lunedì 9 aprile 2018

internazionale 8.4.18
La settimana
Propaganda

Giovanni De Mauro

“Era surreale trovarsi in mezzo ai manifestanti palestinesi, uomini, donne e bambini che mangiavano gelati, chiacchieravano o raccoglievano fagioli nei campi mentre un messaggio dell’esercito israeliano parlava di ‘17.000 rivoltosi palestinesi’”. Piotr Smolar, del quotidiano francese Le Monde, era tra i pochi giornalisti presenti nella Striscia di Gaza il 30 marzo, quando soldati e cecchini israeliani hanno sparato sulla folla, uccidendo diciassette palestinesi e ferendone centinaia. Tranne qualche isolato lancio di pietre, alcuni copertoni bruciati e due uomini armati (subito uccisi), i trentamila palestinesi hanno manifestato in modo pacifico senza rappresentare mai un pericolo immediato per i soldati di guardia alla barriera tra la Striscia e Israele, uno dei confini più militarizzati del mondo. Ma l’esercito ha usato Twitter come strumento di propaganda, raccontando in ebraico, in inglese e in francese la sua versione dei fatti, e con WhatsApp ha mandato comunicati ufficiali a corrispondenti stranieri e giornalisti israeliani. Il risultato è che molti hanno parlato di “battaglia violenta” e di “durissimi scontri”, come se i palestinesi avessero attaccato i soldati israeliani o fossero stati comunque una minaccia. La manifestazione del 30 marzo nasceva soprattutto per protestare contro le terribili condizioni di Gaza, dove quasi due milioni di palestinesi (di cui due terzi profughi o loro discendenti originari di villaggi che oggi sono israeliani) vivono da undici anni in una prigione a cielo aperto, senza elettricità per venti ore al giorno, con il sistema idrico e sanitario al collasso, i medicinali distribuiti ogni tre mesi, la disoccupazione al 40 per cento, l’economia in ginocchio. Una situazione dovuta all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, al blocco imposto da Israele ed Egitto, al braccio di ferro tra Hamas e Olp: una catastrofe umanitaria i cui responsabili sono altri esseri umani.


internazionale 8.4.18
Parole
Domenico Starnone
La terra di nessuno


Si è discusso un pochino di centro, sui giornali. È sparito il centro? O s’è dilatato fino a coincidere con l’intero spazio politico? Se stiamo alle etichette – centrodestra e centrosinistra – la scomparsa del centro dovrebbe aver lasciato solo destra e sinistra. Al contrario la sua ipertrofia dovrebbe attestare che il centro del centrodestra s’è mangiato la destra, e il centro del centrosinistra s’è mangiato la sinistra. Nessuna delle due ipotesi però sembra del tutto esauriente. Di sicuro qualcosa alle due etichette è successo. Centrosinistra e centrodestra sono serviti nei decenni, in fasi distanti, a farci credere che ogni possibile politica era definitivamente chiusa dentro il cerchio del sistema vigente e che il centro di quel cerchio era una terra di nessuno dove l’inconciliabile si poteva sempre conciliare. Se destra e sinistra restavano due modi antitetici di guardare al destino del genere umano, nel momento in cui esse appiccicavano a sé stesse un centro, ecco che gli spigoli si smussavano. Centro è stata la parolina che ha permesso ai due poli di questionare patteggiando e intanto mescolarsi. Ma ora? Sicuramente la destra non ha più bisogno di un centro, dilaga sempre più come destra e basta. Quanto alla sinistra, ha perso anche gli occhi per accorgersi che, proprio mentre il centro non ha più fondamento, lei sa fare solo il centro del centrosinistra.

