiave internazionale? Prendere le distanze dal «cuore» europeo rientra davvero nei nostri interessi nazionali?
La risposta è no, per ragioni pragmatiche prima ancora che per scelte ideali. Anzitutto, non è nel nostro interesse nazionale scivolare politicamente fuori dall’area euro pur restando (almeno nel breve e medio termine) dentro le strutture dell’euro-zona. Sarebbe la ricetta per l’irrilevanza, proprio quando un’Europa fortemente divisa discute scelte importanti per gli anni futuri: dalla struttura del bilancio al completamento dell’Unione bancaria. I famosi vincoli europei resterebbero intatti, così come la nostra fragilità di Paese ad altissimo debito pubblico; e al tempo stesso perderemmo qualunque influenza politica. In particolare verso Francia e Germania, dove a tratti riappare la tentazione di immaginare un «nucleo duro» carolingio, che potrebbe escludere l’Italia (ma probabilmente non la Spagna). Lega e 5 Stelle sembrano avere ormai chiaro che l’uscita dall’euro avrebbe costi insostenibili per il nostro Paese; ne devono però derivare scelte politiche e alleanze coerenti. Flirtare con il gruppo di Visegrad non risolve nessuno, ma proprio nessuno (includendo l’immigrazione), dei nostri problemi. Per evitare uno scenario «Grecia-Plus», responsabilità economica nazionale e tavolo di Bruxelles restano essenziali: alternative realistiche non esistono, specie in una fase in cui la politica di sostegno della Banca centrale europea è destinata gradualmente ad esaurirsi. Se la tenuta dell’Italia costituisce una delle incognite principali per l’insieme dell’eurozona, questo non significa che i nostri conti verranno pagati dall’esterno; significa – con tanti saluti al sovranismo – che finiremmo sotto tutela. O sotto la frusta dei mercati.
Seconda ragione: puntare sull’America di Trump contro la Germania dalla Grosse Koalition è una scommessa, piuttosto che una scelta. Soprattutto perché la politica americana è oggi dominata dall’incertezza (come atout strategica), senza particolari garanzie per gli alleati. La Casa Bianca dell’America-first sembra quasi attratta da una logica del «tanto peggio tanto meglio»: tanto più si spaccano i vecchi assetti multilaterali, tanto meglio sarà per gli Stati Uniti in quanto attori comparativamente più forti. L’Italia, che è al massimo una media potenza, ha poco da guadagnare e qualcosa da perdere: ad esempio, la stretta sul commercio internazionale lede gli interessi di un Paese fortemente esportatore come il nostro, con un notevole surplus nei confronti degli Stati Uniti e una forte interdipendenza con la Germania. Su un piano diverso, la reticenza dei 5 Stelle a contemplare aumenti della spesa militare non renderà più semplici i rapporti con Washington e con la Nato. E Lega e 5 Stelle tenderanno a dividersi, su questo e su altri dossier rilevanti per la relazione con gli Stati Uniti.
Terza ragione: poco credibile è anche la capacità di tenere insieme - in una politica estera giocata appunto sui Grandi lontani invece che sui Grandi vicini – l’alleanza con Trump e l’ammirazione per Putin, come uomo forte (Lega) o come oppositore del vecchio ordine liberale internazionale (5 Stelle). Il clima fra Washington e Mosca non volge verso il bel tempo: per ragioni domestiche (Russiagate) e internazionali (il caso Skripal, gli allineamenti opposti sull’Iran), è difficile che la linea dialogante di Trump (il presidente americano ha proposto a Putin un incontro alla Casa Bianca) possa sortire dei risultati. Un’Italia platealmente filo-russa, in una fase tesa come quella attuale, entrerebbe in collisione sia con l’Ue che con Washington. E con la Gran Bretagna, ispiratrice di una Brexit vista con favore dalla Lega.
Come si vede, i rapporti con le due grandi potenze extra-europee non potrebbero compensare la debolezza a Bruxelles, dove si gioca, per l’Italia, la partita economica decisiva; anzitutto nella relazione con Germania e Francia. È indubbio che l’europeismo tradizionale abbia bisogno di aggiornamenti: poiché l’Europa è un contesto fortemente competitivo, non solo cooperativo, l’Italia deve aumentare in modo sostanziale la capacità di difendere, attraverso la politica europea, anche i propri interessi nazionali. Lo sgretolamento del vecchio «ordine» post-Guerra Fredda apre, assieme a moltissimi rischi, nuovi spazi di azione; e impone anche al nostro Paese una politica estera più dinamica, nel Mediterraneo anzitutto. Per muoversi in questo senso, tuttavia, l’Italia dovrà comunque fare leva su una posizione solida in Europa: questa resta la condizione necessaria, indispensabile, per essere un attore credibile. Illudersi che sponde extra-europee bilancino la nostra fragilità nel Vecchio Continente, non aiuterà.

