lunedì 9 aprile 2018

La Stampa 9.6.18
“Vendiamo frammenti di papiri”
L’autofinanziamento choc del museo
Siracusa, polemiche dopo l’annuncio dei ricercatori dell’ente privato I due studiosi: se non troviamo fondi corriamo il rischio di chiudere
di Noemi Penna


«Il museo mette in vendita 20 frammenti di papiri greci e demotici della propria collezione, di accertata provenienza, acquistati circa dieci anni e, per quanto di conoscenza, inediti». L’ente in questione è il Museo del papiro Corrado Basile di Siracusa: una realtà «unica al mondo», estensione naturale dell’Istituto internazionale del papiro fondato da Anna Di Natale e Corrado Basile, due nomi noti nel settore per il loro impegno nella ricerca papirologica, anche in collaborazione con Il Cairo. E l’inusuale annuncio non è passato inosservato, scandalizzato molti studiosi e appassionati per la scelta dei due ricercatori di privarsi di rari reperti risalenti a 1500 anni fa in modo così plateale, attraverso il sito internet e i social del museo.
La decisione
«La notizia è apparsa in forma di pubblicità sulla pagina Facebook di un mio collega», ha raccontato sul suo blog Roberta Mazza, curatrice del Museo di Manchester. «Abbiamo pensato a uno scherzo» ma, contattandoli, la direttrice Anna di Natale le ha risposto che «Il Museo del papiro ha deciso di mettere in vendita alcuni papiri della propria collezione per reperire risorse e realizzare altri progetti» ma «quali siano questi progetti non è per ora dato a sapere. Mi domando che tipo di messaggio il museo pensi di trasmettere vendendo manoscritti antichi di cui dovrebbe essere custode». E l’inserzione ha scaldato gli animi così tanto da portare la coppia a cancellarla dal sito, ma non a rinunciare alla vendita. «Siamo obbligati, la Regione ci ha dimezzato di anno in anno i contributi. Vendiamo perché abbiamo bisogno di liquidità per andare avanti», ha confermato a La Stampa Corrado Basile, precisando che la vendita «non è intesa per privati ma solo per enti. Siamo già in trattativa con università italiane e straniere che si sono dimostrate interessate alla nostra proposta».
Il rubinetto chiuso
Da oltre trent’anni l’Istituto Internazionale del Papiro porta avanti attività di ricerca tecnico-scientifica e storica sul papiro. Il tutto grazie a finanziamenti pubblici che ne hanno riconosciuto il loro valore e successo. Ma da quando la Regione ha chiuso i rubinetti – i 117 mila euro erogati per l’ente privato nel 2009 sono diventati 66 mila nel 2013 e 15.750 nel 2017 – tutto è diventato più difficile. Ma quanto si potrebbe guadagnare dalla vendita? «Difficile da dirsi, ci sono molti fattori che influiscono sulla cifra», spiega Federico Bottigliengo, consulente dell’archivio storico della casa d’aste Bolaffi. «Alcuni frammenti demotici vengono venduti a 100 dollari l’uno, ma si può arrivare a cifre più consistenti, come 10 mila euro per sette frammenti di un unico documento, sino agli oltre 60 mila per un papiro da un metro. In ogni caso si tratta di reperti molto rari, praticamente introvabili sul mercato».
La città
«Questo tentativo di vendita è un grandissimo peccato perché spoglia la nostra città e la nostra regione di un patrimonio antico che appartiene all’intera comunità», afferma Francesco Italia, vice sindaco di Siracusa, nonché assessore alla cultura. In questi anni «il museo - pur essendo un ente privato - è sopravvissuto grazie alle sostanziose contribuzioni di Regione e Provincia. E anche se il Comune non ha una competenza diretta su questo museo, ci impegneremo per evitare questa vendita, chiedendo però a Basile di fare uno sforzo e progettare modelli di gestione differenti che non si basino esclusivamente sui finanziamenti pubblici», sostiene Italia.
«Il museo ha una sede di pregio, l’ex convento di Sant’Agostino in Ortigia, di proprietà della Regione, per cui verosimilmente non paga l’affitto. Poi può contare sugli introiti di biglietteria e sui corsi di formazione». Insomma, una soluzione ci sarebbe per salvare il museo: uscire da una gestione esclusivista, collaborando con la città e condividendo gioie e dolori. Papiri inclusi.

Repubblica 9.6.18
Madri costituenti
Filosofa mistica, attivista partigiana, il 26 novembre del 1942 muore – o si lasca morire – il 24 agosto nel Sanatorium di Ashford, nel Kent quando non aveva ancora compiuto 34 anni
Se Simone Weil avesse fatto l’Europa
Alla Scuola Normale di Pisa si tiene il convegno “Simone Wel. Filosofia e nuove istituzioni per l’Europa”
di Roberto Esposito


Mai come in questi mesi, in cui perfino l’esistenza dell’unità europea appare in discussione, un’analisi limpida sulle radici della sua crisi appare ineludibile.
Tanto più se iniziata in anni ben più tragici, come quelli in cui su mezza Europa sventolava ancora la croce uncinata nazista. Mi riferisco alla riflessione, intensa e febbrile, sulla ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa condotta da Simone Weil nei primi mesi del 1943, quando comincia a delinearsi la sconfitta di Hitler. Già esule a Marsiglia per sfuggire alla persecuzione nazista, Simone, dopo una breve permanenza a New York, implora i capi della Resistenza francese di accoglierla in Inghilterra con parole che sembrano provenire da un altro mondo: «La supplico – scrive a Maurice Schumann, portavoce di De Gaulle – di procurarmi la quantità di sofferenze e di pericolo necessari a impedirmi di consumarmi sterilmente nella tristezza».
L’unica scelta, personale e politica, che le sembra degna è la partecipazione in prima persona alla battaglia in corso in Europa – anche al prezzo della morte. Così, già stremata nel corpo e nell’anima, il 26 novembre del 1942 sbarca a Liverpool.
Ricoverata nell’aprile successivo in ospedale, muore – o si lasca morire – il 24 agosto nel Sanatorium di Ashford, nel Kent.
Eppure le bastano quei pochi mesi – impiegata come redattrice dei servizi di France Combattante – per produrre una serie impressionante di proposte, progetti, scritti di straordinaria energia intellettuale, orientati a pensare il futuro dell’Europa, una volta liberata dall’artiglio nazista.
Essi sono adesso raccolti nell’importante volume di Castelvecchi Una costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito. Già l’idea, mai realizzata, di paracadutare sulla linea del fronte un gruppo di infermiere per soccorrere i feriti dà il senso della radicalità del suo punto di vista: solo un estremo coraggio volto al bene può battere quello, volto al male, delle truppe tedesche. Ma ciò che conta è la necessità di dar vita a nuove istituzioni capaci di fronteggiare la crisi di civiltà che ha portato l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione. Perché la malattia mortale che ha investito il continente europeo – fermata sulle rive della Manica solo dalla resistenza eroica dell’Inghilterra – è nata nelle sue stesse viscere. Ma se ciò è vero, non basterà la vittoria militare e la spartizione del mondo che ne seguirà a rimettere sui cardini una storia irreversibilmente interrotta dal diffondersi della peste bruna. Né la brutale dittatura sovietica né la potenza tecnica americana riusciranno a ricostruire l’Europa in macerie in assenza di un ripensamento globale su quanto è accaduto.
Proprio la Francia sconfitta e umiliata – la Weil scrive prima dello sbarco degli Alleati in Normandia – è il luogo da cui l’Occidente può trovare la spinta per ripartire. Solo chi ha conosciuto il dolore dei vinti può progettare il futuro con un atteggiamento non fondato sul prestigio della forza. È un insegnamento – richiamato nelle intense pagine che Giancarlo Gaeta le dedica in Leggere Simone Weil, appena edito da Quodlibet – da non lasciare cadere neanche oggi. La sconfitta, con tutte le tragedie che comporta, ha in sé una potenza costituente che a volte manca alla vittoria. Perciò è dalla sconfitta, prima che diventi vittoria, che bisogna ripensare le istituzioni a venire. A partire da una nuova fonte di legittimità, che non può che essere una rinnovata idea di giustizia. Se si rileggono le Riflessioni sulla rivolta, le Idee essenziali per una nuova Costituzione, ma soprattutto la Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, tutti contenuti nel volume citato, si coglie l’entità della svolta reclamata dalla Weil. E anche la sua estraneità ai paradigmi circolanti negli ambienti intellettuali del tempo.
Senza fermarsi sulla Nota sulla soppressione generale dei partiti politici – che sembra anticipare qualcosa che si va realizzando solo oggi con conseguenze tutt’altro che rassicuranti – ciò che colpisce è il contrasto con le idee del fronte progressista del tempo. Negli stessi anni in cui Jacques Maritain scrive il suo manifesto sui diritti dell’uomo e la legge naturale, Simone Weil sposta l’accento sugli obblighi. La sua tesi è che se si parte dalla rivendicazione di diritti – come ha poi fatto la cultura di sinistra postbellica – si resta dentro il lessico della contrattazione, effettuale solo se ha dietro di sé una forza capace di imporla. Se invece si rovescia l’ottica, partendo dai doveri verso ogni essere umano, si entra in un orizzonte diverso, governato non da altro che dalla Giustizia. Allora soltanto, secondo Simone, potrà nascere una nuova civiltà morale in cui si darà il primato ai bisogni dell’essere umano. Bisogni del corpo – nutrimento, calore, sonno, igiene, aria pura. E bisogni dell’anima – verità, libertà, intimità, ma anche radicamento in un ambiente necessario alla vita. Gli uomini hanno bisogno di progettare il proprio futuro, ma non possono fabbricare, secondo l’interesse del momento, il passato. È quanto ha tentato di fare il nazismo, sostituendo il passato reale con un altro inventato ad arte, funzionale alla soppressione e alla schiavizzazione. Il riferimento al passato è necessario a costruire il futuro perché la sua perdita produce l’inaridimento dello spirito e l’avanzata del deserto.
Siamo sicuro che questo rischio sia solo alle nostre spalle?