internazionale 8.4.18
Ripensare il lavoro del futuro

The Guardian, Regno Unito

Qualche anno fa Marc Andreessen, un programmatore che ha fatto fortuna con uno dei primi browser, aveva predetto che il mondo si sarebbe presto diviso tra quelli che dicono ai computer cosa fare e quelli a cui i computer dicono cosa fare. Un recente studio dell’Ocse secondo cui nei paesi industrializzati solo un posto di lavoro su sei sarà cancellato dall’automazione è stato considerato una buona notizia rispetto alle previsioni che parlavano di un posto su due. Ma si tratta comunque di un’enorme trasformazione sociale. Molti dei nuovi lavori sono peggiori e meno gratificanti di quelli che scompaiono, in parte perché le persone finiscono alla base di una gerarchia dominata dai programmatori e dai software, come aveva previsto Andreessen. Ma questi impieghi hanno anche altri svantaggi: sono meno stabili e meno pagati, e questo non dipende dalla tecnologia ma dalle scelte politiche. L’Ocse fonda le sue conclusioni sull’idea che le competenze basate sulle interazioni sociali saranno difficili da rimpiazzare. Ma questo ottimismo potrebbe essere ingiustificato. I computer stanno diventando sempre più bravi ad analizzare suoni e immagini. Inoltre, mentre le macchine fanno sempre di più, gli utenti imparano ad aspettarsi sempre di meno. I servizi di relazione col pubblico sono sempre più automatizzati, e chi lavora nelle pubbliche relazioni è sempre più irreggimentato, al punto che nella burocrazia moderna non è molto diverso avere a che fare con una persona o con una macchina. I servitori umani diventeranno uno status symbol, ma questo non è certo un futuro desiderabile. Per un futuro più equo non basteranno i corsi di formazione e aggiornamento. Servirà un modello politico ed economico in cui nessuno viene considerato inutile e messo da parte.

internazionale 8.4.18
Stati Uniti
La lotta degli insegnanti


“A Oklahoma City la temperatura è vicina allo zero e Deanna Ferland corre sul posto per scaldarsi. Con lei ci sono altri insegnanti della scuola elementare green Pastures. Si sono accampati davanti alla sede del governo statale. ‘Resterò qui per tutto il tempo necessario’, dice Ferland”. Il 2 marzo, racconta l’Oklahoman, migliaia di insegnanti sono scesi in piazza per chiedere un aumento di stipendio e lo stanziamento di nuovi fondi per le scuole pubbliche. “Nella mia classe non abbiamo nemmeno un libro di testo, per non parlare dei computer. Faccio tutto da sola, pagando di tasca mia”, racconta Ferland. In Oklahoma i fondi per l’istruzione si sono ridotti quasi del 30 per cento in dieci anni.
“Ci sono state proteste simili in Kentucky, dove gli insegnanti chiedono più fondi e si oppongono a una riforma, approvata dal parlamento statale, che impone una serie di tagli ai loro piani pensionistici”, scrive il Lexington Herald Leader. Queste proteste avvengono sulla scia della vittoria degli insegnanti del West Virginia, che a inizio marzo hanno ottenuto un aumento del 5 per cento dopo nove giorni di sciopero. negli Stati Uniti non si vedevano da anni proteste dei lavoratori così partecipate. Il risveglio del sindacato è partito da stati che, oltre a essere tra i più poveri del paese, sono anche quelli in cui la destra governa da più tempo. “I prossimi insegnanti a scendere in piazza potrebbero essere quelli dell’Arizona”, scrive Bloomberg. “Gli scioperi dimostrano che gli insegnanti non sono preoccupati solo per i loro stipendi”, dice Joy Hofmeister, funzionario scolastico, all’Oklahoman. “vogliamo riaffermare l’importanza delle scuole pubbliche”. Gli insegnanti che manifestano sperano che i politici locali, che a novembre cercheranno la rielezione, sentano la pressione e accolgano le loro richieste.

internazionale 8.4.18
Cina

L’ostacolo invisibile
Cai Yiwen, Sixth Tone, Cina.
In Cina ci sono dieci milioni di bambini dislessici, ma la difficoltà di apprendimento non è riconosciuta dal sistema dell’istruzione. Una scuola speciale cerca di aiutarli