Corriere 4.4.18
Slogan e realtà
Ma guidare un Paese è difficile
di Sabino Cassese


Le forze politiche che il risultato elettorale ha candidato al governo e che si dichiarano pronte ad amministrare il Paese, sono anche preparate per farlo? Nessuna delle due, la nuova Lega e il M5S, ha avuto precedenti esperienze di governo. Inoltre, la loro rappresentanza parlamentare è composta in larghissima misura di uomini alla loro prima esperienza di politica nazionale: il 73 per cento dei 5S e l’86 per cento dei leghisti non era deputato o senatore nella precedente legislatura.
Tuttavia, se ambedue le forze politiche hanno un numero molto alto di parlamentari alle prime armi, c’è una differenza tra le due. Se il 65 per cento dei 5S non ha avuto precedenti incarichi politici o amministrativi, la percentuale scende al 16 per cento per la Lega, perché questa ha intelligentemente candidato molti amministratori locali: il 58 per cento degli amministratori locali che sono entrati in Parlamento sono stati eletti nelle file della Lega di Salvini.
Inoltre, Lega e M5S si sono avvicinati al governo con proposte di metodo molto diverse. Davide Casaleggio, per i secondi, ha scandito icasticamente il proprio metodo affermando «partecipa, scegli, cambia», uno slogan — ha scritto — che è «garanzia di successo». C’è dietro questa fiduciosa affermazione molta ingenuità, perché lo Stato non è una macchina che si guidi da sola. Le difficoltà del governare sono note a chi le ha sperimentate.
T ra il dire («scegli») e il fare («cambia»), c’è un vasto mare. La drammatica esperienza della gestione della Capitale, dove, dopo quasi un biennio di gestione grillina, non si può neppure dire che si sia innescato un processo di «learning by doing», dovrebbe insegnare qualcosa. Le difficoltà del governare sono certamente aggravate in Italia da troppa legiferazione, pregresse carenze degli apparati esecutivi, eccessiva porosità delle burocrazie. Ma questi inconvenienti si aggiungono a elementi strutturali delle pratiche di governo di ogni Paese.
Anche assicurandosi una durata decennale, nessun governo riesce a cambiare più di un decimo delle norme, pratiche, costumi, tradizioni, culture precedenti: quindi, è costretto a governare con ordinamenti e procedure voluti da altri governi, spesso lontani nel tempo.
In secondo luogo, decisioni prese in una sede (per esempio, al centro) richiedono spesso successivi adattamenti ad altre esigenze (ad esempio, in periferia). Per cui il processo «partecipa, scegli, cambia» va ripetuto, e solleva frequenti conflitti, che vanno a loro volta mediati o risolti (le lezioni della Tav e della Tap dovrebbero aver insegnato qualcosa).
Infine, è per lo meno ingenuo pensare che si governi con atti di mera volizione, con decisioni prese dal popolo, perché questo può essere perplesso, contraddittorio, rappresentare orientamenti che vanno bilanciati o mediati, che frequentemente richiedono aggiustamenti in corso d’opera. La trasformazione in realtà di proposte e decisioni richiede, quindi, una certosina opera di analisi e conoscenza dei problemi, capacità di intendere richieste spesso contrastanti, anche una funzione educativa, di guida, di interpretazione. Insomma, la democrazia è una macchina complicata, nella quale non c’è una sola volontà, né questa cala dall’alto, e nella quale gli strumenti e la loro conoscenza contano.
Un acuto politologo francese, Pierre Birnbaum, in un libro appena uscito per la casa editrice parigina Seuil, dal titolo «Où va l’État?» ha osservato che Macron, pur avendo portato tante innovazioni nella politica francese, ha conservato nelle grandi linee l’apparato statale che ha trovato, ben consapevole delle difficoltà di gestire altrimenti lo Stato.
In Italia, la debolezza delle nuove forze politiche che si candidano alla guida del Paese, e in alcuni casi persino il disprezzo per la macchina di governo e per chi ne fa parte, rischiano — come ha osservato recentemente Yves Meny — di far finire nel nulla la spinta degli elettori per il rinnovamento.