Corriere 9.6.18
Personaggi In un libro di Nicola Attadio (Bompiani) le avventure della prima leggendaria giornalista investigativa americana, una donna orgogliosa e libera
Fingersi matta per raccontare il manicomio, la sfida di Nellie
di Luisa Pronzato


Irrequieta e libera. Negli anni in cui era impensabile per le donne strapparsi la pelle di madri e mogli «per natura», la quindicenne Elizabeth Cochran ha già chiaro che mai la sua vita dipenderà da un uomo: «Mai barattare la propria dignità in cambio di sicurezza». Elizabeth vuole per sé un lavoro (che sconcezza!) e non uno qualsiasi, inoltre ha un forte senso di giustizia che le dà uno sguardo capace di partire da sé per entrare nelle condizioni degli altri.
Siamo a cavallo tra Otto e Novecento. Soffia quel vento di cambiamento sociale in cui si muovono i primi passi dell’indipendenza (innanzitutto economica) femminile. La ragazza ha il fiuto del cronista e la capacità di mettersi in gioco. Lo farà diventando, con il nome Nellie Bly (una donna non può firmare con il suo nome), la prima reporter sotto copertura del giornalismo americano. E non solo.
Ora Nicola Attadio, autore e conduttore della trasmissione Vite che non sono la mia (Radio3), mette mano alle cronache del tempo e agli articoli della coraggiosa giornalista. E compone un romanzo-saggio-biografia, Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly, a free american girl (Bompiani), e ci porta un vento che, proprio perché lontano, mostra limiti che oggi non riusciamo più a vedere.
Il racconto si sviluppa su più piani: la storia del giornalismo, le condizioni sociali durante la rivoluzione industriale e la vita di Nellie, una donna che incide sul cambiamento.
Giornalista, prima corrispondente americana sul fronte orientale della Grande guerra, poi manager d’azienda e di nuovo giornalista (inventa una rubrica in cui mette in contatto chi chiede aiuto con chi può darlo), Nellie ha bruciato tutte le tappe dell’emancipazione. Ribellandosi. Ogni volta che qualcuno cercherà di rimetterla al suo posto.
Il primo atto è una lettera ribelle al «Pittsburgh Dispatch». Ha vent’anni e la sua rabbia per mostrare quello che tutti vedono, ma non dicono, svela un talento che convince il direttore del quotidiano ad assumerla. Nel primo articolo racconta le «ragazze senza» (bellezza, denaro, talenti) e puntualizza due temi fondamentali dell’emancipazione femminile: la libertà si conquista attraverso il lavoro e la parità di paga con gli uomini. La sua irrequietezza la porterà a New York, al «World» di Joseph Pulitzer, con il reportage sul manicomio femminile, dove si fa internare. Diventa una celebrità. Non basta: le convenzioni incarnate dai direttori cercano di respingerla in un giornalismo più adatto alle donne.
Nellie non si piega. Convinta che l’informazione è utile se migliora la vita delle persone e che il giornalismo deve denunciare per cambiare. Non ha ideologie, Nellie, salirà sul palco delle suffragette quando già è popolare come testimonial della lotta per il voto alle donne. Il «vento» di Nicola Attadio ce la porta con le sue debolezze e forze. Oggi che l’emancipazione femminile, dopo l’accelerazione di quel periodo, procede a passi incerti, c’è ancora più bisogno di quella responsabilità. Hai l’illusione di libertà. Quella libertà, però, te la devi ancora creare. Un secolo e mezzo dopo l’irrequieta free american girl mostra ancora una strada.

Repubblica 9.6.18
La storia
Le linee rosse
Da Sarajevo a Douma quelle sporche guerre sporche
Dal 1945 nessuna grande potenza ha ufficialmente aperto un conflitto con un’altra nazione Ma almeno 40 Paesi hanno vissuto una “dirty war”. E sono morte milioni di persone
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON «Ci sarà – cinguetta al mattino di sabato il presidente americano Trump su Twitter rivolgendosi a Putin, ad Assad, all’Iran – un grande prezzo da pagare» per l’ennesima strage di innocenti gassati in Siria, ma nessuno, neppure Trump, dice o sa “che cosa” possa essere questo prezzo.
Sappiamo invece, con assoluta certezza, “chi” lo pagherà: le stesse donne, gli stessi uomini, gli stessi bambini che da decenni e a decine di milioni hanno pagato con la loro vita le “sporche guerre” che insanguinano il mondo.
La Siria, dove dipanare il gomitolo dei “buoni e cattivi” , fra mercenari, droni, potenze straniere, sette, alleanze di oggi che diventano le ostilità di domani è impossibile, è soltanto l’ultima e la più visibile evoluzione della guerra nell’età nucleare.
Dall’agosto del 1945, quando la prima bomba A polverizzò Hiroshima e poi dal 1949, quando Stalin esplose il suo primo ordigno nucleare sigillando l’equilibrio del reciproco annientamento, nessuna grande potenza ha più dichiarato guerra a nessun’altra nazione. Le guerre, legalmente parlando, non ci sono più.
Ma sotto la copertura dell’ombrello atomico, le “dirty wars” sono cresciute e si sono diffuse come funghi velenosi.
Potenze maggiori e minori, grandi interessi economici, despoti e odi regionali o religiosi hanno continuato a combattersi in guerre dette “a bassa intensità”, “asimmetriche”, o “proxy war”, guerre combattute per procura, da terzi per conto dei principali. E la Siria, dove sono stati risucchiati Russia, Usa, Iran, Turchia, Arabia Saudita ed Israele, è soltanto l’apoteosi più sporca del sudiciume bellico sgorgato dalla fogna della Guerra Fredda.
Quante siano state le vittime di queste piccole guerre micidiali è un conto che nessuno può fare, perché ai bambini asfissiati dalle bombe di Assad o alle donne disintegrate nelle bombe esplose nei mercati di Baghdad andrebbero aggiunti i morti dell’indotto delle guerre: profughi, malnutriti, malati, migranti della disperazione annegati o stroncati dalla diaspora della fame. Qualche ricercatore parla di almeno 30 milioni di caduti, un totale da conflitto mondiale, quale di fatto questa collana di “sporche guerre” rappresenta. E se fare un censimento di questo cimitero globale è impossibile, è invece possibile fare l’appello di tutte le nazioni dove sono state, o sono ancora, combattute. Occorre pazienza a leggere tutta la lista, ma va letta, per capire l’enormità di questa piccola grande guerra mondiale che si trascina, si arresta e si riproduce dalla fine del Secondo Conflitto. Partiamo: Afghanistan. Angola. Argentina.
Bolivia. Cambogia. Chad. Cile.
Colombia. Congo (Zaire). Corea.
Cuba. Congo. Repubblica dominicana. El Salvador. Timor est. Etiopia. Filippine. Georgia.
Grenada. Grecia. Guatemala.
Haiti. Honduras. Indonesia. Iran.
Iraq. Israele/Palestinesi. Libia.
Laos. Nepal. Nicaragua. Pakistan.
Panama. Siria. Sierra Leone.
Somalia. Sudan. Ucraina.
Ungheria. Vietnam. Yemen. Ex Yugoslavia.
Sono almeno 40, un quinto del totale rappresentato all’ Onu, le nazioni a essere state travolte da guerre che definiamo per ipocrisia “sporche”, perché devono la loro definizione alla sanguinosa opacità delle ragioni e delle intenzioni. Le mosse delle grandi potenze come gli Stati Uniti, responsabili e promotori di tanti fra questi conflitti sono a volte visibili, come in Ucraina dove Putin annette territori per allontanare dalla Russia i confini della sfera euro-americana e i suoi missili antimissile. In altri casi, come nella tragedia siriana, sono avviluppati in manovre di interessi locali. Il mondo che si chiama civile si scuote soltanto quando le schegge di queste guerre lo raggiungono attraverso quel terrorismo detto “jihadista” che proprio il mondo “civile” scatenò con i suoi interventi e invasioni: dall’Urss nell’Afghanistan del 1979, all’Iraq del 2003, disintegrato da George W. Bush per “esportare la democrazia”.
Per questo, le fanfaronate via Twitter di Trump lasciano tutte le parti completamente indifferenti, come già quella vuota minaccia verso Assad pronunciata da Obama, quando avvertì il dittatore siriano di «non superare la linea rossa» dell’uso di armi chimiche: linea che superò impunemente.
Proprio Trump, 48 ore prima di minacciare prezzi terribili, aveva ripetuto che gli Stati Uniti se ne sarebbero andati dalla Siria.
Nessuno ha paura del lupo cattivo. La storia delle sporche guerre accese o manipolate da forze esterne non lascia spazio ad alcun ottimismo o speranza. Dal prototipo della sudicia guerra civile nella Grecia fra il 1946 e il 1949 pilotata da Stalin e Truman al mattatoio siriano di oggi, le piccole guerre calde sono il tributo di sangue che il resto del mondo ha pagato per evitare una nuova grande guerra, alimentando quel complesso militar industriale che deve trovare clienti.
Se il resto del mondo non fa niente per fermarle è perché conviene ai potenti: a Douma, sotto le bombe di Assad, si muore asfissiati anche per noi.

Il Fatto 9.6.18
Il gas di Assad fa strage Trump fa la voce grossa
Probabile uso di gas nervino contro le aree ribelli. L’alleato di Putin e Iran approfitta della smobilitazione americana per finire di debellare i jihadisti
Il gas di Assad fa strage Trump fa la voce grossa
di Fabio Scuto


