La Stampa 9.6.18
Monet, l’angoscia oltre il giardino
Guardando
i suoi quadri attraverso le architetture dipinte, si scopre un artista
afflitto dalla modernità che ne sconvolge il mondo ideale. Mostra a
Londra
di Caterina Soffici
La meraviglia dei
colori. La seduzione delle pittura, il talento allo stato puro. La luce,
l’aria. C’è tutto quello che uno si aspetta ma anche molto altro. Solo
grandi istituzioni come la National Gallery possono produrre mostre di
questo livello, riuscendo a unire l’evento blockbuster con una curatela
scientifica alta e rigorosa. «Monet & Architecture» (da oggi al
28 luglio), un titolo asciutto e diretto: Monet è il blockbuster,
l’architettura è l’inedito e originale sguardo al quale Richard Thomson,
professore all’Università di Edimburgo, e la sua squadra hanno lavorato
per quasi quattro anni. Il risultato sono 77 opere, 19 delle quali
proveniente da collezioni private e alcune mai mostrate prima in
pubblico (tra cui una Chiesa di Véthevil del 1878 e una veduta di
Antîbes del 1888 e altre che con pazienza e mezzi potenti sono state
rintracciate dal team della National).
Quante volte abbiamo visto
Monet? Decine, centinaia, migliaia. È il pittore dei giardini, delle
ninfee, delle colazioni sull’erba, dei paesaggi. «Alcune immagini sono
ormai parte della nostra memoria collettiva» sottolinea giustamente
Gabriele Finaldi, direttore della National. «È un artista che pensiamo
di conoscere così bene e invece, se guardiamo le sue opere attraverso
l’architettura e gli edifici che dipinge, ne abbiamo una lettura
completamente nuova» spiega Richard Thomson.
Sette sale, in
crescendo. Tre aree tematiche. Si inizia con le visioni pittoresche di
chiese gotiche e le pietre della Francia medievale, i paesaggi di
Normandia, Olanda e la costa mediterranea francese fino a Bordighera e
Dolceacqua. Si passa poi all’esplorazione della città e della modernità
per finire con l’esplosione delle due sale finali dedicate alla
cattedrale di Rouen (ben 5 sulle 30 in totale che ha dipinto), otto
paesaggi di Londra e nove vedute di Venezia.
«Monet è solo un
occhio, ma mio Dio che occhio» scrisse Paul Cézanne. Non è propriamente
vero. A prima vista infatti tutto sembra passare attraverso l’occhio. Se
attraversate velocemente le sette sale, quello che risalta è il Monet
dell’aria e della luce che siamo abituati a vedere. C’è anche questo,
ovviamente. Gli edifici non fanno altro che esaltare l’aria e la luce,
come per esempio accade nelle varie vedute della cattedrale di Rouen,
che cambia colore a seconda dell’ora del giorno e del clima: lo stesso
soggetto in viola, rosa, azzurro, giallo. Questa è la parte che piace
all’occhio. Ripassate le sale in cerca dei particolari e la seconda
lettura è qualcosa di assolutamente nuovo: più che la visione
rivoluzionaria e modernista che in genere si associa all’estetica
dell’Impressionismo dalla mostra del 1874 in poi, qui c’è l’angoscia
della modernità che arriva a devastare un mondo borghese e bucolico nel
quale invece Monet sembra indugiare.
Nelle prime sale, quelle
delle visioni pittoresche e dei potenti paesaggi delle scogliere
normanne, si indugia nel passato attraverso i vecchi edifici che si
ergono come baluardi contro l’incombere dell’industrializzazione. Le
rovine, le chiede medievali, i vecchi edifici sono la barriera contro la
brutalità del moderno che avanza. Due quadri in particolare mostrano
l’orrore di Monet per quello che prevede: il Boulevard des Capucines a
Parigi (1873) dove la moltitudine di passanti si impasta in una macchia
di colore che mette ansia e crea un senso di agorafobia e di
disumanizzazione. E Les Déchargeurs de charbon (1875) dove le sagome dei
carbonai si muovono come automi con lo sfondo di un ponte industriale,
grigio e angosciante. Vetro e acciaio alla stazione di Saint-Lazare, e
le nebbie che avvolgono i ponti sul Tamigi e il Parlamento di
Westminster.
Non c’è la celebrazione della città e del progresso,
ma anzi la ricerca di un rifugio nelle pietre dei palazzi del lungomare
di Trouville o nella facciata senza tempo di Rouen e ancora di più
nell’ultima sala, quella veneziana. Nelle vedute di Palazzo dei Dogi,
Canal Grande, San Giorgio non ci sono presenze umane. Le gondole
sembrano guidate da fantasmi, la città sembra disabitata, un’aria
spettrale aleggia nelle tele togliendo l’aria da cartolina e aggiungendo
un mistero che si riflette sull’acqua attraverso le masse indefinite
dei palazzi. Anche qui la luce cambia secondo l’ora e la meteorologia,
ma la pietre rimangono nei secoli.
Il successo di pubblico per una
mostra del genere è assicurato e sulla stampa britannica è già arrivata
la prima polemica, legata al prezzo del biglietto, 22 sterline (circa
25 euro), giudicato eccessivo da alcuni esponenti politici. Una polemica
destinata a sgonfiarsi velocemente se si considerano i costi di un
evento del genere, con opere da milioni di dollari in arrivo da tutto il
mondo (che la generosa sponsorizzazione del Credit Suisse non può certo
coprire) e il fatto che a Londra 22 sterline bastano appena per un
cinema, una Coca e un barattolo di popcorn il sabato sera.