il manifesto 4.4.18
Chiediamoci perché l’egemonia è passata alla destra
di Giuseppe Buondonno


Non credo si debba scomodare l’aggettivo storico per definire il risultato del 4 marzo; anche perché – è la mia impressione – più si nomina la storia e più si fa fatica ad alzare la testa dalla cronaca. In realtà, queste elezioni (viste tanto da sinistra, quanto dallo sguardo poliedrico del paese) stanno dentro un ciclo assai più lungo, esso sì storico.
Ciò non vuol dire che non vi siano stati errori recenti o contingenti; l’elenco sarebbe lungo e, in parte, viene ripetuto da più voci. Ciò che, invece, credo, ci debba impegnare più seriamente è una riflessione sulle ragioni profonde di questi errori; da un certo punto di vista, essi non sono nemmeno rubricabili come tali, semmai mi sembrano più il portato di una coazione a ripetere, il prodotto di una mancata autocritica profonda, sulle ragioni per cui, ad esempio, il Pd non da oggi ha cambiato pelle e sostanza o le grandi forze del socialismo europeo sono divenute impotenti o mere esecutrici delle ristrutturazioni neo liberiste. O, per altro verso, sul perché tutto ciò che sta e stava alla sua sinistra non supera, non da oggi, il milione e mezzo di voti e, soprattutto, non detta, se non in forma sporadicamente difensiva, nulla dell’agenda politica, sociale e culturale del Paese e del continente. Attardarsi sui singoli errori, senza comprendere di quale cultura del cedimento siano figli, serve a poco; così come sono fuorvianti i continui tentativi di palingenesi della sinistra, senza uno sforzo sincero e profondo di comprensione del suo snaturamento e della sua marginalità. Credo – lo dico con rispetto, ma con chiarezza – che, ad esempio, chi ha condiviso o subìto, fino a meno di un anno fa, decisioni e politiche nel Pd, debba riflettere un po’ più a fondo sulle ragioni di quella trasformazione e della stessa propria fuoriuscita. L’autocritica non è un atto formale o espiativo; è uno strumento di analisi e un antidoto – neanche miracoloso – per evitare di riprodurre dinamiche ed errori. Ed è un esercizio che serve a tutta la sinistra europea. E se qualcuno pensa di attardarsi (ancora?!) a vedere cosa accadrà nel Pd, senza pensare, invece, a delineare un profilo autonomo e capace di riaggregare una forza critica, significa che non ne è mai uscito veramente e, davvero, non è un interlocutore utile.
Se LeU, ad esempio, vuole provare a diventare una forza politica, plurale ma unita, capace di avere una identità, un profilo, un progetto di Paese e di continente, se vuole sperare di ricostruire un filo con il popolo italiano e con le classi subalterne, deve ripartire da una discussione seria su dove e perché quel filo si è spezzato; e non è certo solo quando è comparso Renzi. Un congresso? Una fase costituente? Purché sia una discussione vera, non una conta interna per qualche, sempre più improbabile, riposizionamento. Serve ascoltare chi ha votato a sinistra (in qualche caso obtorto collo), ma soprattutto chi ha votato per altri, le sue ragioni, persino le sue liquidità. Perché l’egemonia si ricostruisce non ascoltando sé stessi (i pochi), ma i molti; soprattutto quando non ti riconoscono la loro rappresentanza e, men che meno, lo sforzo del loro impegno. Le riflessioni gramsciane sull’egemonia nacquero dalla domanda su una sconfitta epocale; e quale lo è di più di una situazione in cui, da trent’anni almeno, le uniche operazioni egemoniche vengono da destra?
Per riuscirci serve un partito che, per radicamento, permeabilità sociale e capillarità organizzativa, ricordi i partiti del Novecento; per flessibilità comunicativa, per semplicità nei linguaggi impari dai 5 Stelle (o, per evitare le allergie di qualcuno, da Podemos); non una forza “di governo” (riflesso condizionato di una stagione finita), perché chi governa lo decidono gli elettori; bensì una forza popolare, perché solo quelle radici, tagliate e da ricostruire, danno autonomia, legittimazione e senso ad un governo democratico.
Non è una costruzione facile, né è scontato l’esito; ma è il problema che avevamo prima delle elezioni e che oggi si ripropone con gli interessi e senza più l’alibi della fretta.