Ieri sera il gruppo di ribelli che si riconosce in Jaish al-Islam – il gruppo islamista finanziato dall’Arabia Saudita – e che cercava di resistere nella Ghouta orientale e nella città di Douma, ha deciso per la resa e l’evacuazione. I suoi miliziani con le loro famiglie potranno dirigersi attraverso un “corridoio concordato” verso Jarabulus, la città controllata dall’opposizione nel nord della Siria. La situazione dei ribelli a Douma, vicino alla capitale Damasco, era terribile già prima del presunto attacco di armi chimiche di sabato. Ma le terribili fotografie delle vittime e l’enorme numero di feriti a causa del misterioso gas hanno mandato un messaggio chiaro ai ribelli: non possono sopravvivere combattendo contro l’esercito siriano.
L’attacco solleva una domanda: perché era così urgente per Assad usare armi chimiche su un fronte in cui la vittoria è imminente e quasi assicurata? Perché Assad adesso può farlo. Il presidente siriano ha capito che il presidente degli Stati Uniti Trump intende ritirare presto le sue forze dalla Siria, entro 6 mesi tutti fuori l’ordine segreto della Casa Bianca, e non c’è nessuno che si frappone sulla sua strada.
La Russia sta dando pieno sostegno militare e diplomatico ad Assad, gli iraniani e il potente gruppo libanese Hezbollah sono dalla sua parte. Non esiste uno Stato che possa fare da contrappeso a Mosca o anche a Teheran nella competizione per il futuro della Siria. Assad sa che è libero di massacrare, uccidere, bombardare e devastare ogni enclave dell’opposizione, grande o piccola. Anche se ha bisogno di usare di nuovo armi chimiche.
Dopo gli annunci di Trump è probabile che il leader siriano pagherà il prezzo sotto forma di qualche missile Tomahawk americano – come avvenne anche sotto la presidenza Obama – per colpire una delle basi militari del regime, ma è anche abbastanza chiaro che gli americani non andranno oltre. Sarà una rappresaglia spuntata e assai costosa in termini di dollari. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non prenderà provvedimenti finché i russi appoggeranno Assad, per il resto la “comunità internazionale” – grazie anche a quanto accade a Gaza – è una definizione che è stata resa priva di significato e peso per quel che riguarda il Medio Oriente.
Assad sta violando l’accordo per la rimozione delle armi non convenzionali dalla Siria che vennero raggiunte tra Obama, Russia e Damasco dopo un attacco chimico su larga scala nel 2013. Adesso il leader siriano scommette sulla sua impunità. Inoltre, l’uso delle armi chimiche può ridurre i combattimenti, non solo nella regione di Douma o nella Ghouta orientale. La prossima fermata per Assad sarà la “pulizia” dei gruppi islamisti che si trovano nel Golan e della regione di Idlib, in una spinta destinata a ripulire interamente la Siria dai ribelli. Le immagini di quelle donne e bambini che schiumano dalla bocca mandano un messaggio chiaro ai ribelli di quelle zone: questo sarà il tuo destino se decidi di combattere il regime.
Il vertice del 4 aprile in Turchia fra Mosca, Ankara e Teheran ha dato un’idea pericolosa del futuro regionale. Questo gruppo è diventato strategico nella definizione del nuovo Medio Oriente e della forma che prenderà. Il gruppo non è coeso e la sua capacità di resistenza è incerta. Gli Stati Uniti stanno per passare la mano. E già emerge una nuova architettura.

Repubblica 9.6.18
Il conflitto in Siria
L’errore americano
di Lucio Caracciolo


Ogni giorno che passa in Siria, la vittoria di Bashar al- Assad diventa più concreta. E palese appare la sconfitta dei ribelli sostenuti dall’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti e alle principali potenze atlantiche. L’ennesima strage di civili a Duma, nella Ghuta orientale, che secondo fonti ribelli e occidentali sarebbe da attribuire all’impiego di gas letali da parte del regime, sancisce la resa dei miliziani filosauditi di Jaish al- Islam e rafforza Damasco nella convinzione di poter completare il controllo sulle regioni strategiche del paese, grazie al supporto della strana alleanza Teheran-Mosca-Ankara. Ovvero tra due potenze — Iran e Russia — che Washington bolla nemiche e una — la Turchia — che appartiene alla sua ( e nostra) alleanza, la Nato. Ma non per questo si accoda agli Stati Uniti. Anzi.
Questo paradossale triangolo è frutto dell’incredibile sequenza di errori, esitazioni e virate tattiche compiute dagli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la fine della guerra fredda. In particolare, con la liquidazione di Saddam che ha consegnato l’Iraq all’influenza iraniana, favorendo così un asse Beirut (Libano)-Herat (Afghanistan occidentale) via Damasco e Bagdad, centrato su Teheran. Il rapsodico appoggio occidentale ai vari gruppi ribelli — in parte neo — o veteroqaidisti, in altra parte solo velleitari, comunque formidabili nell’annullarsi reciprocamente — ha convinto i nemici ma soprattutto gli amici di Washington che degli Stati Uniti non c’è da fidarsi. Non fosse che per l’incoerenza fra promesse e inazioni, retorica militarista e disimpegno militare. Ne sanno qualcosa i curdi siriani, chissà perché convinti che gli americani potessero scendere in guerra contro i turchi, formalmente loro alleati, per lasciar nascere un Kurdistan siriano a ridosso delle aree anatoliche in cui operano i confratelli del Pkk, nemici giurati di Ankara.
Le oscillazioni della politica americana in Siria e nella regione si debbono ai dissidi fra le fazioni che nell’establishment americano decidono — più spesso non decidono — la geopolitica a stelle e strisce. Vi contribuiscono poi l’erraticità dei presidenti, volti visibili e rappresentativi dell’America nel mondo. Dalle velleità rivoluzionarie di Bush figlio, che nella versione neocon evocava il “ Nuovo Medio Oriente” liberale, democratico, quindi filo-americano; al mezzo disimpegno di Obama, frenato dai militari e passato alla storia per il bluff della “linea rossa” che avrebbe indotto la superpotenza a liquidare al-Assad nel caso mettesse mano al gas nervino; fino al tragicomico festival dei tweet trumpiani.
Nel giro di pochi giorni, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha prima fatto sapere che avrebbe riportato a casa al più presto le sue scarse truppe ( 2 mila uomini circa) dato che ormai lo Stato Islamico era defunto, poi ha lasciato filtrare che a malincuore ci aveva ripensato perché avrebbe consegnato la Siria al pur improbabile asse Iran- Russia- Turchia. Infine — ma attendiamoci ulteriori puntate — ieri si è scagliato contro “l’animale” al-Assad assicurando che pagherà un “ forte prezzo” per il massacro di Douma. Vedremo. Certo che un nuovo bombardamento punitivo contro installazioni del regime non potrebbe alterare gli equilibri sul terreno.
La guerra non è finita. Si apre una nuova fase, in cui i provvisori vincitori dovranno spartirsi il bottino, demarcare le linee di influenza, valutare la tenuta della loro intesa. Non è scontato che accada. La storia informa che fra Turchia, Russia e Iran, potenze imperiali, le dispute hanno di norma prevalso sulle intese. Allo stesso tempo, non si vede come gli Stati Uniti possano decidere di rientrare a pieno regime in Medio Oriente, dopo averne declassato il valore geostrategico ed economico. A meno che le ambizioni della Cina, sempre più attiva e influente nella regione, non inducano una revisione strategica a Washington. Quanto a noi europei, coltiviamo una certezza: altre masse di siriani disperati busseranno via Turchia alla nostra porta. Deciderà il sultano se riaprire o meno la rotta balcanica, peraltro mai ermeticamente chiusa. E se no, in cambio di cosa.

Il Fatto 9.6.18
A sinistra è ora di azzerare (davvero) la classe dirigente
Esiste una quota di elettorato dispersa, un popolo ancora “progressista” che chiede giustizia sociale Ma che sia pronto a tornare all’ovile è assai dubbio, almeno fino a quando si vedranno in giro ancora le stesse facce
di Mirko Canevaro


Nella vignetta di Altan, alla constatazione del marito che “non c’è più sinistra”, la moglie reagisce preoccupata: “Oddio, adesso mi resti tutto il giorno per casa a girare in ciabatte”. Oggi, metaforicamente a casa in ciabatte, cerchiamo una scusa per uscire. Il congresso di Possibile? LeU fonda un partito? Potere al Popolo continua l’avventura? Il PD si derenzizza? Tutti a ricostruire la sinistra (che fino all’altro giorno andava invece riunificata), ripartendo dal lavoro, dalle periferie. Perché, pare, c’è un bisogno di sinistra che la sinistra non ha saputo intercettare, e per questo gli elettori di sinistra sono andati altrove, per cui la sinistra è scomparsa (dal parlamento). Eh?
C’è qui in azione uno slittamento semantico. La sinistra scomparsa è una classe dirigente depositaria di una tradizione (comunista, socialista ecc.) portatrice di istanze, appunto, di sinistra. Il suo elettorato smarrito sarebbe anch’esso legato a quella tradizione. E questa tradizione è di sinistra nel senso che ha come priorità l’eguaglianza e la giustizia sociale, nella definizione di Bobbio; “non dà retta alla storia”, come scrisse Vittorio Foa. Insomma, con sinistra stiamo indicando quattro cose diverse: una classe dirigente, un elettorato, una tradizione e infine una categoria di analisi politica.
Ora, chi parla di “ricostruire” la sinistra parla in realtà della preservazione di quella classe dirigente, con una discontinuità politica magari, ma nel segno della continuità biografica. Si può fare? No. Non è nemmeno un giudizio di valore, è una constatazione. Intanto perché c’è troppo passato, troppo da rinfacciarsi. I dibattiti recenti sulla riunificazione, per dire, guardavano indietro, a chi si è unito o scisso quando, a chi ha fatto o votato cosa. Ai tempi del maccartismo, in America, si inventò la categoria degli antifascisti prematuri: tutti erano stati antifascisti negli Anni 40, chiaro, ma quelli degli Anni 30, che magari avevano anche combattuto in Spagna contro i falangisti, quelli erano antifascisti prematuri, sospettati quindi di simpatie comuniste.
Ecco, nella sinistra italiana abbiamo addirittura la categoria degli scissionisti prematuri – il momento giusto per uscire era, pare, esattamente quello in cui sono usciti D’Alema e Bersani, prima era irresponsabile ed estremista (Civati è bordeline). Suvvia. E poi semplicemente perché, come dimostrato dal voto, la gente non li può più vedere – che possono dire quello che vogliono, ma non ci crede nessuno.
Tomaso Montanari queste cose le ha capite e scritte. Sono rimaste, spiega, solo macerie, da cui non si può ricostruire. Come lui, Peppino Caldarola parla di “togliersi dalle palle” – una classe politica e una generazione (o più d’una) insieme. Montanari dice di lasciare perdere anche le “storie passate”. Però, conclude: “C’è bisogno di sinistra perché c’è bisogno, ora come non mai, di uguaglianza, inclusione, giustizia sociale, democrazia. Ed esiste ancora un vasto popolo di sinistra: perduto, demoralizzato, silenzioso, elettoralmente disperso o astenuto”. E qui casca l’asino: ci sarà pure un popolo che chiede giustizia sociale, ma che questo sia un popolo di sinistra, disperso ma pronto a tornare all’ovile, è dubbio.
È di sinistra magari accademicamente, perché la giustizia sociale è di sinistra. Ma molti, in quel popolo, a sentire la parola sinistra mettono mano alla pistola. Per loro, cioè, la sinistra non è invotabile solo come classe dirigente. È invotabile come tradizione, perché in Italia c’è un senso comune anti-sinistra: decenni di detriti, dallo stalinismo del PCI nel dopoguerra alla violenza degli anni di piombo, dall’anti-comunismo rinfocolato da Berlusconi agli inciuci, alla terza via blairiana abbracciata dagli ex-comunisti, e poi la corruzione, Renzi, il Jobs Act, Consip, la riforma costituzionale, e infine le liste di LeU, i litigi. Per la maggioranza degli italiani la sinistra è tossica. Forse lo è sempre stata.
Queste cose le scrivo col cuore spezzato – citando Altan, in ciabatte. Per me (e per molti) la sinistra è un’altra cosa: citavo Bobbio e Foa; e poi gli albori del movimento operaio, William Morris e Rosa Luxemburg, E.P. Thompson e magari Che Guevara, Guccini, Jimmy Reid. Ognuno di noi ha la sua, di sinistra. Ma la sinistra per la maggioranza degli italiani è quella lì. Per questo il M5S si impunta che il reddito di cittadinanza non è di sinistra e Renzi fece il 40% dicendo che era oltre la sinistra… Ora, a me è sempre parso che chi dice che non ci sono più né destra né sinistra sia in genere di destra. Ma, visto che siamo tra le macerie e ci tocca tornare a studiare e pensare, vale forse la pensa di domandarsi se, per chi crede nella giustizia sociale, questo attaccamento emozionale alla sinistra non sia una zavorra.
Questa è stata, per dire, la posizione intransigente di Podemos in Spagna, e questa è la posizione del neonato movimento nostrano Senso Comune. In UK invece il nuovo di Corbyn si è posto con successo in continuità con la tradizione del Labour, rompendo con gli apostati del New Labour. A ognuno la sua via fuori dal pantano. Non so quale sia la nostra. Solo, mentre ne discutiamo, teniamo a mente che il punto non è cantare Contessa (in ciabatte) e dirci figli o nipoti di Ingrao o Berlinguer. Il punto è avanzare la causa dell’eguaglianza e della giustizia sociale, no? Diciamolo sottovoce, il punto è fare cose di sinistra…