In un’aula del Centro Weining per la dislessia, nel sud della Cina, bambini di dieci anni afferrano
allegramente le loro penne colorate e cominciano a evidenziare i segni di una serie di caratteri cinesi. È uno dei tanti esercizi ideati per aiutarli a superare la dislessia. Nell’aula sono circondati da coetanei con lo stesso problema, ma fuori sono spesso considerati pessimi studenti e gli insegnanti li definiscono “stupidi” o “pigri”. La necessità di riconoscere le difficoltà di apprendimento è urgente: secondo uno studio del 2016 dell’Accademia delle scienze cinese, l’11 per cento degli alunni delle elementari è dislessico, per un totale di circa dieci milioni di bambini. Anche se è un numero enorme, c’è poca comprensione e ancora meno sostegno per gli studenti dislessici nel paese.
Il centro Weining, a Shenzhen, è uno dei pochi dedicati a questa causa. Senza un aiuto, gli studenti dislessici a scuola fanno fatica e non sviluppano le loro potenzialità. Su Yingzi lo sa in troppo bene. Suo figlio Xiaogu, di undici anni, è intelligente e spiritoso, bravissimo a inventare nuovi giochi, sa raccontare barzellette con la massima naturalezza e fa amicizia con tutti. Ma leggere e scrivere i caratteri cinesi sembrava un ostacolo insormontabile. A certi compagni di classe bastava meno di mezz’ora per memorizzare alcuni caratteri, mentre Xiaogu poteva passarci delle ore senza riuscire a ricordare come si scrivevano. Quando arrivavano gli esami, spesso non capiva le domande perché molti caratteri per lui semplicemente non avevano senso. A ripensarci, Su crede che il figlio abbia mostrato i primi segnali già all’asilo: la sua grafia era caotica e spesso era l’ultimo a finire gli esercizi. “Ma l’insegnante imputava il suo rendimento alla pigrizia, e io le credevo”, racconta Su. Quando Xiaogu ha finito la materna, la madre ha speso migliaia di yuan per mandarlo a un’ottima scuola elementare, senza però vedere grandi miglioramenti. Così ha cominciato a perdere la pazienza. Rimproverava Xiaogu per i risultati deludenti agli esami e ammette di averlo picchiato quando sbagliava a scrivere i caratteri. Il bambino non riusciva a capire perché dovesse sforzarsi tanto per fare qualcosa che i compagni imparavano così facilmente. Andava a scuola sempre più controvoglia, e alla fine ha smesso completamente d’impegnarsi. Agli esami presentava i compiti in bianco anche quando avrebbe potuto rispondere a qualche domanda. La svolta è arrivata poco prima che cominciasse la quarta elementare. Un’assistente sociale amica di Su le ha suggerito che il bambino poteva essere dislessico. Su non conosceva questo disturbo, ha fatto ricerche online e ha portato il figlio al centro Weining, dov’è stato sottoposto a vari test. Le persone dislessiche hanno difficoltà a leggere e scrivere. Secondo Tan Lihai, di rettore dell’Istituto di neuroscienza di Shenzhen, per i bambini che imparano a leggere e scrivere in cinese, una lingua che ha migliaia di caratteri, la difficoltà è maggiore. Nelle lingue alfabetiche le parole usano una serie limitata di lettere che indicano la pronuncia, ma un carattere cinese non contiene informazioni – o ne contiene pochissime – sul suono a cui corrisponde. Alcuni caratteri si somigliano ma hanno pronunce e definizioni molto diverse: si prenda per esempio 己 (ji), che significa “sé” e 已 (yi), che significa “già”. Per imparare a leggere il cinese gli studenti devono collegare la forma di un carattere, la pronuncia e il significato memorizzandoli.
Nella sua ricerca, Tan ha scoperto che nei madrelingua cinese la dislessia è associata a parti del cervello coinvolte nella percezione visiva, nelle relazioni spaziali e nelle abilità cognitive, e non a quelle che consentono la conversione lettera-suono, come succede nelle persone dislessiche che parlano lingue alfabetiche. Di conseguenza, alcuni ragazzi e ragazze fanno fatica a ricordare il significato di un carattere o di una frase perfino se sanno riconoscerli e leggerli, alcuni saltano le parole mentre leggono, altri confondono diverse parti del carattere e altri ancora scrivono un unico carattere come se fossero due. Spesso ci mettono molto più tempo dei coetanei a finire i compiti o gli esami, ma questo è un fattore che non viene preso in considerazione in molte scuole cinesi. Quando a Xiaogu è stata diagnosticata la dislessia, Su non si è sentita sollevata di sapere finalmente qual era il problema, ma in ansia per il futuro del figlio, affetto da un disturbo dell’apprendimento che non è riconosciuto dal sistema d’istruzione nazionale. “Sono rimasta terribilmente delusa”, racconta. “Perché il mio bambino deve soffrire in questo modo?”.
Liang Yueyi, un’insegnante del centro Weining, dice che anche se in una metropoli avanzata come Shenzhen si conosce la dislessia molto di più rispetto alle altre città cinesi, più del 75 per cento degli abitanti non ne ha mai sentito parlare. Quando in un sondaggio è stato chiesto cosa significa il termine “dislessia”, alcuni intervistati hanno risposto che indica le persone senza mani. Altri ne avevano sentito parlare, ma pensavano che riguardasse solo chi usa le lingue alfabetiche. I ricercatori hanno commesso lo stesso errore per decenni. La dislessia è studiata in Europa dalla fine dell’ottocento, ma fino agli anni ottanta del secolo scorso gli esperti credevano che non riguardasse i madrelingua cinese e fino alla fine degli anni novanta il problema non ha suscitato particolare interesse tra i ricercatori cinesi. Non ci sono conferme che i quattro geni coinvolti nella dislessia nelle persone che parlano lingue alfabetiche siano tra i fattori determinanti di questo disturbo per i cinesi. Gli scienziati hanno invece individuato altri due geni che potrebbero avere un ruolo. Ma lo studio della dislessia in Cina ha ancora molta strada da fare, e i finanziamenti sono pochi, dice Tan. Isole felici