Corriere 4.4.18
Dj Fabo, il governo davanti alla Consulta «Resti il reato di istigazione al suicidio»
Ieri la scelta di costituirsi parte civile nel processo. Cappato: «Mossa politica ma noi andiamo avanti»
di Margherita De Bac


ROMA Era l’ultimo giorno per costituirsi davanti alla Corte Costituzionale. E il governo Gentiloni ha rotto gli indugi: difenderà la legittimità del reato di aiuto al suicidio contestato a Marco Cappato, esponente dei Radicali, nell’ambito del processo sulla morte del dj Fabiano Antoniani, in arte Fabo. Lui reagisce con un post su Facebook: «In Corte costituzionale troveremo l’Avvocatura di Stato? Con Filomena Gallo rispettiamo la scelta politica del governo. Noi comunque andiamo avanti. Il Parlamento ora discuta la nostra legge popolare Eutanasia Legale che attende da oltre 4 anni! #LiberiFinoAllaFine ».
Cappato accompagnò dj Fabo in una clinica svizzera dove è morto nel febbraio del 2017 ricorrendo al suicidio assistito, consentito dalla legislazione elvetica e non da noi come tutte le forme di eutanasia. La Corte di Assise di Milano lo scorso febbraio aveva deciso di trasmettere gli atti alla Consulta affinché si esprimesse sull’articolo 580 del codice penale, datato al 1930, che punisce l’istigazione al suicidio. A dare notizia della scelta del governo è stata Filomena Gallo, segretario nazionale dell’associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio di difesa di Cappato che dieci giorni fa aveva promosso un appello sottoscritto da 15 mila cittadini che chiedeva all’esecutivo di non intervenire.
Per la Gallo «è una scelta legittima e pienamente politica. Avrebbero potuto però accogliere il nostro appello. Non cambiamo obiettivo: vogliamo far prevalere contro la lettera del codice penale del 1930 i principi di libertà e autodeterminazione riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalla convenzione europea dei diritti umani». L’associazione di cui fa parte anche Mina Welby, nome storico nella battaglia a favore dell’eutanasia, ribadisce la convinzione che Fabiano Antoniani dovesse ottenere il Italia l’assistenza ricevuta in Svizzera. Hanno chiesto di sostenere la costituzionalità della norma tre associazioni pro life: Movimento per la Vita , Vita è e Centro studi Rosario Livatino .
«La decisione del governo di costituirsi in giudizio davanti alla Consulta è un grave errore, e lo dico da cattolico», commenta Stefano Pedica (Pd): «Chi è costretto a vivere nelle condizioni di Dj Fabo ha il diritto di mettere fine alle proprie sofferenze». Duro anche Nicola Fratoianni (LeU), che definisce l’iniziativa «un atto ipocrita, specie alla luce della legge sul fine vita. La doppia morale è purtroppo tipica di una certa politica del Paese. Avrebbero dovuto rispettare la volontà di Fabo». Welby reagisce: «È un grave passo indietro dell’Italia sul fronte dei diritti. Una persona che si trova nelle condizioni di Fabo deve poter chiedere di andarsene. L’articolo 580 non ha più senso di esistere». Proprio in questi giorni sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale le indicazioni per attuare la legge sul biotestamento, approvata pochi mesi dopo l’addio di Fabo.