La Stampa 9.6.18
Ora la minoranza Pd punta ad affossare Renzi all’Assemblea
La resa dei conti è fissata il 21 aprile. “Poi i parlamentari si adegueranno” Ma l’ex segretario conta di riuscire a bloccare le aperture al M5S
di Alessandro Di Matteo


Qualcuno che conosce bene il Pd lo chiama «il partito di Mattarella», altri genericamente parlano di «anti-renziani», ma qualunque sia l’etichetta un dato è certo: nel Pd cresce ogni giorno il fronte che spinge per un dialogo con i 5 stelle e, più in generale, per stanare il partito dalla linea di opposizione a tutto e a tutti tracciata da Matteo Renzi. Un fronte che arriva a lambire la stessa cerchia renziana e che prova a offrire al Capo dello Stato anche la carta del Pd, da giocare al tavolo da poker della formazione del governo. Goffredo Bettini è il più audace, insieme a Michele Emiliano arriva a teorizzare il sostegno Pd a un esecutivo guidato persino da Luigi Di Maio, a certe condizioni.
Bettini si spinge forse troppo in là, un governo Di Maio sarebbe difficilmente accettabile anche per chi come Dario Franceschini o Andrea Orlando in queste ore lavora per scardinare il bunker costruito da Renzi. Ma un governo guidato da una personalità autorevole, gradita ai 5 stelle ma non organica per buona parte del Pd - da Walter Veltroni a Nicola Zingaretti, passando per Romano Prodi ed Enrico Letta - sarebbe da prendere in considerazione.
L’obiettivo adesso è di fare emergere chiaramente questo fronte anche all’assemblea del 21 aprile. «Lì si faranno i giochi - dice un esponente della minoranza del partito. Dobbiamo fare vedere plasticamente che Renzi non ha più il 70% del partito che lo sostenne al congresso. Se ci riusciamo, anche i gruppi parlamentari poi si adegueranno, come accadde con Bersani...».
Lo scopo è fare uscire allo scoperto anche quella che molti chiamano «zona grigia» del renzismo, ovvero quell’area che comprende Paolo Gentiloni, Marco Minniti... Qualcuno, per esempio, ieri ha notato il tweet con cui Debora Serracchiani ha replicato a Di Maio: «O ci parla di contenuti oppure gli appelli di Di Maio al Pd sono aria fritta. M5s ha un programma o un bazar dove si vende o baratta un po’ di tutto?». Una risposta tagliente, ma che non chiude in maniera netta.
Franceschini, che è sempre più in contatto con Orlando, dopo l’apertura a Di Maio che chiedeva di «sotterrare l’ascia di guerra», ieri ha precisato che lo scenario non è il sostegno a un governo M5S: «Non mi pare sia questo il quadro». Il punto, ha aggiunto, è che «un governo Lega e 5 Stelle è quanto di peggio può capitare a un Paese» ed è bene provare a spingere M5s «verso una posizione riformista progressista piuttosto che venga risucchiato dalla Lega».
Orlando ripete che le distanze programmatiche con M5s sono «incolmabili», ma di fronte a un passo indietro del leader 5 stelle il discorso cambierebbe. Lui e Gianni Cuperlo riuniranno la sinistra Pd prima dell’assemblea e Cesare Damiano spiega: «Non si può immaginare di sostenere un governo 5 stelle. Ma l’eventuale chiamata del Colle per un esecutivo di responsabilità aperto a tutti potrebbe lasciare ancora alla finestra il Pd? Non credo».
Su uno scenario del genere ci sarebbe anche la disponibilità di Leu. Dice Federico Fornaro: «Per noi l’unico confine invalicabile rimane quello del sostegno a un esecutivo di centro-destra». Certo, i parlamentari di Leu da soli non bastano, al Senato sono solo 4 e la somma di Pd e M5s fa 161, ovvero il minimo per poter dare il via a un governo. «Non a caso - ricorda un parlamentare Pd - Renzi e i suoi sono tutti al Senato».
L’ex segretario Pd è convinto di poter stoppare ogni possibile accordo con M5s mettendo di traverso i parlamentari a lui fedeli. I renziani sperano che alla fine Salvini e Di Maio troveranno un accordo, ma sono pronti a bloccare qualunque larga intesa Pd-5 stelle. «Ma - avverte ancora il parlamentare della minoranza Pd - se parte il treno di un governo sull’asse tra noi e i 5 stelle vedrete quanti responsabili arrivano, a cominciare dai senatori del gruppo misto». Un braccio di ferro che, stavolta, potrebbe davvero far saltare il Pd e portare a una scissione.

Corriere 9.6.17
Rischio «suicidio»
Dietro l’angolo c’è l’autodistruzione
I partiti muoiono per suicidio, non per omicidio. Un partito si estingue quando ha smesso di capire la propria ragion d’essere. Il Pd sembra vicino a questa soglia
Il Pd di nuovo alla ricerca della sua ragion d’essere
di Luciano Violante


La sinistra attraversa una fase difficile in tutto l’Occidente. Dopo la fine del regime sovietico le forze socialdemocratiche si sono concentrate sulla mediazione tra le loro tradizionali aspirazioni e i modelli economici vincenti. Questi ultimi hanno prevalso. E ha prevalso non l’idea della trasformazione, ma l’idea della conservazione dell’esistente. Margareth Thatcher, richiesta nel 2002 di quale fosse il suo maggiore successo, rispose, con malizia: «Tony Blair e il New Labour. Abbiamo costretto i nostri oppositori a cambiare il loro modo di pensare». Di fronte all’arretramento della sinistra nella difesa della giustizia sociale e nei progetti di civilizzazione, la destra estrema ha occupato quel terreno proponendo progetti di difesa fondati sul nazionalismo e sulla costruzione del nemico: dazi, muri, sovranismo e razzismo.
Le difficoltà del Pd rientrano in questo quadro generale ma hanno anche cause specifiche, che vanno affrontate. Negli ultimi tempi quel partito ha oscillato tra un centro alla Macron e una sinistra socialdemocratica. Ora deve scegliere. Deve capire le domande del Paese e decidere le risposte.
L’Italia non è quel disastro che molti dipingono. Siamo tutt’ora una delle grandi economie del mondo; i nostri giovani sono richiesti da centri di ricerca e multinazionali in misura molto superiore a quella dei colleghi europei, segno che il sistema universitario funziona; alcune imprese italiane sono tra le migliori del mondo specie nella meccanica di precisione. Tuttavia permangono l’aggravamento delle diseguaglianze, la mortificazione della dignità del lavoro, l’umiliazione delle professioni della conoscenza, l’incerto destino delle giovani generazioni, relazioni tra pubblico e privato viziate da sospetto e sfiducia. I due partiti vincitori delle elezioni hanno cercato di dare risposte ai problemi più gravi. In alcuni casi non erano condivisibili, ma durante la campagna elettorale sono state le uniche risposte. Onore al merito.
Per uscire dalla gabbia in cui si è chiuso, il Pd deve riprendere l’impegno per la giustizia sociale e per il progresso civile. Combattere le rendite, favorire i lavori, sostenere lo sviluppo civile, avviare una politica dei doveri: la sua ragion d’essere è questa. Il secondo partito italiano dovrebbe avere una posizione sulle più gravi questioni; non dovrebbe lasciare che esse vengano affrontate davanti a lui senza di lui. Non è questo che serve al Paese. Fare politica significa spostare forze attraverso la persuasione e l’esempio. Bisogna perciò decidere come costruire alleanze sociali e politiche che aiutino il conseguimento dei risultati. È necessario, infine, regolare i conflitti interni ed essere capaci di chiuderli. Scelte le cose da fare, si elegge il gruppo dirigente e il segretario. La competizione tra le persone senza una alternativa delle idee diventa tumultuosa anarchia. Il rischio del suicidio è dietro l’angolo. Ma dietro l’angolo c’è anche la possibilità di tornare a essere utili al Paese.

