lunedì 9 aprile 2018

La Stampa 9.6.18
Monet, l’angoscia oltre il giardino
Guardando i suoi quadri attraverso le architetture dipinte, si scopre un artista afflitto dalla modernità che ne sconvolge il mondo ideale. Mostra a Londra
di Caterina Soffici


La meraviglia dei colori. La seduzione delle pittura, il talento allo stato puro. La luce, l’aria. C’è tutto quello che uno si aspetta ma anche molto altro. Solo grandi istituzioni come la National Gallery possono produrre mostre di questo livello, riuscendo a unire l’evento blockbuster con una curatela scientifica alta e rigorosa. «Monet & Architecture» (da oggi al 28 luglio), un titolo asciutto e diretto: Monet è il blockbuster, l’architettura è l’inedito e originale sguardo al quale Richard Thomson, professore all’Università di Edimburgo, e la sua squadra hanno lavorato per quasi quattro anni. Il risultato sono 77 opere, 19 delle quali proveniente da collezioni private e alcune mai mostrate prima in pubblico (tra cui una Chiesa di Véthevil del 1878 e una veduta di Antîbes del 1888 e altre che con pazienza e mezzi potenti sono state rintracciate dal team della National).
Quante volte abbiamo visto Monet? Decine, centinaia, migliaia. È il pittore dei giardini, delle ninfee, delle colazioni sull’erba, dei paesaggi. «Alcune immagini sono ormai parte della nostra memoria collettiva» sottolinea giustamente Gabriele Finaldi, direttore della National. «È un artista che pensiamo di conoscere così bene e invece, se guardiamo le sue opere attraverso l’architettura e gli edifici che dipinge, ne abbiamo una lettura completamente nuova» spiega Richard Thomson.
Sette sale, in crescendo. Tre aree tematiche. Si inizia con le visioni pittoresche di chiese gotiche e le pietre della Francia medievale, i paesaggi di Normandia, Olanda e la costa mediterranea francese fino a Bordighera e Dolceacqua. Si passa poi all’esplorazione della città e della modernità per finire con l’esplosione delle due sale finali dedicate alla cattedrale di Rouen (ben 5 sulle 30 in totale che ha dipinto), otto paesaggi di Londra e nove vedute di Venezia.
«Monet è solo un occhio, ma mio Dio che occhio» scrisse Paul Cézanne. Non è propriamente vero. A prima vista infatti tutto sembra passare attraverso l’occhio. Se attraversate velocemente le sette sale, quello che risalta è il Monet dell’aria e della luce che siamo abituati a vedere. C’è anche questo, ovviamente. Gli edifici non fanno altro che esaltare l’aria e la luce, come per esempio accade nelle varie vedute della cattedrale di Rouen, che cambia colore a seconda dell’ora del giorno e del clima: lo stesso soggetto in viola, rosa, azzurro, giallo. Questa è la parte che piace all’occhio. Ripassate le sale in cerca dei particolari e la seconda lettura è qualcosa di assolutamente nuovo: più che la visione rivoluzionaria e modernista che in genere si associa all’estetica dell’Impressionismo dalla mostra del 1874 in poi, qui c’è l’angoscia della modernità che arriva a devastare un mondo borghese e bucolico nel quale invece Monet sembra indugiare.
Nelle prime sale, quelle delle visioni pittoresche e dei potenti paesaggi delle scogliere normanne, si indugia nel passato attraverso i vecchi edifici che si ergono come baluardi contro l’incombere dell’industrializzazione. Le rovine, le chiede medievali, i vecchi edifici sono la barriera contro la brutalità del moderno che avanza. Due quadri in particolare mostrano l’orrore di Monet per quello che prevede: il Boulevard des Capucines a Parigi (1873) dove la moltitudine di passanti si impasta in una macchia di colore che mette ansia e crea un senso di agorafobia e di disumanizzazione. E Les Déchargeurs de charbon (1875) dove le sagome dei carbonai si muovono come automi con lo sfondo di un ponte industriale, grigio e angosciante. Vetro e acciaio alla stazione di Saint-Lazare, e le nebbie che avvolgono i ponti sul Tamigi e il Parlamento di Westminster.
Non c’è la celebrazione della città e del progresso, ma anzi la ricerca di un rifugio nelle pietre dei palazzi del lungomare di Trouville o nella facciata senza tempo di Rouen e ancora di più nell’ultima sala, quella veneziana. Nelle vedute di Palazzo dei Dogi, Canal Grande, San Giorgio non ci sono presenze umane. Le gondole sembrano guidate da fantasmi, la città sembra disabitata, un’aria spettrale aleggia nelle tele togliendo l’aria da cartolina e aggiungendo un mistero che si riflette sull’acqua attraverso le masse indefinite dei palazzi. Anche qui la luce cambia secondo l’ora e la meteorologia, ma la pietre rimangono nei secoli.
Il successo di pubblico per una mostra del genere è assicurato e sulla stampa britannica è già arrivata la prima polemica, legata al prezzo del biglietto, 22 sterline (circa 25 euro), giudicato eccessivo da alcuni esponenti politici. Una polemica destinata a sgonfiarsi velocemente se si considerano i costi di un evento del genere, con opere da milioni di dollari in arrivo da tutto il mondo (che la generosa sponsorizzazione del Credit Suisse non può certo coprire) e il fatto che a Londra 22 sterline bastano appena per un cinema, una Coca e un barattolo di popcorn il sabato sera.