Corriere 4.4.18
E Boschi firma il ricorso «Ma tuteliamo chi aiuta i malati terminali»
di Fiorenza Sarzanini


Orlando: «Nessun attacco all’esponente dei Radicali»

ROMA Porta la firma del sottosegretario alla Presidenza Maria Elena Boschi l’atto depositato ieri alla Consulta a nome del governo nel processo per la morte di Dj Fabo. È la costituzione di parte civile che mira a difendere la norma di istigazione al suicidio messa in discussione dalla Corte d’Assise di Milano che sta processando Marco Cappato, ma le indiscrezioni assicurano che siano stati gli esperti giuridici di via Arenula a sollecitare Palazzo Chigi a entrare ufficialmente nel giudizio costituzionale. E infatti proprio da quel ministero ieri si è deciso di chiarire che «certamente non si tratta di un’iniziativa contro Cappato, anzi la scelta effettuata mira a difendere le iniziative di chi aiuta le persone già determinate a porre fine alla propria vita». Il titolare della Giustizia Andrea Orlando avrebbe affrontato la questione nei giorni scorsi con il premier Paolo Gentiloni e alla fine si è deciso di procedere nell’ambito dei poteri concessi al governo per il disbrigo degli affari correnti.
Associazioni «pro vita»
Un affare che però sta provocando polemiche roventi, perché da tempo numerose associazioni e in particolare quella dedicata a Luca Coscioni, si erano appellate al governo affinché rimanesse fuori dalla vicenda. E dunque che compiesse un passo politico schierandosi per la legittimità dell’articolo 580 del codice penale. La norma punisce con la reclusione da cinque a dodici anni «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Una disposizione «superata» per chi da anni si batte per difendere il diritto all’eutanasia e per questo sono state raccolte oltre 15 mila firme proprio per sollecitare Palazzo Chigi a non intromettersi al fine di tutelare «i principi di libertà e autodeterminazione riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani». L’appello a Gentiloni «#ConCappato #stop580» è stato firmato da numerosi intellettuali, professori universitari, ma anche tantissima gente comune. È però evidentemente caduto nel vuoto. Oltre all’avvocatura dello Stato si sono schierate per la permanenza in vigore del reato anche tre associazioni «pro vita» e proprio questo acuisce il livello di critica contro la scelta dell’esecutivo.
I tre motivi
A firmare il ricorso è l’avvocato Gabriella Palmieri che ha agito sulla base di una «determina» firmata dal sottosegretario Boschi a sostegno della normativa in vigore. Sono tre i punti evidenziati nell’atto. Il primo riguarda l’infondatezza della questione sollevata dai giudici milanesi perché, si sottolinea, «l’articolo 580 si inserisce in un quadro sistemico di ragionevolezza e logicità». Il secondo punta sull’inammissibilità evidenziando come «il giudice di merito non ha percorso una strada costituzionalmente orientata». Infine c’è l’irrilevanza della questione «che poteva essere risolta senza far intervenire la Consulta». Il governo si costituisce — questa è la spiegazione fornita dal ministero della Giustizia — «per evitare che la dichiarazione di incostituzionalità secca dell’articolo 580 potrebbe lasciare impunite condotte che nulla hanno a che fare con la tematica del rispetto delle volontà dei malati terminali». La spiegazione che viene fornita prende ad esempio le «condotte di chi istiga i ragazzi o comunque i soggetti deboli a compiere azioni che possono provocarne la morte, ad esempio con giochi spericolati o via web». Una posizione che però non basta a placare le polemiche anche tenendo conto che l’istigazione al suicidio è uno dei reati più difficili da dimostrare.

