lunedì 16 aprile 2018

La Stampa TuttoLibri 14.4.18
Così nacque e morì l’ultima versione di quel mostro che chiamiamo Stato
Lo storico di Harvard si concentra sul “secolo lungo” tra il 1880 e il 1980 Il primo Leviatano fu l’assolutismo, il secondo il partitismo. E il terzo?
di Massimiliano Panarari


Le «azioni» e le fortune dello Stato nazione sono precipitate nel corso nell’ultima ondata di globalizzazione. E, dunque, tanto più oggi in epoca di revanche nazionalista e sovranista in tutta la nostra parte di mondo, si rivela tempo speso utilmente quello investito per comprendere la lunga gestazione e genealogia storica dello Stato moderno. Ad aiutare il lettore in tal senso ci pensa un bel libro di un importante storico contemporaneista, lo statunitense Charles S. Maier (professore di Harvard, dove ha diretto il Centro di studi europei), intitolato Leviatano 2.0 e pubblicato da Einaudi. Un volume denso, che scandaglia i nodi concettuali e i passaggi evenemenziali di un paio di secoli di storia politica e culturale occidentale con maestria, e facendosi leggere bene (come tipico dello stile di scrittura anglosassone).
Il Leviatano «prima versione» è quello detentore dell’autorità assoluta teorizzato dai filosofi politici come Jean Bodin e, soprattutto, Thomas Hobbes, alla fine del Cinquecento, allorché lo Stato coincise con l’oggetto fondamentale di analisi del pensiero politico, in un contesto profondamente mutato dalla rottura della koiné cristiana determinata dalla Riforma, dalla nascita della stampa e dalla ricerca di principi di fondazione dell’autorità non più di derivazione religiosa. Così, i (due) Trattati di Vestfalia post-guerra dei Trent’anni stabilirono la forma della sovranità statuale, nei termini del primato del governo del monarca all’interno dell’unità territoriale e dell’indipendenza esterna totale. Una specificità in confronto al resto del pianeta – in particolare rispetto alla concezione di statualità e agli imperi asiatici, dalla Cina all’India e al Giappone (a cui il libro dedica varie pagine) – che visse un cambio di paradigma intorno alla metà del XIX secolo, con l’emergere di quello che Maier battezza Leviatano 2.0.
Lo storico – che, a differenza di Eric Hosbawn, sostiene la tesi del Novecento quale «Secolo lungo» (dal 1880 al 1980, e sovrapponibile alla logica produttiva e sociale del capitalismo di tipo fordista) – colloca negli anni compresi tra i Cinquanta e gli Ottanta dell’Ottocento un turning point e una riconfigurazione strutturale. Il globo stava diventando in quel periodo sempre di più un continuum, in virtù dell’esplosione dei nuovi sistemi di trasporto e mezzi di comunicazione. Gli attributi dello Stato si conservarono, e rimasero gli stessi, ma si registrò un salto di grado del «software statuale», perché grazie alle nuove tecnologie trasportistiche e comunicative crebbero ulteriormente le aspirazioni territoriali, dando il via all’età degli imperialismi.
L’effetto di questa mondializzazione fu il dilagare dei nazionalismi a supporto ideologico di una competizione durissima tra i Paesi. Nel corso della quale sul continente europeo l’idea illuministica e liberale del governo della legge, che aveva affiancato e sostituito l’assolutismo, si trasformò via via nella convivenza tra la preminenza delle norme statuali e una società che esprimeva reti organizzate di interessi parziali e corporativi e trovava forma nel regime di partito. Invece l’area angloscozzese (e, in seguito, il Nordamerica), che vide l’ascesa del liberalismo, elaborò su impulso dei whigs – alfieri della prevalenza del mercato (e della mercificazione) con una finalità di neutralizzazione dei disordini sociali – una via differente, ove la dimensione privata, commerciale e associativa, non venne separata nettamente, e neppure formalmente in vari casi, da quella legislativa.
Il Leviatano 2.0, che ha smesso di essere lo «Stato incontaminato» basato su un ordinamento giuridico supremo e autonomo, nel Novecento si declina proprio sotto la forma del sistema di partito, pluralista e competitivo o drammaticamente totalitario e autoritario (a partito unico).
È una storia che, per certi versi, inizia il 25 giugno del 1876 a Little Bighorn, con la temporanea vittoria dei nativi americani sul Settimo cavalleggeri del generale Custer, l’ultima conseguita da un mondo tribale e con una visione liquida e fluida del territorio al cospetto della soverchiante forza militare ed espansiva garantita dalla superiorità organizzativa del modello di Stato europeo. Una storia di politici e di teorici della politica, che viene ripercorsa portando alla ribalta tutte le questioni centrali all’insegna di una capacità di sintesi esemplare (con il solo neo di un giudizio piuttosto stereotipato e «luogocomunista» su Cesare Lombroso).
Quella del Leviatano 2.0 è stata un’egemonia ininterrotta, e senza soluzione di continuità, giunta fino agli anni Settanta del XX secolo, quando ha dovuto cedere il passo al neoliberismo in economia e, in politica, all’idea di governance quale alternativa funzionale allo Stato. Un potenziale Leviatano 3.0 su cui lo studioso si mostra critico, nella persuasione che il potere e la violenza, in assenza di leggi, proliferino ancora maggiormente. E che il tema sia quello di ridurre le imposizioni dello Stato ai propri cittadini, ma non di cancellarlo per andare verso un futuro-presente troppo gravido di incognite.