La situazione è diversa a Hong Kong e Taiwan, che hanno approvato leggi e normative sulla dislessia. A Hong Kong, per esempio, l’Ufficio per l’istruzione fa dei test sulle capacità di apprendimento dei bambini già in prima elementare. Gli alunni a cui viene diagnosticata la dislessia non solo ricevono un sostegno finanziario e assistenza specifica durante le lezioni, ma agli esami hanno a disposizione più tempo e possono contare su testi con una formattazione particolare e caratteri più grandi e su programmi informatici che gli leggono le domande. Inoltre possono ricevere aiuto da molti ospedali e organizzazioni private. Alcuni studenti dislessici sono arrivati a studiare nelle migliori università: un traguardo che i genitori di ragazzi con lo stesso problema nel resto della Cina considerano irraggiungibile. Non ci sono politiche per sostenere i bambini dislessici. Le ong e i servizi sociali per questi studenti sono rari anche nelle città ricche come Shanghai, che stanziano fondi rilevanti per l’istruzione. Certe zone della provincia del Guangdong, vicino a Hong Kong, sono più avanzate da questo punto di vista, ma anche qui ci sono meno di dieci organizzazioni che aiutano i bambini dislessici, e la più grande segue solo poche centinaia di alunni.
Da quando ha aperto, nel 2010, il centro Weining punta a sensibilizzare le persone sulla dislessia e collabora con alcune scuole elementari locali. Wang Lei, il direttore del centro, spiega che in mancanza di politiche rivolte agli studenti dislessici, tra cui un esame standardizzato per diagnosticare il disturbo, è difficile convincere le scuole e i genitori a riconoscere il problema: “I dislessici cinesi sono un enorme gruppo di persone che hanno bisogno di aiuto, ma sono invisibili perché nella vita quotidiana sono perfettamente normali”. Si potrebbe chiedere più tempo per gli esami o testi con una formattazione speciale come a Hong Kong solo se i dipartimenti locali per l’istruzione dedicassero politiche o quanto meno la loro attenzione al problema. Anche certi genitori rimangono scettici e si rifiutano di accettare che i figli abbiano una disabilità. “Perino dopo che ai bambini viene diagnosticata la dislessia dal nostro centro, alcuni genitori non riescono a convincersi che leggere e scrivere possano essere qualcosa di difficile da fare”, dice Wang. Secondo gli esperti la gravità del disturbo potrebbe aumentare con la diffusione dei dispositivi elettronici che sempre più spesso sostituiscono carta e inchiostro. I ricercatori hanno scoperto una correlazione negativa tra il tempo che gli studenti passano sui dispositivi e la rapidità con cui si sviluppa la capacità di leggere e scrivere. La ricerca di Tan ha anche accertato che per scrivere un testo ricorrere al pinyin, il sistema ufficiale di trascrizione alfabetica della lingua cinese usato nella parte continentale del paese, invece di tracciare i caratteri a mano ha un impatto negativo sulla capacità di lettura degli studenti. Un bambino che frequenta la scuola del centro Weining dice che qui è molto più felice: la sua maestra non gli diceva mai bravo e non lo incoraggiava mai, spiega, ma lo rimproverava duramente quando sbagliava. Cao Wenying ha un figlio di undici anni dislessico e racconta che nella classe di suo figlio gli insegnanti avevano l’abitudine di offrire la pizza agli studenti migliori. Questo causava ansia e frustrazione in chi aveva risultati mediocri. Liang, l’insegnante del centro Weining, ricorda di aver visto studenti così frustrati da sbattere la testa contro il muro. Per il figlio di Cao il cambiamento maggiore dopo aver frequentato le lezioni del centro Weining non è stato nei risultati dei test, ma nell’atteggiamento. In classe stava sempre zitto e aveva pochi amici. Ma una volta diagnosticata la dislessia, non era più “lo stupido” della classe, e ha ritrovato fiducia in se stesso. Cao ha anche smesso di spingere il figlio a imparare a leggere e scrivere bene e ha cominciato a leggere con lui le sue storie preferite ogni sera: “Ora è molto più felice e chiacchierone di prima”. Su ha avuto un’esperienza molto simile. Anche se la diagnosi l’ha sconvolta, ora passa almeno mezz’ora al giorno ad aiutare il figlio a memorizzare i caratteri secondo il metodo che ha imparato al centro Weining. Ha perfino convinto la maestra di Xiaogu ad adattare il curriculum per rendere le lezioni più interattive e coinvolgenti. Dice che il bambino ha cominciato a partecipare molto più attivamente, e i suoi risultati ora sono nella media. Ma la principale preoccupazione dei genitori di studenti dislessici è il futuro dei figli. Molti temono che non possano avere successo in un sistema educativo fortemente competitivo e finalizzato agli esami. Su, che è laureata e fa l’architetta, aveva sempre pensato che anche Xiaogu avrebbe frequentato l’università. Ora deve fare i conti con l’eventualità che il figlio possa dover prendere una strada completamente diversa. “A Shenzhen è difficile perfino essere ammessi agli istituti professionali”, dice. Ma l’atteggiamento ottimistico e cordiale di Xiaogu, spera, potrebbe essere il suo punto di forza. “Una volta pensavamo che i risultati degli esami fossero la cosa più importante”, dice Su. “Ma, in effetti, quanto conta per il tuo futuro dare tutte le risposte giuste a un esame? Buona parte delle nostre conoscenze le dobbiamo alla vita reale, non ai libri. Ora credo che con la sua personalità possa fare molta strada”.

