La Stampa TuttoLibri 14.4.18
Così nacque e morì l’ultima versione di quel mostro che chiamiamo Stato
Lo
storico di Harvard si concentra sul “secolo lungo” tra il 1880 e il
1980 Il primo Leviatano fu l’assolutismo, il secondo il partitismo. E il
terzo?
di Massimiliano Panarari
Le «azioni» e le fortune
dello Stato nazione sono precipitate nel corso nell’ultima ondata di
globalizzazione. E, dunque, tanto più oggi in epoca di revanche
nazionalista e sovranista in tutta la nostra parte di mondo, si rivela
tempo speso utilmente quello investito per comprendere la lunga
gestazione e genealogia storica dello Stato moderno. Ad aiutare il
lettore in tal senso ci pensa un bel libro di un importante storico
contemporaneista, lo statunitense Charles S. Maier (professore di
Harvard, dove ha diretto il Centro di studi europei), intitolato
Leviatano 2.0 e pubblicato da Einaudi. Un volume denso, che scandaglia i
nodi concettuali e i passaggi evenemenziali di un paio di secoli di
storia politica e culturale occidentale con maestria, e facendosi
leggere bene (come tipico dello stile di scrittura anglosassone).
Il
Leviatano «prima versione» è quello detentore dell’autorità assoluta
teorizzato dai filosofi politici come Jean Bodin e, soprattutto, Thomas
Hobbes, alla fine del Cinquecento, allorché lo Stato coincise con
l’oggetto fondamentale di analisi del pensiero politico, in un contesto
profondamente mutato dalla rottura della koiné cristiana determinata
dalla Riforma, dalla nascita della stampa e dalla ricerca di principi di
fondazione dell’autorità non più di derivazione religiosa. Così, i
(due) Trattati di Vestfalia post-guerra dei Trent’anni stabilirono la
forma della sovranità statuale, nei termini del primato del governo del
monarca all’interno dell’unità territoriale e dell’indipendenza esterna
totale. Una specificità in confronto al resto del pianeta – in
particolare rispetto alla concezione di statualità e agli imperi
asiatici, dalla Cina all’India e al Giappone (a cui il libro dedica
varie pagine) – che visse un cambio di paradigma intorno alla metà del
XIX secolo, con l’emergere di quello che Maier battezza Leviatano 2.0.
Lo
storico – che, a differenza di Eric Hosbawn, sostiene la tesi del
Novecento quale «Secolo lungo» (dal 1880 al 1980, e sovrapponibile alla
logica produttiva e sociale del capitalismo di tipo fordista) – colloca
negli anni compresi tra i Cinquanta e gli Ottanta dell’Ottocento un
turning point e una riconfigurazione strutturale. Il globo stava
diventando in quel periodo sempre di più un continuum, in virtù
dell’esplosione dei nuovi sistemi di trasporto e mezzi di comunicazione.
Gli attributi dello Stato si conservarono, e rimasero gli stessi, ma si
registrò un salto di grado del «software statuale», perché grazie alle
nuove tecnologie trasportistiche e comunicative crebbero ulteriormente
le aspirazioni territoriali, dando il via all’età degli imperialismi.
L’effetto
di questa mondializzazione fu il dilagare dei nazionalismi a supporto
ideologico di una competizione durissima tra i Paesi. Nel corso della
quale sul continente europeo l’idea illuministica e liberale del governo
della legge, che aveva affiancato e sostituito l’assolutismo, si
trasformò via via nella convivenza tra la preminenza delle norme
statuali e una società che esprimeva reti organizzate di interessi
parziali e corporativi e trovava forma nel regime di partito. Invece
l’area angloscozzese (e, in seguito, il Nordamerica), che vide l’ascesa
del liberalismo, elaborò su impulso dei whigs – alfieri della prevalenza
del mercato (e della mercificazione) con una finalità di
neutralizzazione dei disordini sociali – una via differente, ove la
dimensione privata, commerciale e associativa, non venne separata
nettamente, e neppure formalmente in vari casi, da quella legislativa.
Il
Leviatano 2.0, che ha smesso di essere lo «Stato incontaminato» basato
su un ordinamento giuridico supremo e autonomo, nel Novecento si declina
proprio sotto la forma del sistema di partito, pluralista e competitivo
o drammaticamente totalitario e autoritario (a partito unico).
È una
storia che, per certi versi, inizia il 25 giugno del 1876 a Little
Bighorn, con la temporanea vittoria dei nativi americani sul Settimo
cavalleggeri del generale Custer, l’ultima conseguita da un mondo
tribale e con una visione liquida e fluida del territorio al cospetto
della soverchiante forza militare ed espansiva garantita dalla
superiorità organizzativa del modello di Stato europeo. Una storia di
politici e di teorici della politica, che viene ripercorsa portando alla
ribalta tutte le questioni centrali all’insegna di una capacità di
sintesi esemplare (con il solo neo di un giudizio piuttosto stereotipato
e «luogocomunista» su Cesare Lombroso).
Quella del Leviatano 2.0 è
stata un’egemonia ininterrotta, e senza soluzione di continuità, giunta
fino agli anni Settanta del XX secolo, quando ha dovuto cedere il passo
al neoliberismo in economia e, in politica, all’idea di governance quale
alternativa funzionale allo Stato. Un potenziale Leviatano 3.0 su cui
lo studioso si mostra critico, nella persuasione che il potere e la
violenza, in assenza di leggi, proliferino ancora maggiormente. E che il
tema sia quello di ridurre le imposizioni dello Stato ai propri
cittadini, ma non di cancellarlo per andare verso un futuro-presente
troppo gravido di incognite.