Repubblica 9.6.18
Intervista a Andrea Orlando
“Il Pd non deve temere l’incontro con M5S ma prima Di Maio chiuda alla Lega”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA Ministro Orlando, il reggente Martina dovrebbe incontrare Di Maio prima del prossimo giro di consultazioni?
«Non ho mai avuto paura del dialogo, ma la decisione compete a Martina. Il Pd non deve avere timore degli incontri. Nella chiarezza, ovvio. Di Maio però dovrebbe prima scoprire le carte davanti al Paese se vuole trasformare il risultato elettorale in una proposta che abbia un minimo di credibilità».
L’apertura dei 5 stelle contenuta nell’intervista a “Repubblica” è vera o è tattica?
«A me è apparsa strumentale nel senso che non aveva contenuti. Il suo ragionamento acquisirebbe una diversa serietà se il leader grillino esplicitasse il merito del contratto e soprattutto chiudesse a un’alleanza con la Lega».
Come?
«Prendendo le distanze da Salvini sui temi dell’immigrazione, respingendo l’ipotesi della flat tax che è il contrario della domanda di redistribuzione della ricchezza emersa dal voto. Non dico che cambierebbe la posizione del Pd, ma dal tatticismo passeremmo alla sostanza».
Resterebbero le critiche feroci contro le riforme dei governi Pd.
La Lega c’entra poco.
«In parte le cose coincidono.
Marcare una distanza da Salvini significa riconoscere la linea seguita dai nostri esecutivi su alcuni punti qualificanti: il posizionamento internazionale dell’Italia, la questione europeista, la collocazione occidentale e quindi la sconfessione delle simpatie putiniane che i populisti in Europa hanno espresso in questi anni».
Basta?
«Non è una condizione sufficiente, ma le demonizzazioni non sono compatibili con il confronto.
Cambiare tono, in democrazia, è un fatto positivo, è la condizione per evitare i veleni. Ma, se si condivide il giudizio di Salvini per cui tutti i mali del mondo nascono dal Pd, diventa difficile interloquire anche solo per convergere su singoli punti nella distinzione tra governo e opposizione».
Il dialogo serve a fare un accordo con i 5 stelle, non un’opposizione costruttiva. Il Pd invece ha congelato la sua posizione sul paletto messo da Renzi.
«Il dialogo serve comunque. Resto convinto che la linea indicata dalla direzione sia quella giusta.
Ma i 5 stelle devono esercitare un ruolo a prescindere da ciò che facciamo noi. Di Maio parla sempre di modello tedesco. La Merkel, nei negoziati, è partita dal programma della Cdu che era un programma di governo che teneva conto delle compatibilità. Di Maio parte da una serie di slogan».
Intanto il muro di Renzi regge.
«Non servono muri. L’esito più probabile è l’opposizione. Ma come dice Walter Tocci si può fare l’opposizione ma non deve passare il messaggio che corrisponda alla nullafacenza e su che fare si deve discutere».
La base dem sembra seguire la linea renziana dell’Aventino.
«Il sentimento è quello, anche per la campagna di aggressione che Lega e grillini hanno costruito contro di noi. La reazione è comprensibile, non va trascurata.
Ma se siamo affezionati a molte delle cose realizzate dai nostri governi, con il 18 per cento le difendiamo se sui singoli punti si dividono gli avversari, se si apre un dialogo con le forze che sono meno determinate di altre a cancellare quella stagione di riforme».
I 5 stelle?
«In caso di un asse Di Maio-Salvini un’opposizione senza iniziativa fa la spettatrice della cancellazione delle riforme fatte in questi anni.
In questo caso i dirigenti come si comportano? Spiegano agli iscritti e agli elettori che dialogare non signfica porgere l’altra guancia ma provare a disarticolare il fronte avversario».
Capiranno?
«Credo di sì. Proprio perchè vedo la possibilità di un patto tra 5 stelle e Lega e la probabilità di elezioni anticipate, conviene al Pd mostrare le distanze di programma da Di Maio anzichè ripetere semplicemente che ci ha offeso in campagna elettorale.
Scoprire le sue carte è l’unico modo per essere più forti di fronte a ogni eventualità futura».
Davvero dentro il Pd c’è una guerra social combattuta con gli stessi brutti metodi grillini?
«È un rischio reale e non è un problema di galateo. Se copiamo i loro vizi non capisco come facciamo a condannarli. Si possono criticare le posizioni dell’interlocutore, non è giusto invece delegittimarli sul piano personale. È un metodo che ci indebolisce e ci ha danneggiato nel voto del 4 marzo. È accaduto talvolta che colpendo le persone e non le posizioni abbiamo fatto credere agli elettori di non avere argomenti solidi».

Repubblica 9.6.18
Le differenze tra destra e sinistra
La democrazia del sorteggio
di Nadia Urbinati


I movimenti populisti nati in questo decennio di crisi hanno rivendicato una rappresentanza popolare al di là di destra e sinistra. Lo ha fatto Podemos e lo fa il M5S. Anche il centrosinistra ha flirtato con questo paradigma generalista. Ricordiamo la recensione di Matteo Renzi alla nuova edizione di Destra e sinistra di Norberto Bobbio del 2014, dove l’appena insediato presidente del Consiglio scrisse che la distinzione più aderente alla realtà era conservazione/ innovazione, non più destra e sinistra.
In un’intervista recente a Il Sole24Ore, Davide Casaleggio è andato ben oltre. Ha dichiarato che le « categorie novecentesche di destra, sinistra e centro» non fanno più parte del «vissuto dei cittadini». Ci sono solo «le persone perbene » . La divisione è morale. In un certo qual modo oggettiva; e quindi annulla la scelta: non ha senso dire che vado a votare per scegliere un candidato non perbene. È ovvio che tutti noi pensiamo di scegliere candidati perbene. Sulle «persone perbene» non vi è scelta. Ci vuole qualche cosa che le distingua.
La Rete è il luogo e il valore intorno al quale il parlamentarismo diretto del M5S si dipana. Nella tradizione di Adriano Olivetti, che già negli anni Cinquanta sognò una democrazia integrata senza partiti, Davide Casaleggio, fondatore di “Sum”, espone a Ivrea l’utopia della politica senza ideologia: la Rete è un diritto perché è uno strumento per condividere conoscenze e dati; la Rete crea comunità e nello stesso tempo consente un collegamento diretto tra cittadini e parlamentari. Senza passare per la mediazione dei partiti organizzati; usando solo un clic. Indubbiamente si tratta di una sfida radicale e vi è da credere che ci saranno sviluppi futuri nella democrazia del web. Tuttavia, due osservazioni meritano di essere considerate.
La prima riguarda il ruolo dell’interazione fisica nella politica: Jean-Jacques Rousseau, che dà il nome alla piattaforma del M5S, prevedeva che i cittadini della sua repubblica “ volassero” all’assemblea per votare sulle leggi. Voto diretto, ma anche convergenza in un luogo fisico. Si potrebbe obiettare che la vicinanza fisica era in effetti un orpello, visto che ciascun cittadino doveva ragionare in silenzio, senza interagire con gli altri. Ma la presenza fisica era un fattore imprescindibile; diversamente, Rousseau avrebbe optato per l’elezione di rappresentanti. Del resto, anche il M5S si è servito di presenza fisica diretta in campagna elettorale, poiché è irrealistico pensare che in tutti gli angoli del Paese vecchi e giovani usino Internet. La seconda osservazione riguarda il ruolo delle elezioni.
Forse destra e sinistra non esistono più nelle forme che avevamo conosciuto, ma è fuori di dubbio che differenze ci siano: la destra corrisponde oggi a un’idea identitaria di Paese e di Europa, nazionalista e xenofoba; la sinistra a un’idea di società più aperta, con politiche di integrazione e con un esplicito impegno di giustizia sociale. Un elettore non può evitare il giudizio politico o figurarsi visioni diverse del vivere democratico; la sua scelta non è fra dati che mostrano il candidato “perbene” e quello “ non perbene”. Le opzioni politiche sono costruzioni discorsive che danno senso alla scelta elettorale. Se davvero non ci fossero divisioni tra narrative, perché scegliere Di Maio invece di Salvini? Siamo logici: se le distinzioni sono decadute, perché votare? Non sarebbe meglio lanciare in aria una monetina e fare “ testa” o “croce”? In una democrazia in Rete che cancella non solo i partiti, ma anche le distinzioni di narrativa, le elezioni hanno poco senso; meglio usare il sorteggio.

Repubblica 9.6.18
Drammaturgo e scrittore, autore di Sweet Dreams
Michael Frayn “Diffidate della felicità è il mondo perfetto che genera mostri”
intervista di Anna Bandettini