l’espresso 8.4.18
Marco Damilano
Arriva il momento di cambiare motore
Lo sconquasso della sinistra non è cominciato con Renzi. Ha radici più lontane. Ma gli ultimi anni sono stati una grande occasione perduta
Neppure un istante è stato dedicato a un’elaborazione culturale, a creare un’organizzazione territoriale, a far crescere una nuova classe dirigente


Il mare calmo non ha mai fatto buoni marinai, ha scritto il segretario reggente del Pd Maurizio Martina su Repubblica (4 aprile) riportando le parole che gli ha detto un compagno. Il compagno ha ragione: mai il mare è stato così burrascoso per il centrosinistra italiano, arrivato al minimo storico della sua lunga storia. Ma è anche vero che mai, invece, è stato così tranquillo nella classe dirigente del partito, che al di là di qualche articolo e proclama si sta rivelando incapace di affrontare una crisi così grave, potenzialmente letale, in termini culturali prima ancora che politici. Una grande bonaccia delle Antille, come quella che descrisse Italo Calvino nel 1957 a proposito dell’immobilismo e della paralisi del Pci togliattiano. È lo spettacolo stupefacente di queste settimane: l’analisi del voto inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti burocratica, i capicorrente che continuano a operare nelle loro manovre esiziali come se nulla fosse successo, intellettuali di area silenti, l’incapacità di sfuggire alla morsa della domanda che rimbalza nei talk televisivi, allearsi o no con uno dei vincitori del 4 marzo. Un dilemma posto dallo stesso segretario dimissionario Matteo Renzi all’indomani del voto, per sfuggire a un più pesante quesito: che fare ora del Pd? Domanda che va allargata al resto della sinistra: i fuggiaschi di Liberi e Uguali, gli scissionisti e i paladini della nuova sinistra, tutti insieme hanno raccolto una miseria elettorale, ancor più evidente in presenza di milioni di voti in uscita dal Pd, ma per nulla disponibili ad accasarsi in un’altra formazione di sinistra, nuova, vecchia, post o ex che sia. E dopo il voto sono spariti. È questo paesaggio mutato nella società, prima ancora che in Parlamento, che nessuno vuole vedere e che dovrebbe essere il punto di partenza.
Guardiamoli da vicino, i numeri spaventosi del voto del 4 marzo che in tanti vorrebbero dimenticare. Tra gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati, il 9 per cento ha votato per il Pd, il 6 per cento per la formazione guidata da Pietro Grasso, il 47 per cento per il Movimento 5 Stelle (il 18 per cento per la Lega di Matteo Salvini). Tra i dipendenti del pubblico impiego, tradizionale roccaforte della sinistra, il 19 per cento ha votato per il Pd, il 6 per Liberi e Uguali, il 27 per M5S, percentuali che si ripetono con stacchi ancora maggiori per i dipendenti del settore privato. L’unica categoria in cui il Pd supera M5S sono i pensionati. Ricavo questi dati dallo studio curato dai ricercatori di Youtrend Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (“La nuova Italia”, Castelvecchi) appena pubblicato. «Dall’analisi dei lussi risulta che solo la metà degli elettori del Pd nel 2013 e nel 2014 ha confermato il voto nell’ultima tornata elettorale. Questo calo è omogeneo in tutti i settori sociali, ma il Pd vede il suo consenso ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storicamente una componente fondamentale del blocco sociale degli schieramenti di centrosinistra», si legge nell’analisi. «L’impatto di questo cambiamento non deve essere sottovalutato: è per natura, se non per portata, comparabile a quello del dissolversi delle Zone Rosse del Paese affrontato nel capitolo sull’analisi geografica del voto. Si definisce così un nuovo equilibrio nel blocco sociale del Pd: il tradizionale “tridente” costituito da pensionati, dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico esce dalle elezioni 2018 vistosamente ridimensionato nelle sue due componenti attive nel mercato del lavoro. Di converso, la categoria socioprofessionale presso la quale il Pd riesce a contenere meglio le perdite è quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. In questo modo il Pd si avvicina maggiormente, seppur attraverso una dolorosa cura dimagrante, all’equilibrato interclassismo che si potrebbe supporre essere adeguato a un vero “Partito della Nazione”; ma ciò sembra verificarsi al - carissimo - prezzo della perdita dell’egemonia politica su importanti componenti della società italiana, sia in termini territoriali che in termini socio-professionali». Una conclusione amara e beffarda: il partito della Nazione alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione. In formato bonsai: una piccola nazione. È l’effetto di un doppio sconquasso: uno più recente e un altro di più lungo periodo. Quello recente porta il segno e il volto di Matteo Renzi e si riassume in un pugno di settimane, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, tra la sconfitta al referendum sulla Costituzione (4 