Repubblica 4.4.18
Il governo e la legge
Sul suicidio nessuna confusione
di Chiara Saraceno


Istigare” al suicidio e “aiutare” chi, gravemente malato, vuole fortemente porre fine alle proprie sofferenze considerando la propria vita ormai intollerabile, non sono la stessa cosa. Il primo è un comportamento odioso, violento, da prevenire e punire, tanto più quando è esplicito, intenzionale, e non l’esito di atti di bullismo stupidi e cattivi, ma che non miravano a far suicidare la vittima. Il secondo è un atto di amicizia e amore, una forma di accompagnamento all’atto ultimo di libertà di una persona che si rispetta, di cui si accettano le decisioni anche quando non le si condividono, prendendosi pure la responsabilità di fare in modo che si compiano secondo le intenzioni di chi, appunto, vuole porre fine alla propria vita ma non può farlo da solo a motivo proprio delle condizioni che gli hanno reso intollerabile vivere. Riguarda chi fornisce le informazioni necessarie, accompagna nei luoghi in cui si aiuta a morire, aiuta nelle diverse fasi la persona non più in grado di fare da sé, standole vicino fino all’ultimo, non lasciandola sola.
È comprensibile che il governo italiano voglia evitare che venga dichiarata incostituzionale la norma che punisce l’istigazione al suicidio, una norma che esiste in molti Paesi e che è posta a difesa di soggetti vulnerabili.
La formulazione dell’articolo 580 del Codice penale messa in discussione dal ricorso del Tribunale di Milano, tuttavia, non si limita a condannare l’istigazione. Condanna esplicitamente anche l’aiuto. Definisce, infatti, punibile «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Non va, inoltre, dimenticato che troppo a lungo, e con molta mala fede, anche da parte di esponenti politici e da maggioranze parlamentari (che sono tornate) si è fatta confusione tra interruzione delle cure, omicidio, aiuto al suicidio e istigazione al suicidio (si pensi al caso Englaro). È quindi comprensibile che chi si è battuto a lungo perché venisse legittimato il diritto a sospendere le cure e ora si batte perché sia consentito il suicidio assistito, si preoccupi della costituzione in giudizio davanti alla Corte costituzionale da parte dello Stato in difesa di quella norma, dove istigazione e aiuto sembrano confusi.
Se il governo vuole davvero limitare la punibilità alla istigazione, l’Avvocatura dello Stato dovrà essere chiara nella sua argomentazione difensiva. E la Corte costituzionale, sia che dichiari l’intero articolo incostituzionale sia che opti per una cosiddetta sentenza interpretativa, dovrà chiarire in modo rigoroso che altro è istigare al suicidio tramite l’uso violento del disprezzo, dell’insulto, della persecuzione quotidiana, altro accompagnare amorevolmente e con rispetto chi, malato e non in grado di dare corso alla propria volontà, decide di porre fine alla propria vita. Anche, se necessario, aiutandolo fino in fondo.

La Repubbliica 4.4.18
Carlo I d’Inghilterra
Il re che a tutti i costi volle il suo Mantegna
di Francesca Cappelletti