MILANO Due grandi successi teatrali, una farsa e un dramma, hanno garantito a Michael Frayn, anche da noi, lo status di “ classico moderno”: 35 anni fa Noises Off — Rumori fuori scena, irresistibile pochade sulle sghangherate prove di uno spettacolo viste da dietro le quinte con la compagnia Attori e Tecnici fu un autentico cult comico, metafora di tante nostre ipocrisie. Anni dopo nel ’ 99 il successo si ripeté con Copenaghen e stavolta si raccontava il teso confronto, umano e scientifico, nel ’ 41 tra Niels Bohr e Werner Heisenberg gli scienziati dell’atomica, in un allestimento che, identico, sta facendo ancora in questi giorni il tutto esaurito al Piccolo Teatro di Milano con la stessa terna di attori di prim’ordine della prima replica Giuliana Lojodice, Umberto Orsini, Massimo Popolizio. Frayn, uno dei grandi scrittori inglesi contemporanei, lo ha visto e ne è rimasto entusiasta. Ha 84 anni, alto. Ha modi signorili sottolineati dalla semplicità dello stile, un po’ come la sua produzione letteraria, che intreccia grazia e ironia, impegno politico e leggerezza. Da giornalista, i suoi editoriali per The Guardian e
The Observer negli anni Ottanta divennero pezzi per la radio brillanti e divertenti, e da scrittore di sedici “ plays” teatrali e undici romanzi, con levità ha fatto convivere drammi e storie dilettevoli, saggi filosofici e racconti surreali. A quest’ultimo genere appartiene Sweet Dreams, racconto di un uomo che senza sapere di esser morto arriva in Paradiso e inizia a fare carriera.
Il libro, un classico della narrativa inglese, in Italia appena pubblicato da Atlantide, è la ragione per cui dalla sua casa di Richmond, nella periferia di Londra, Frayn è arrivato a Milano dove, prima di parlarne in pubblico, beve un “ coffe strong with milk” in un bar del centro, con la moglie, la scrittrice Claire Tomalin.
Mr. Frayn lei ha scritto “Sweet dreams” nel ’73. Che effetto le fa riparlarne dopo tanto tempo?
«Mi fa ripensare a quello che avevo in mente allora. Era una fase di grande ottimismo politico, la gente di sinistra riteneva possibile la costruzione di una società ideale, dove tutti sarebbero stati felici. Io ero scettico. Non ho mai pensato che la felicità sia come la crema pasticciera, che puoi versare sopra i fatti della vita. Replicai a quegli utopisti scrivendo Sweet dreams dove il mondo felice è qualcosa di artificiale, fuori dalle leggi reali, una storia anti-utopistica per dire che il mondo perfetto di amore, felicità, amicizia è impossibile. E con questo non voglio dire che la nostra società non possa essere migliorata. Dico solo che l’idea che tutto possa diventare perfetto è un sogno metafisico».
Secondo lei c’è chi insegue ancora questo sogno?
«Certi movimenti millenaristi in America e in Europa, e gli assolutismi sia politici sia religiosi capaci di giustificare ogni mezzo anche violento per il fine di ciò che considerano mondo perfetto.
Credere in una società perfetta è una bella utopia ma le conseguenze pratiche producono solo crudeltà e cose orribili. Per fortuna oggi la maggioranza delle persone è più disillusa, al più spera di migliorare le cose. Ed è più saggio. Certo, in Gran Bretagna siamo riusciti a peggiorarle».
Che vuol dire?
«Brexit è stata un guaio soprattutto per chi l’ha voluta.
Le persone stanno perdendo il lavoro, le aziende si trasferiscono, i prezzi aumentano. È straziante e non solo sul piano economico. L’idea che l’Inghilterra non possa sostenere il proprio ruolo in Europa è un fallimento per tutti. Dopo due guerre devastanti, avevamo costruito tutti insieme un sistema di collaborazione che, certo impone compromessi, ma ha garantito 70 anni di pace. È che le generazioni più giovani non si rendono conto di quanto siano state terribili quelle guerre. La gente dimentica tutto».
Proprio in “Copenaghen” lei evocava lo spettro degli armamenti nucleari.
«Le cose sono anche peggiorate.
Copenaghen guarda alle ragioni umane, perché le persone, anche certe grandi menti, fanno quello che fanno. Ma questo resterà un rompicapo per lungo tempo.
Basta vedere quante nazioni oggi hanno armi nucleari. E Usa e Russia stanno ampliano ancora il loro potenziale».
E però i russi hanno votato entusiasti Putin, e gli americani Trump.
«I russi considerano Putin colui che ha resuscitato il paese dal disonore del crollo del comunismo. Ha salvato il loro orgoglio nazionale. Ma Putin è un cinico ufficiale del Kgb, pronto a correre ogni tipo di rischio, sostenuto dai criminali. La Russia è una società criminale, ma la chiamano democrazia. E quanto agli Usa è incredibile che un paese civile abbia eletto uno zoticone ignorante. Sì, mi chiedo se riusciremo a sopravvivere a tutto questo».
Stiamo parlando di tragedie ma lei in Italia è stato a lungo considerato un autore comico per via di “Rumori fuori scena”. Ci si ritrova?
«Quando guardi il mondo, ci sono molte cose serie e terribili, molto dolore, ma ci sono anche molte cose assurde, divertenti perché assurde. Uno scrittore deve sentirsi libero di scrivere dell’uno e dell’altro».
Meglio col teatro o con la narrativa?
«Il teatro l’ho disprezzato a lungo perché da studente scrissi uno spettacolo che fu un fallimento, una cosa imbarazzantissima. Mi riconciliai solo verso i 39-40 anni.
Scrissi The Two of Us, quattro pezzi per due attori. Al debutto stavo dietro le quinte e pensavo che era più divertente di quello che stava succedendo in scena. Lì nacque l’idea di Noises off- Rumori fuori scena. E fu l’inizio di tutto».
Le ultime cose che ha scritto invece sono biografie: “Afterlife” una commedia sulla vita di Max Reinhardt, l’ideatore del Festival di Salisburgo e “My Father’s Fortune”, la vita di suo padre.
C’entra il suo amore per Cechov in questo sguardo verso il passato?
«Cechov ha scritto molto più sul futuro. Se penso a Tre sorelle o Zio Vanja, i personaggi parlano di un mondo che sarà più bello e perfetto tra 50-100 anni. Cechov non condivide, ma li lascia parlare. Ecco il grande scrittore».
Lei scrive ancora?
«Se avessi un’idea scriverei. Vado molto in giro per i miei libri o quelli di mia moglie. Torneremo presto in Italia, a Genova. Se ricorda nel Gabbiano di Cechov il dottore dice di essere stato in vacanza in Italia. Gli chiedono quale parte gli sia piaciuta e lui risponde Genova. Abbiamo pensato di andare a vedere perché al dottor Dorn piaceva tanto».

Repubblica 9.6.18
La questione molestie
Il colloquio Argento-Boldrini “Ecco perché in Italia #MeToo ha perso”
L’attrice e l’ex presidente della Camera, alla vigilia del summit di New York, raccontano l’anomalia del nostro paese
di Maria Novella De Luca


ROMA L’Italia ha perso la rivoluzione di #MeToo.
«Ho raccontato di essere stata stuprata da Harvey Weinstein quando avevo 20 anni, in Usa mi hanno creduta, Weinstein è stato cacciato, in Italia invece sono stata derisa e chiamata prostituta, mi hanno minacciata di morte insieme ai miei figli. Come possiamo aspettarci allora che le donne denuncino molestie e violenze se nel nostro Paese chi parla finisce sul banco degli imputati?».
Asia Argento e l’ex presidente della Camera Laura Boldrini si salutano con un abbraccio nel silenzioso chiostro di Palazzo Valdina, alle spalle di Montecitorio. Entrambe sono in partenza per gli Stati Uniti dove il 12 aprile parteciperanno al summit “Women in the world” organizzato dall’ex direttrice del “New Yorker” Tina Brown.
Invitate per raccontare “l’anomalia italiana”.
Perché a sei mesi dalla famosa inchiesta di Ronan Farrow sugli abusi sessuali nel mondo del cinema americano, la questione “molestie” è diventata un ciclone che sta travolgendo, negli States e non solo, ogni ambito lavorativo. “Me too”, anche io: migliaia le denunce, decine i maschi cacciati anche da posti di altissimo potere. Da noi invece il silenzio. Le sabbie mobili e il sospetto. Il caso Brizzi già dimenticato, le sue accusatrici definite mitomani. Ma anche le incredibili campagne di odio, quasi sempre a sfondo sessuale, che hanno segnato gli anni da presidente della Camera di Laura Boldrini, oggi deputata di Leu.
«Minacce di morte, minacce di stupro, minacce di qualsiasi abuso. E poche reazioni, come fosse normale. Abbiamo l’obbligo di chiederci perché».
Argento, Boldrini, partiamo da qui. Entrambe siete state bersaglio di feroci campagne sessiste. Le donne molestate continuano a tacere. Per paura, per rassegnazione?
Argento: «Le donne non denunciano perché io sono stata un terribile esempio. Magari, all’inizio, sentendo la mia storia e quella di tante altre vittime di violenza, forse avevano pensato anche loro di poter raccontare gli abusi subiti, avevano trovato un po’ di coraggio. Poi hanno visto come sono stata trattata, insultata, minacciata e di certo si sono tirate indietro. Ma la cosa più grave è che anche molte mie colleghe del mondo dello spettacolo, che avrebbero avuto la forza parlare, hanno taciuto. E questo mi ha fatto davvero soffrire».
Boldrini: «Ricordo quei giorni e la reazione, agghiacciante, anche di molte donne, di fronte al coraggio di Asia. Invece di dimostrarle solidarietà e ammirazione, dicevano che aveva aspettato troppo e magari aveva avuto dei vantaggi da quella storia. Si era capovolta la situazione. Un trattamento inaccettabile. Per questo ho chiesto ad Asia, che voleva lasciare l’Italia, di restare invece, per continuare a lottare insieme».
Però da noi il movimento #MeToo non ha attecchito.
Qualche appello, i cortei di “Non Una di Meno”. Ma nessun molestatore è stato licenziato.
Argento: «È di questo paradosso che parleremo al summit di New York. Sulla stampa americana io sono stata definita “eroica” per aver denunciato quello che mi era successo quando avevo 20 anni e in Italia invece colpevolizzata, proprio perché erano passati vent’anni e avevo continuato a fare l’attrice. Lo stesso paradosso per cui i leghisti bruciano in piazza l’effige della presidente Boldrini, ma alla fine tranne un po’ di proteste non succede nulla».
Boldrini: «Le donne tacciono perché hanno paura di non essere credute, di doversi addirittura giustificare, è la loro parola contro un sistema in cui nei talk show ci sono politici che confondono la molestia con il corteggiamento.
Per questo i molestatori non vengono messi al bando. Anzi sembra che non esistano. Invece è una piaga. C’è un pregiudizio fortissimo verso il mondo femminile, chi parla di sessismo e misoginia viene trattato con fastidio. Anche in politica».
Argento: «Pensate al processo alle ragazze americane stuprate da due carabinieri a Firenze. In aula è come se fossero state violentate di nuovo dai difensori degli imputati».
Ma non sarà invece che le donne stesse, per cultura o rassegnazione, ritengano la molestia un male inevitabile?
Argento: «Sì, in parte è così, l’ho vissuto sulla mia pelle. Dopo l’intervista a Farrow, mentre qui minacciavano di morte mia figlia sui social, avevo chiamato altre colleghe cercando solidarietà. E tante mi avevano raccontato il loro #MeToo: “Al provino il produttore era nudo”, oppure “mi ha chiesto di spogliarmi, ma in fondo non è successo niente”. Invece no, è violenza, è un trauma che ti resterà per sempre».
Boldrini: «Bisogna saper riconoscere la molestia. È entrata talmente nel costume che si è normalizzata. Si deve lavorare sulla consapevolezza. Fin dalle scuole. Ma questa rassegnazione è figlia anche della mancanza di libertà economica delle donne».
Difficile essere libere quando una su due non ha lavoro.
Boldrini: «Il 49% delle donne è disoccupato: i dati italiani sono una vergogna. Pensate al gap salariale. Per questo sto lavorando a un piano straodinario su occupazione e imprenditoria.
Senza autonomia economica è ben difficile liberarsi dalla violenza».
Argento: «In Italia ti dicono: Il capo ti ricatta sessualmente? E tu cambia lavoro. Ma non è giusto. Ho faticato una vita per arrivare qui. È il molestatore che deve essere licenziato, non io. Per questo le donne non parlano, nemmeno quelle affermate».
Quindi nel fallimento di #MeToo scontiamo un ritardo storico? Eppure i movimenti femministi sono forti e attivi.
Boldrini: «È vero. Ma le organizzazioni delle donne in Italia, pur facendo moltissimo, non sono abbastanza coese, non riescono ad avere il giusto peso e dunque contano meno, non riescono a fare lobby in senso positivo. C’è poi la responsabilità di molti media che continuano a ignorare colpevolmente le nostre mobilitazioni, coprendo magari quelle che avvengono all’estero».
Argento: «Il ritardo storico c’è.
Da noi il delitto d’onore è stato abrogato nel 1981, io sono stata stuprata nel 1997 ma soltanto un anno prima la violenza sessuale era diventata reato contro la persona».
Boldrini: «Ma non dobbiamo arrenderci. Quando il 25 novembre 2017 ho invitato 1.400 donne a Montecitorio, e ognuna di loro ha raccontato il proprio riscatto dalle molestie e violenze subite nella vita, ho capito che possiamo farcela. Del resto siamo il 51% della popolazione. Però dobbiamo puntare sulla scuola. E combattere la nuova frontiera della violenza sessuale sui social.
Ne sono vittime milioni di donne, ma soprattutto ragazzine».
Quindi educare alla parità...
Boldrini: «Nasce tutto da lì.
Quando ero piccola in famiglia eravamo cinque figli, due femmine e tre maschi. Erano gli anni Sessanta e in casa erano soltanto le bambine ad aiutare. Un giorno però mia sorella ed io abbiamo deciso di fare sciopero.
Non avremmo più fatto niente se anche i maschi non fossero stati coinvolti nelle faccende. Dopo due giorni di caos i nostri genitori decisero che era giusto. Per la mia crescita è stato fondamentale.
Voleva dire che la parità era giusta».
Asia, pensa ancora di emigrare?
Argento: «No, resto qui a lottare. In questa battaglia ho conosciuto tante donne straordinarie che avevano vissuto un trauma come il mio. E ho scoperto un senso più profondo alla mia vita».