dicembre 2016) e la scissione di Pier Luigi Bersani (19 febbraio 2017, con l’uscita dei bersaniani all’assemblea nazionale dell’hotel Parco dei Principi, nonostante gli ultimi tentativi, compreso l’accorato appello del fondatore Walter Veltroni). In quelle settimane è finito il sogno del Pd come soggetto in grado di riunire tutte le anime del centrosinistra italiano e di fare da motore di un cambiamento del sistema politico italiano in senso europeo, un confronto tra due riformismi, uno di sinistra e uno di stampo liberale, conservatore, popolare. Il terremoto di più lungo periodo ci dice che quel sistema europeo da tempo non esiste più. È entrato in crisi ovunque, nei suoi elementi fondanti. È in crisi il centrodestra di governo, resiste in Germania con Angela Merkel, ma solo trasformando la grande coalizione Cdu/Csu-Spd in un centrosinistra all’italiana, la formula inventata da noi da democristiani e socialisti in dall’inizio degli anni Sessanta che ha retto con alterne vicende la politica nazionale per più di cinquant’anni. Ovunque il vecchio polo conservatore è assediato dalle voci più radicali, quello che è successo oggi in Italia, con la Lega di Matteo Salvini che ha superato Forza Italia, potrebbe riproporsi domani in altri paesi europei.
 I nuovi vincitori, ed è la seconda novità, conquistano consensi nei tradizionali territori sociali della sinistra. Effetto della globalizzazione e dei suoi esiti malgestiti, come l’immigrazione, l’impossibilità per un’intera generazione di inserirsi in modo stabile e dignitoso nel nuovo mercato del lavoro e l’impoverimento del ceto medio, e dell’afasia della sinistra europea sulle urgenze del nuovo secolo. Il Pd è finito perché travolto da un cambiamento epocale, eppure era stata l’unica forza politica riformista del continente ad avvertire la tempesta in arrivo. Nella lunga stagione dell’Ulivo di Romano Prodi e di Arturo Parisi che aveva preceduto la fondazione del Pd, e poi nel 2007 con la nascita del partito di Veltroni, l’intuizione che fosse necessario andare oltre la socialdemocrazia europea e mettere insieme culture politiche tradizionalmente divise, poteva rappresentare un modello nuovo e vincente, com’è sembrato essere il giovane principe arrivato da Firenze per conquistare il cuore del potere. Gli ultimi tre anni rappresentano un’enorme occasione perduta. Neppure un istante di attenzione è stato dedicato da Renzi e dal suo gruppo di comando a costruire un’elaborazione culturale, un’organizzazione territoriale, una classe dirigente locale e nazionale, i tre fondamenti di qualsiasi impresa politica. Mentre molto tempo si è perduto nell’eliminazione delle voci scomode, nel formare una militanza cieca e conformista, agitata sui social con i metodi peggiori della Casaleggio associati, per poi perdere di vista ogni progetto di cambiamento e ridursi al ristretto gruppo dei fedelissimi del Capo. Oggi è necessario cancellare l’equivoco, scrive Massimo Cacciari nelle pagine che seguono. Sciogliere il Pd, questo Pd. E affrontare la questione più drammatica, l’assenza di un partito socialista, riformista, laburista, liberal, democratico, chiamatelo come volete, nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, quando si fa più drammatica una doppia emergenza, quella economica, con il ceto medio-alto coinvolto negli effetti della crisi dell’ultimo decennio, e quella democratica, di una rappresentanza ormai avvertita come lontanissima dai cittadini comuni. Non bisogna lasciar passare la vergogna invano, aggiunge Paola Natalicchio, una delle giovani voci più interessanti della nuova sinistra, amministratrice di un grande comune del Sud, la Molfetta di Gaetano Salvemini e di don Tonino Bello, nella Puglia che ha rappresentato un laboratorio di innovazione tra il 2005 e il 2015 e che oggi è passata in blocco con il Movimento 5 Stelle. Non si può perdere anche questa dolorosa occasione, l’irrilevanza e lo spettro dell’estinzione, per provare almeno a ricostruire qualcosa. L’idea di fare il partito dell’establishment restando all’opposizione non sembra una trovata brillantissima. Allearsi con quel che resta di Forza Italia contro il blocco populista Lega-M5S è la soluzione finale per perdere anche quei milioni di voti rimasti. Restare all’opposizione e non vedere l’ora che nasca un governo Salvini-Di Maio, come si è spinto a dire un capogruppo del Pd, significa agire per istinti autolesionistici. Non sciogliere per non scegliere è la blindatura di gruppi dirigenti sconfitti in tutte le versioni, quella rottamatrice renziana, quella arcaica del culto della Ditta degli scissionisti, quella vetero-ideologica, piagnona e protestataria. Proviamo a ripartire in queste pagine, con qualche provocazione e con quel tanto di spregiudicatezza che la situazione richiede. E perino, se lo scenario non fosse così malinconico, con il divertimento di immaginare che la politica sia ancora un regno delle possibilità e non della necessità.

