lunedì 9 aprile 2018

La Stampa TuttoLibri 7.6.18
1947, cronaca dell’anno straordinario che cambiò il destino del popolo ebraico
Mentre l’Onu approva a maggioranza la nascita di due Stati in Palestina la politica, la vita quotidiana, le invenzioni s’intrecciano in un puzzle narrativo
di Elena Loewenthal


In fondo, la storia – che sia con la maiuscola o senza – è fatta proprio di quella pasta che Elisabeth Asbrink, scrittrice e giornalista svedese di cui Alessandro Borino ha appena tradotto l’ultimo libro, 1947, per Iperborea, maneggia con estro: un pendolo di piccole vicende personali ed eventi epocali che a volte sono lontanissimi fra loro e altre volte si incrociano.
1947 è un libro difficile da definire: a seguire passo dopo passo, alcune delle narrazioni vien da pensare che sia una specie di romanzo a puntate. Anzi, una serie di romanzi, di storie parallele. Ma in altri punti il libro assomiglia a un mémoir personale, è come se qui l’autrice avesse raccolto i tasselli della vicenda del padre ungherese, e stesse facendo ordine.
Però non è tutto qui, perché 1947 è anche un libro di storia con la maiuscola, che riesce a portare il lettore dentro lo spirito del tempo di cui il titolo porta la data. «Il tempo è asimmetrico», scrive l’autrice, e qui il tempo di quell’anno è sezionato mese per mese, e dentro ogni mese ci sono luoghi, persone, momenti e avvenimenti apparentemente sconnessi fra di loro. A volte l’apparenza inganna il lettore, a volte dice il vero perché gli accadimenti e l’umanità che ne è coinvolta restano sospesi in un magma di tempo e spazio.
Asbrink fa una sorta di autopsia di un anno molto particolare: la guerra è appena finita, gli scenari politici, così come l’Europa, sono tutti da ricostruire. Non è proprio l’indomani della fine della guerra, è un tempo un poco più avanti, dove si pretenderebbe di aver già conquistato un pezzo di normalità. È davvero interessante questa specificità del 1947, che fra le pagine del libro diventa una specie di emblema di tutto il nostro tempo, sospeso fra eventi «epocali» e monotonia, fra necessità di fare delle scelte e desiderio di isolamento. Come quello di George Orwell, alias Eirc Arthur Blair, che «in una fredda e luminosa giornata d’aprile», quando «l’orologio batte le tredici», «sbarca sull’isola scozzese di Jura insieme al figlio adottivo di tre anni Richard e a nient’altro». Il lettore incontrerà ancora Orwell, seguirà di mese in mese la costruzione del suo pensiero politico. Incontrerà molti altri personaggi della storia – con la maiuscola o senza: da Primo Levi a Billie Holiday, dal Gran Muftì di Gerusalemme che fu uno fra i più grandi fan e collaboratori di Hitler a Lord Mountbatten sulle ceneri dell’mpero coloniale britannico, da Simone De Beauvoir a Raphael Lemkin che dedicò quegli anni alla definizione di «genocidio», al piccolo Jozsef, orfano e vagabondo di guerra e padre dell’autrice.
Ma sono davvero tanti di più, i protagonisti di questa storia: nessuno è soltanto una comparsa. Tutti sono necessari, così come lo è la vastità di un panorama geografico che va da Malmo e Gerusalemme, dal Cairo a Parigi a Monaco di Baviera a Budapest. A dire il vero c’è una sorta di fil rouge che è al centro della narrazione e che potremmo definire con un certo margine di approssimazione il «destino ebraico» dopo la guerra e la Shoah.
Il 1947 è in questa prospettiva un anno talmente «epocale» che per trovarne uno analogo, benché di segno opposto, bisogna tornare indietro sino al 70 d.C., quando l’imperatore Tito conquista definitivamente Gerusalemme e distrugge il Tempio. Quasi duemila anni dopo, il 27 settembre del 1947, una risoluzione delle Nazioni Unite approvata a maggioranza sancisce in quella regione rimasta per trent’anni sotto un Mandato Britannico che sarebbe durato meno se non fosse arrivata la Seconda Guerra Mondiale la nascita di due stati palestinesi: uno arabo e uno ebraico. Per i figli d’Israele è la fine dell’esilio, e quella data conta forse più del giorno dell’Indipendenza in cui il 14 maggio del 1948 Ben Gurion dichiara lo stato ebraico.
Asbrink ripercorre la vicenda ebraica in quell’anno cruciale che dà il titolo al suo libro, in bilico fra l’ombra della Shoah, i campi di raccolta per i profughi, l’immigrazione clandestina – dopo la guerra la Gran Bretagna di fatto proibì agli ebrei di approdare in Palestina – il faticoso ritorno alla vita. Ma, pur nella centralità di questa vicenda, l’autrice tiene costantemente presente l’affresco di quel tempo, ed è questa prospettiva ampia nel tempo e nello spazio ad affascinare il lettore. Perché è davvero un’opera di grande respiro che parla di tutti noi, dell’Europa e del mondo che le sta intorno: e non si tratta soltanto della curiosità che prende di fronte a un libro dal genere letterario così originale e inafferrabile. Perché fra queste pagine la cronaca storica è così avvincente che coinvolge malgrado la distanza, e soprattutto ci dà le misure della nostra identità di oggi, qualunque essa sia.