Corriere 9.6.18
I partiti, l’Europa
il difficile impatto con le cifre
di Ferruccio de Bortoli


Il Portogallo è uno splendido Paese. Vi risiedono migliaia di pensionati italiani ai quali della flat tax non importa nulla avendo l’esenzione fiscale per dieci anni. Nel 2011 era sull’orlo del crollo, un po’ come l’Italia del governo Berlusconi. Invocò l’aiuto dell’Europa che concesse un credito di 78 miliardi. Lisbona accettò tutte le condizioni dei creditori e, dopo tre anni, uscì dal programma di assistenza finanziaria. Alle elezioni del 2015, la coalizione di governo (centrodestra) arrivò prima ma senza ottenere la maggioranza. Poco davanti all’alleanza di centrosinistra, che aveva fatto dell’opposizione al rigore la propria bandiera elettorale. Ma erano stati i socialisti, con il premier Socrates, a chiedere nel 2011 l’intervento europeo. E ne pagarono subito un prezzo politico: dovettero cedere la guida del governo ai liberali e moderati di Passos Coelho. Cambiarono poi posizione, dissero no all’austerità ma persero voti. Comunisti e verdi, da sempre contrari all’euro e persino alla Nato, ricevettero invece numerosi consensi. E divennero decisivi per la formazione del nuovo governo.
Andato a vuoto il tentativo di una grande coalizione, l’allora presidente della Repubblica Cavaco Silva (si trovava in quello che noi chiameremmo il semestre bianco) diede l’incarico al socialista Costa di formare l’esecutivo con l’appoggio esterno delle due formazioni di estrema sinistra. Ma solo dopo essersi sincerato che venissero accettate alcune condizioni.
La principale: non disperdere i sacrifici delle riforme e i vantaggi del consolidamento fiscale. Quindi, approvare la legge di bilancio con gli obiettivi già fissati in precedenza; rispettare i vincoli dell’eurozona, inclusa la rinuncia alla ristrutturazione del debito, sventolata in campagna elettorale come inevitabile dal Blocco di Sinistra; permanenza del Portogallo nella Nato.
Il governo Costa non ha però rinunciato, in questi anni, a rimodulare la spesa pubblica, ad aumentare le pensioni più basse e a elevare il salario minimo, un seppur pallido reddito di cittadinanza. La ripresa dell’economia del Portogallo è stata semplicemente spettacolare. Il deficit si è ridotto, la disoccupazione è scesa. Il turismo esploso, le esportazioni a gonfie vele. Dopo Irlanda e Spagna, quella del Portogallo è stata la ricetta di ristrutturazione economica europea di maggior successo. Il ministro delle Finanze, il tecnico indipendente Centeno, è ora il presidente dell’Eurogruppo. Il suo collega tedesco, il falco per antonomasia Schäuble, disse di lui che era come Cristiano Ronaldo. Per la straordinaria rovesciata (ci perdonino i tifosi juventini) impressa all’economia portoghese. La buona austerità fa bene. Si tagliano le spese improduttive e si promuovono gli investimenti nel quadro delle compatibilità di bilancio e dei vincoli europei senza i quali il Portogallo sarebbe stato abbandonato, anche dai mercati, al suo destino. Si pensava poi che il nuovo capo dello Stato portoghese, il conservatore Rebelo de Sousa, sostenuto pubblicamente anche dall’ex allenatore dell’Inter Mourinho, potesse sciogliere il Parlamento e mandare a casa gli estremisti. Si è ben guardato dal farlo.
Come si può constatare, le analogie con la situazione italiana non mancano. Certo a Lisbona non ci sono partiti formalmente populisti, ma certamente in origine euroscettici. C’è una dinamica ancora sostanzialmente bipolare fra conservatori e socialisti. Il capo dello Stato viene eletto direttamente. Il successo lusitano è stato reso possibile anche grazie al pragmatismo di alcune forze politiche radicali che hanno cambiato le loro idee. In campagna elettorale non è proibito sognare. Al governo si fanno i conti con i numeri. Con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti. Anzi, li guadagna come dimostra l’esperienza del socialista Costa.
Questa presa d’atto, nel dibattito politico italiano, non è ancora avvenuta. Si continua a discutere in assenza di gravità, sospesi nella rappresentazione fiabesca delle promesse. Nel primo giro di consultazioni il presidente Mattarella ha esercitato una preziosa funzione maieutica. E, come ha scritto sul Corriere Marzio Breda, non ha mancato di ricordare ai suoi interlocutori i vincoli europei e gli impegni internazionali dell’Italia. Immaginiamo che nel secondo, da giovedì prossimo, possa continuare nella sua opera di educazione politica, nel suo esercizio di sano realismo. L’esperienza positiva del suo omologo portoghese è certamente utile. E persino incoraggiante. Essendo il massimo garante della Costituzione, pensiamo che Mattarella non trascurerà di parlare con i propri ospiti del dettato dell’articolo 81, modificato nel 2012 per introdurre il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo e delle misure una tantum). Votarono a favore quasi tutti — salvo poi in parte pentirsi — dal Pd all’allora Pdl, meno Lega e Italia dei Valori. La Lega in prima lettura si dichiarò favorevole. «L’approvazione, all’unanimità — disse il leghista Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione bilancio della Camera — della proposta di legge volta a dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, rappresenta un punto di equilibrio che testimonia, in un momento particolarmente delicato... il senso di responsabilità di tutte le forze politiche». Il senso di responsabilità, appunto. Coraggio, l’impatto con la nuda e dura terra dei numeri si avvicina .

La Stampa 9.6.18
Il trionfo di Orban, Ungheria ai suoi piedi
Al partito Fidesz la maggioranza assoluta. Il premier: “Ora salveremo il Paese”. Al secondo posto i nazionalisti di Jobbik
di Monica Perosino


A una delle campagne elettorali più dure di sempre gli ungheresi hanno risposto in massa. E hanno risposto con un voto che incorona con un plebiscito l’uomo della «democrazia illiberale», il premier Viktor Orban che conquista il quarto mandato, il terzo consecutivo.
La partecipazione al voto per il rinnovo del Parlamento di Budapest ha registrato un’affluenza record che ha sfiorato il 70%, con oltre 5,5 milioni di elettori.
Era stato il 61,73% nel 2014. È la più alta mai registrata nella storia dell’Ungheria dalla caduta del comunismo, la più alta da quando esistono elezioni libere e democratiche.
In serata, ben dopo la chiusura ufficiale dei seggi, in alcuni distretti, come a Bocskai, erano migliaia le persone che ancora aspettavano di votare. E durante la giornata l’attesa media per poter esprimere il proprio voto andava dalle due alle tre ore, con code interminabili che si allungavano per diversi isolati. L’affluenza più alta si è registrata soprattutto nella capitale Budapest e nelle grandi città ma non in campagna, roccaforte tradizionale di Fidesz, il partito del premier. L’opposizione parlava di «clima di cambiamento». Ma si sbagliava. Il partito del premier Fidesz ha stravinto e ha conservato il primo posto, superando di gran lunga il numero di seggi necessari alla maggioranza assoluta. Orban potrebbe aver conquistato il 50% delle preferenze e, con i Cristiano democratici, avrebbe almeno 133 seggi su 199. Ancora meglio delle elezioni di quattro anni fa, quando ottenne 129 seggi. Orban potrebbe aver raggiunto il suo obiettivo, la quota dei due terzi del Parlamento. Il secondo posto sarebbe andato a Jobbik di Gabor Vona, partito di estrema destra nazionalista, ma non più euroscettico, che ha promesso una lotta contro la corruzione del «sistema Orban». A seguire l’alleanza socialista-verde (Mszp-P) e le altre formazioni politiche.
Il premier Viktor Orban, l’uomo forte dell’Ungheria, ha ottenuto quello che con così tanta rabbia e determinazione ha cercato: il suo quarto mandato, il terzo consecutivo. All’inventore della «democrazia illiberale», non bastava una vittoria, cercava il trionfo. E lo ha ottenuto: «È stata una guerra dura, ma abbiamo vinto. Ora possiamo salvare l’Ungheria» ha detto ieri notte di fronte a una folla in festa.
Da oggi potrà di fare il bello e il cattivo tempo in Parlamento. Orban ci era già riuscito nel 2014, ottenendo una maggioranza così schiacciante – anche grazie a una legge elettorale fatta apposta per lui - da controllare i due terzi del parlamento: una strada libera e senza ostacoli per modificare la Costituzione, limitare l’azione dei media «ostili», gli «infiltrati» di Soros, e far passare molte delle riforme che fanno tremare l’Europa.
Venerdì sera le sue ultime parole prima del silenzio elettorale erano state: «Con questo voto il futuro dell’Ungheria sarà irreparabilmente determinato per molti decenni a venire. Se la diga viene aperta, se si aprono i confini, se i migranti entrano nel Paese, non c’è modo di tornare indietro».
È sulla paura dei migranti che il premier Viktor Orban si è giocato tutto.
La battaglia «necessaria» contro i «profughi musulmani», i «nemici dell’Ungheria cristiana e bianca» è stato il mantra di una campagna elettorale che ha raggiunto picchi di tensione altissimi. In questo senso le elezioni sono state anche un referendum su Orban, sul suo muro di 175 chilometri «per fermare l’invasione» e sull’Europa, che vorrebbe costringere Budapest ad accettare il sistema delle ricollocazioni.
Il nuovo governo avrà subito a che fare con un problema «esterno»: la spallata potrebbe arrivare proprio dall’Europa. Giovedì la commissione Libertà civili del Parlamento europeo discute la bozza di risoluzione sulla situazione in Ungheria, per valutare si ci sono violazione gravi dei principi fondamentali.
La commissione potrebbe portare alla sospensione del diritti di voto al Consiglio in base all’articolo 7 del Trattato.