l’espresso 8.4.18
Rivoluzione o estinzione
colloquio con Fabrizio Barca di Alessandro Gilioli


Fabrizio Barca, 64 anni, oggi fa politica occupandosi del Forum sulle disuguaglianze, fondato per fornire proposte concrete alle nuove e urgenti esigenze dei ceti alla base della piramide sociale. Quegli stessi ceti che hanno abbandonato il Pd e in generale la sinistra, di cui Barca è stato un autorevole esponente. Con lui proviamo a capire allora il percorso di questo abbandono e le eventuali prospettive.
Barca, i numeri degli ultimi dieci anni sono chiari: 12 milioni di voti al Pd nel 2008, 6 milioni nel 2018. Mentre anche la sinistra radicale è finita nell’irrilevanza. Che cos’è successo?
«Andrei ancora più indietro nel tempo. È da almeno 25 anni che vediamo un’incapacità progressiva della sinistra di rappresentare le classi subalterne della società, quelle che il nostro Forum chiama gli ultimi, i penultimi e i vulnerabili. Quando non rappresenti più quegli interessi il tuo elettorato cerca qualcosa altrove. E a un certo punto le cose precipitano».
Perché 25 anni?
«Fino agli anni Ottanta non solo il Pci ma anche i socialisti e la sinistra della Dc hanno svolto un ruolo di rappresentanza popolare. Ma hanno iniziato a perderlo quando il neoliberismo è diventato egemone e li ha inibiti dal contrastare la concentrazione di reddito e ricchezza che veniva dalla globalizzazione e dai cambiamenti tecnologici. Persa questa capacità di rappresentanza, le tre aree politiche in questione - Pci, Psi e sinistra Dc - hanno cercato di perpetuarsi unendosi gradualmente in un unico partito, il Pd, senza però ritrovare un ruolo di tutela del lavoro e dei più deboli, anzi assecondando le dinamiche che aumentavano le disuguaglianze. E nessun partito di sinistra oggi comunica una genuina ed empatica sensazione di dire “siamo con voi”».
“Siamo con voi”, chi?
«Con i lavoratori, naturalmente. Ma c’è anche un aspetto geografico, territoriale: mi riferisco a quei milioni di persone che abitano nei luoghi dimenticati, nelle periferie, nelle microcittà sparpagliate e nelle aree rurali. Questi elettori non hanno tardato ad accorgersi che la sinistra parlava sempre di più alle città, anzi ai centri delle città, alla “borghesia urbana riflessiva”. E ovviamente hanno cercato una rappresentanza diversa».
Ma perché la sinistra ha assecondato le dinamiche che toglievano tutele ai lavoratori e ai dimenticati?
«È iniziato tutto con la caduta del Muro di Berlino. Vede, noi della sinistra - anche nel Pci - sapevamo benissimo che il “socialismo reale” non era il modello giusto per liberare le persone. Eppure dopo la caduta del Muro abbiamo pensato che fosse finito tutto quello in cui avevamo creduto: l’avanzamento sociale, la lotta contro le disuguaglianze, l’emancipazione delle classi deboli. Abbiamo pensato che davvero fosse finita la storia, come diceva Fukuyama, e che la vittoria del neoliberismo fosse definitiva. C’è stato un totale ripudio del passato e un’adesione interiore al neoliberismo. Un’intera generazione di sinistra - la mia - dopo il 1989 si è convinta che i suoi ideali di uguaglianza fossero una sorta di romantico errore di gioventù. Un po’ come se avessimo detto alle generazioni successive: “Noi abbiamo creduto ingenuamente nell’uguaglianza ma poi abbiamo capito che quelle idee erano sbagliate, quindi voi è meglio che ve le togliate subito dalla testa, non pensateci nemmeno a cambiare il mondo”».