Se l’immagine del sovrano fosse veramente da ricercare negli spazi più selezionati della sua raccolta, come scrivevano i trattatisti italiani nel Seicento, il ritratto di Carlo I, il re d’Inghilterra mandato al patibolo dal suo parlamento nel 1649, sarebbe davvero quello di un amante della pittura italiana del Rinascimento.
Nella sua collezione, in gran parte esposta nelle sale e gallerie del palazzo di Whitehall, trionfavano i quadri di Tiziano e Correggio, mentre l’eccezionale serie dei Trionfi di Mantegna era probabilmente collocata nel palazzo di Hampton Court già alla fine del 1630, poco dopo l’avventuroso arrivo in Inghilterra. Nel cuore degli appartamenti reali trovava posto il più italiano degli ambienti, una stanza riservata, il cui allestimento con piccole sculture, medaglie e dipinti di piccole dimensioni, libri e oggetti rari sembra ricalcare il modello dello studiolo umanistico.
Anche in assenza di piante e progetti architettonici, nel catalogo della bella mostra che alla Royal Academy di Londra è dedicata al sovrano (Charles I King and Collector, fino al 15 aprile, a cura di Per Rumberg e David Shawe-Taylor) l’idea è stata attribuita a Inigo Jones, l’architetto che nel 1613 si recò in Italia e soggiornò a Roma. Nel cabinet si trovavano la Morte della Vergine di Andrea Mantegna, oggi al Prado, il San Giorgio e il drago di Raffaello, ora alla National Gallery di Washington, il San Giovannino di Leonardo da Vinci adesso al Louvre, insieme a dipinti di dimensioni ancora più piccole, concepiti per essere esposti in luoghi di ravvicinata contemplazione o a decorare preziosi scrigni, come la singolarissima Strega di Adam Elsheimer o un Paesaggio di Paul Bril di incantevole trasparenza atmosferica, entrambi ancora nelle collezioni della regina. Un tratto specifico di questo ambiente era la presenza di miniature, un genere che conosce una grande fortuna nell’Inghilterra di questo periodo, grazie a artisti come Peter Oliver, Nicholas Hilliard, Edward Norgate, protetti anche da Arundel, non solo abili ritrattisti ma anche copisti, per il sovrano, delle opere più importanti nella sua collezione. Carlo I amava tenere sempre vicini le immagini di Venere addormentata, di Venere Mercurio e Amore, i dipinti di Correggio provenienti da Mantova.
Lord Arundel e Lord Buckingham, consigliere del giovane Carlo I, furono i primi grandi collezionisti appassionati di arte italiana in Inghilterra e, per quanto riguarda Arundel, anche i grandi estimatori dei moderni ritrattisti nordici, da Rubens a van Dyck. I due pittori, nonostante il re rimanga più interessato agli artisti del secolo precedente, sono i protagonisti a corte, non solo per il ritratto.
La biografia di Carlo I si snoda fra viaggi di Stato e passioni artistiche, fra difficili scelte politiche e colpi di fulmine per opere e oggetti del passato: è alla corte di Madrid, dove trascorre qualche mese nel 1623, che il futuro re scopre Tiziano e l’arte italiana. La corte di Madrid si rivela fondamentale, qui Carlo acquisisce i primi dipinti di Tiziano e si appassiona ai grandi pittori del Rinascimento. Tornato in patria e una volta sposata, nel 1625, Henrietta Maria, Carlo commissiona a suoi emissari in Italia l’acquisto di opere, senza entrare nel merito della scelta dei singoli pezzi. Nicholas Lanier, musicista di corte inviato in Italia nel 1625, è introdotto alle collezioni Gonzaga dal mercante fiammingo Daniel Nijs,che faceva base a Venezia. Fra il 1626 e il 1627, Nijs, approfittando della crisi del ducato, della morte improvvisa di Ferdinando II, committente attento e certamente poco incline a svendere le collezioni familiari, riesce nell’impresa di trasportare in Inghilterra alcuni dei capolavori provenienti dai camerini, come le allegorie di Correggio. In questi primi contratti e dolorose alienazioni non erano certo compresi i Trionfi di Mantegna. Le nove tele, eseguite fra gli ultimi decenni del ’400 e il 1506, rappresentanti il Trionfo di Cesare con il ricorso a un vasto repertorio di fonti letterarie e iconografiche e forse anche al dibattito erudito sul ruolo di Cesare nel passaggio dalla repubblica all’impero romano, avevano un elevato significato dinastico alla corte mantovana.
Significato che si attutisce con le vicissitudini del ducato: anche Vincenzo II muore all’improvviso, a Natale del 1627, e Carlo Gonzaga Nevers, del ramo francese della famiglia, diventa un interlocutore decisamente più arrendevole per Nijs, che riesce a includere in un secondo, incredibile lotto di opere, molti pezzi antichi e i capolavori di Mantegna.
Dopo l’esecuzione di Carlo I, i suoi beni vennero venduti in una colossale asta nota come il Commonwealth Sale, dalla quale si apprendono, a volte con sorpresa, le quotazioni assegnate ai capolavori raccolti dal re: le miniature erano senz’altro stimate in maniera superlativa, non troppo lontane dalle valutazioni ricevute dagli originali ai quali si ispiravano. Attraverso quella vendita, molte opere raggiunsero altre corti, spesso di parenti del re appena decapitato, dopo qualche rapida esitazione, acquistarono di buon grado le preziose spoglie di quel ventennale regno. Arrivarono così a Parigi molti dei capolavori eseguiti per i Gonzaga, insieme a opere come la Morte della Vergine di Caravaggio, che Rubens aveva fatto acquistare a Roma e che Nijs aveva condotto a Londra. Solo i Trionfi, valutati una cifra astronomica, rimasero a Hampton Court, considerati, come i cartoni di Raffaello, non espressione personale del gusto raffinato ed europeo di un sovrano assoluto, ma proprietà inalienabile dello Stato.