E così nel Paese che aveva il più grosso partito comunista d’Europa la sinistra non c’è quasi più. Mentre in altri paesi europei - la Gran Bretagna di Corbyn, la Spagna di Podemos, in qualche modo anche il Portogallo e la Grecia - una rappresentanza politica della sinistra c’è, e anche significativa. Perché?
«La crisi della sinistra non è solo italiana, basta guardare alla Francia e all’Olanda, per esempio. Credo che però la particolarità italiana abbia due ragioni. Una è il Pd stesso, che ha continuato a lungo a illudere di essere quella cosa prolungando la non ricerca di una reazione. Sa, nel Pd c’è ancora un grande senso di appartenenza, come se gli iscritti fossero ancora dentro un partito di sinistra. La seconda risposta è legata al Movimento 5 stelle. Che, certo, è diverso da Podemos o da Syriza, ma ha dato una risposta alla stessa richiesta di radicalismo - e anche di scorciatoie, come se andare al potere potesse sostituire una strategia di cambiamento. In ogni caso, in Italia ci sono masse di persone che non si sentono più rappresentate dalla sinistra e hanno trovato il porto dei 5 stelle. E questo ha tolto la base anche ai partiti che hanno provato ad affacciarsi alla sinistra del Pd».
Ma esiste ancora qualcosa che il Pd e i partiti alla sua sinistra debbano fare? Oppure è semplicemente finita per tutti?
«Credo che la questione oggi non sia quella che ha animato il dibattito in queste settimane (governo o opposizione) ma stia piuttosto nelle battaglie parlamentari. Il ruolo del Parlamento (se lo è augurato anche Fico nel suo discorso di insediamento) può e deve tornare centrale, come lo è stato nel Dopoguerra, quando anche dall’opposizione il Pci ha contribuito profondamente a cambiare in meglio il Paese. Credo che la strada da percorrere sia quella delle battaglie parlamentari su obiettivi concreti in direzione dell’eguaglianza sociale, a partire dal lavoro e dalle aree abbandonate. Anche il nostro lavoro come Forum sulle diseguaglianze va nella direzione di individuare - alla fine del primo anno di vita - proposte e battaglie sociali che possono diventare parlamentari, quale che sia il prossimo governo».
Intanto però è probabile che in Parlamento arrivino proposte “popolari” ma non del Pd: ad esempio, per cambiare la legge Fornero e per il reddito minimo. Se la sinistra si opponesse “da destra” saremmo daccapo.
«Non penso che queste proposte siano vitali, non si gioca lì l’uscita dalla crisi di milioni di persone. La forza di un partito serio e solido sta nella capacità di spostare l’agenda sulle proprie proposte, non limitandosi a rincorrere quelle facili avanzate da altri, le idee massimaliste che lisciano il pelo alla gente. Chi propone quelle cose le faccia e le gestisca, se ci riesce».
Abbiamo parlato di sinistra cercando le cause e guardando le prospettive. Sul breve, però, il Pd sembra guardare al massimo a domattina. Litiga sui capogruppo, si divide in nuove correnti, insomma non sembra proprio aver capito cos’è successo e come uscirne.
«Lo schiaffo è stato violentissimo. E quando si riceve una sberla così ci sono due sole reazioni possibili: la prima è arroccarsi ancora di più - magari guadagnando un anno o due - e allora ci si condanna al suicidio, all’estinzione. Oppure la classe dirigente trova il coraggio di dirsi: “Va così male che mi metto a repentaglio, ora ho da perdere molto meno di prima”. Quindi si cambia tutto, innovando in modo radicale».
Quale delle due strade sceglieranno? «Ancora non lo so, ma so che non ce n’è una terza»