Il Fatto 3.4.18
Magia di Awa Ly: canta nel mondo. E l’Italia non lo sa
Di origini franco-senegalesi, da anni vive a Roma: a Parigi e in Giappone è una celebrità, ma nel nostro Paese neanche esce il disco
di Stefano Mannucci


La portò con sé nel tour mondiale del 2013 e cercò di introdurla ai misteri della “parlesia”, il criptico gergo con cui i musicisti napoletani si scambiano informazioni segrete. “Pino Daniele dialogava così con Tullio De Piscopo”, ricorda Awa Ly con nostalgia, “e decisero di farmi diventare loro complice”. Nessun problema, Awa è poliglotta per natura e vocazione: culla a Parigi da una famiglia di origine senegalese, studi in economia in terra d’America, cuore e indirizzo a Roma. “Sono arrivata qui all’inizio del millennio, dovevo restare sei mesi. Non me ne sono più andata”. Se non per viaggiare. Awa è appena tornata da una tournée in Francia e ha già le valigie pronte per concerti tra Germania e Austria. In Giappone sono pazzi di lei: un suo album-progetto di standard francesi (Chantons! Paris Jazz) tra Piaf, Bécaud, Aznavour, Montand ma realizzato con musicisti capitolini, è andato a ruba. E da noi? Nel giro dei club romani Awa è ben conosciuta e amata, e anche nel resto d’Italia questa fenomenale chanteuse ha un pubblico non esiguo. Perfino i nostri registi si sono accorti di lei: Luchetti l’ha fatta recitare in La nostra vita, Massimiliano Bruno l’ha voluta per Nessuno mi può giudicare, Castellitto le ha fatto vestire i panni di una suora in Fortunata, mentre Ozpetek ha scelto suoi brani per la colonna sonora di Allacciate le cinture. E i discografici? Incapaci di fare scouting al di fuori dei talent, hanno ignorato il suo ultimo magnifico album, Five and a Feather. Per i cervelloni dell’industria musicale tricolore, è l’ennesima occasione perduta per sprovincializzare uno scenario deprimente. Eppure basterebbe farsi un giro su Spotify o sulle piattaforme digitali per valutare una come Awa Ly: o farsi una gita oltre confine, dove le regine del folk-soul-world fanno il sold out. Nomi come l’intrigante Mariama (della Sierra Leone) o Imany, voce di velluto delle Comore, e naturalmente la maliana Rokia Traoré o la marocchina Hindi Zahra riempiono l’Europa di bellezza, altro che esotismi di nicchia. Per non dire, tra gli uomini, di quella sorta di Bob Marley senegalese di Faada Freddy: cantando in wolof, compare anche nel disco di Awa per un duetto struggente su Here, il brano ispirato dal naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Morirono 368 migranti. “Non è accettabile che il luogo dove nasci sancisca un pieno diritto alla vita. È atroce dover attraversare deserti e mari per sperare in un altro destino. Dopo la pubblicazione del mio duetto con Faada Freddy la canzone ha causato un effetto domino: altri interpreti hanno voluto offrire contributi ciascuno nella propria lingua, dalla Tunisia al Benin, dal Brasile all’Argentina, Guadalupe, Croazia. E l’Italia, con Roberto Angelini”, spiega Awa Ly. Five and a Feather nasce da un sogno. “Una sciamana mi raccontava storie, e alla fine è svenuta. Storie con il numero magico del cinque: quello dei continenti, gli oceani, le righe del pentagramma, le dita. Quel che serve per esplorare il mondo. E la musica”.