Repubblica 9.6.18
Il dottor Kovacs, l’eminenza grigia dietro l’onda nera
Poliglotta e modi felpati è la “voce” del premier, contraria alla democrazia liberale
“E i migranti contaminano l’Europa”
intervista di A.T.


BUDAPEST È poliglotta, parla inglese come a Oxford, ha studiato in Occidente, è lo spin doctor del premier Viktor Orbán e non solo il suo portavoce. Ha difeso fino all’ultimo la linea anti- migranti e i no alla Commissione europea. Ancor più del ministro degli Esteri Péter Szíjjártó, è lui la voce del padrone, e ora vedremo quale sarà il suo futuro nella primavera di Budapest. Il dottor Zoltán Kovacs, interlocutore privilegiato dei media globali e con un filo diretto col presidente del consiglio, ora più che mai è in prima linea. Dinamico, classe 1969, è da sempre fedele e coerente con Orbàn e con la Fidesz, il partito del premier membro dei popolari europei: bravo padre di famiglia educato in Occidente, ha difeso sin dall’inizio la linea dura sul concetto di democrazia, sui migranti, sul rapporto tra sovranità e integrazione nella Ue.
Ricordo ancora il mio primo incontro con lui nei 2011 seguito da molte interviste e amichevoli conversazioni. Alla domanda sul liberalismo Zoltán rispose alla presenza di colleghi tedeschi: «Cosa vuol dire liberalismo? Siamo conservatori, la democrazia non è per forza liberale » . Parole inimmaginabili a Berlino, Parigi o Bruxelles che pure egli conosce a fondo, lui plurilaurelato, dedito al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro, nonché appassionato organizzatore di feste di partito.
Identità nazionale, sovranismo, no ai migranti che contaminano la cultura europea, sono i suoi Leitmotiv, insieme ai giusti richiami dei successi economici magiari dell’èra Orbán tra crescita, occupazione e conti sovrani. Vedremo nelle prossime ore se le sue qualità basteranno a salvare le critiche che opposizioni eterogenee e società civile muovono a Orbán, con la forza di libere elezioni.

Corriere 9.6.18
Orbán signore assoluto dell’Ungheria Avrà due terzi dei seggi in Parlamento
Trionfo del leader populista. Secondi i nazionalisti, sinistra al 12%. Affluenza record
di Paolo Valentino


BUDAPEST L a notte più lunga di Viktor Orbán si conclude con un successo superiore a tutte le previsioni della vigilia. Con il conteggio dei voti andato avanti fin nelle prime ore di stamane, il premier magiaro è in dirittura d’arrivo per conquistare il suo terzo mandato consecutivo, che lo consacra come il capo di governo più longevo dell’Unione Europea dopo Angela Merkel. Secondo i primi risultati, Fidesz, il partito di Orbán, è ancora il più votato con il 49% dei consensi, il che gli assicura nuovamente la maggioranza costituzionale dei due terzi nell’Assemblea nazionale, questa volta con 134 seggi su 199, grazie a cui negli ultimi otto anni ha avuto il pieno controllo del Paese.
Un’altissima affluenza alle urne ha reso molto incerto l’esito del voto, giunto al termine di una campagna elettorale combattuta allo spasimo, dove Orbán si è proposto come difensore della nazione e campione della cultura cristiana e occidentale, contro l’invasione islamica dall’Africa e dal Medio Oriente. Una scommessa che ha pagato.
Hanno votato con una percentuale da record, gli ungheresi. Si è recato alle urne il 68,8 per cento degli aventi diritto, cioè più di 5,5 milioni di elettori, l’8% in più di quattro anni fa. Bisogna risalire al 2002 per ritrovare una partecipazione al voto più alta. Alle 19, quando si sono chiusi ufficialmente i seggi, in molte sezioni di Budapest c’erano ancora lunghe file di cittadini in attesa. A loro è stato permesso di votare, ma sono state necessarie diverse ore per completare le operazioni. Scene analoghe si sono ripetute un po’ in tutto il Paese.
Eppure l’incertezza aveva dominato per gran parte della serata. «Una partecipazione così alta significa o che la gente si è riversata in massa per sostenere Orbán, ovvero che abbiano voluto punirlo», aveva detto Peter Kreko, direttore dell’osservatorio indipendente Political Capital. Dubbi serpeggiavano perfino all’interno di Fidesz, dove veniva dato per probabile che Orbán non avrebbe ottenuto più la super-maggioranza in Parlamento, come nel 2010 e nel 2014, quella che gli ha permesso di imporre modifiche alla Costituzione in senso autoritario. «Sarebbe possibile solo se nessuno schieramento perde più di 10 distretti e c’è una differenza di almeno 20 punti tra noi e il secondo partito. Ma questo non è realistico», aveva detto alla rete televisiva privata Atv il deputato di Fidesz, Gergely Gulyas. Tagliata su misura per Orbán, la legge elettorale ungherese prevede che 106 dei 199 seggi dell’Assemblea nazionale siano eletti in collegi uninominali a maggioranza semplice. Nonostante gli accordi di desistenza raggiunti dai partiti dell’opposizione in 29 collegi, Fidesz ha vinto ben 97 mandati diretti.
L’opposizione si è illusa fino all’ultimo di poter fare la sorpresa. Prove estetiche di alleanza, le hanno messe in scena Gabor Vona, il leader di Jobbik, partito della destra ultranazionalista che questa volta ha giocato la carta della moderazione, e Bernadett Szel, candidata dei Verdi di LMP: ieri mattina si sono dati la mano davanti all’ingresso del Parlamento augurandosi reciprocamente buona fortuna. Vona ha portato Jobbik al secondo posto, con il 20% dei voti, dopo una campagna durissima contro la corruzione del sistema Orbán e un rovesciamento del suo originario euroscetticismo. Ma il capo dell’estrema destra non ha rinunciato a una feroce retorica contro l’immigrazione, paragonandola alla «ruggine che poco a poco consuma le cose». Al terzo posto, con il 12% è l’alleanza rosso-verde tra i socialisti di MSZP e l’altro gruppo ecologista di Dialogo per l’Ungheria, guidata dal giovane borgomastro di un distretto di Budapest, Gergely Karacsony. Anticipando, all’evidenza con troppo ottimismo, una possibile perdita anche della maggioranza assoluta da parte di Fidesz, Karacsony ha chiesto al presidente della Repubblica di «non conferire a Orbán l’incarico di formare un governo», anche se Fidesz sarà ancora il primo partito. Non sarà così.
«È in gioco l’avvenire del Paese — aveva detto Orbán uscendo dal seggio elettorale — non stiamo solo eleggendo i deputati, il governo e il primo ministro, ma stiamo scegliendo il nostro avvenire». A chi gli chiedeva se una volta rieletto continuerà a battersi contro Bruxelles, Orbán ha risposto: «L’Ue non è a Bruxelles, ma a Berlino, a Budapest, a Praga e a Bucarest. Noi difenderemo gli interessi dell’Ungheria, che rimane leale membro delle organizzazioni internazionali. Noi ci batteremo per il nostro Paese».

Corriere 9.6.18
Il secondo partito
L’ultradestra di Jobbik sfonda: è il vero rivale del premier
di Luigi Offeddu


Ul timo monito, poche ore prima delle elezioni: «Noi proteggeremo l’Ungheria e, con l’aiuto del popolo ungherese, domenica ci libereremo del governo mafioso di Orbán». Jobbik (letteralmente «meglio e a destra», più a destra di tutti, e soprattutto di Orbán) ha tentato fino all’ultimo di mantenere la sua promessa-minaccia: secondo partito ungherese con il 20% dei consensi, ha cercato cioè di insidiare Fidesz, primo partito guidato da Viktor Orbán, forte del doppio dei voti, un annoso serbatoio di potere e di sostegno popolare.
Jobbik lo desiderava e ci è riuscito: ha ottenuto il 20,14% e può dirsi sicuramente soddisfatto — risultati in linera con le aspettative — e il resto d’Europa può confermare le sue preoccupazioni degli ultimi tempi: l’Ungheria continua il suo viaggio verso destra così temuto da Bruxelles, Berlino e dalle altre capitali. Forse anche con la stampella futura della destra estrema, una destra più volte accusata di antisemitismo, se Orbán dovesse un giorno indebolirsi. Jobbik ha compiuto un lungo viaggio, in questi anni. E nessun passo, quasi certamente, è stato lasciato al caso, in concorrenza sempre più esplicita con Fidesz.
Dai giubbotti della «Guardia magiara», la formazione paramilitare che Jobbik aveva tenuto a battesimo e ha poi lasciato mettere fuori legge, alle giacche a doppiopetto dei suoi deputati nazionali ed europei. Dalle marce e fiaccolate minacciose alle porte dei campi Rom, a certi convegni di studio sulle culture d’Europa.
Ma nello stesso tempo, non è mai stato perso il contatto con le fasce elettorali originarie. E i nuovi temi sono rimasti quelli antichi. Come nel programma di queste elezioni: «Jobbik non permetterà che qualcuno si stabilisca in Ungheria… proteggeremo il reticolato del confine con unità di guardie speciali».
Il personaggio-simbolo di questa evoluzione è stato Marton Gyongyosi, già portavoce del partito in Parlamento. Nel 2013, a un corteo, diceva che l’Ungheria era «stata soggiogata dal sionismo», mentre pochi mesi prima suggeriva che gli ebrei del governo venissero schedati come «potenziale rischio per la sicurezza nazionale». Nei giorni scorsi, in un’intervista a Times of Israel , ha dichiarato che «Israele ha diritto a uno Stato, ed è molto buono e importante che gli sia stato assegnato».

Il Fatto 9.6.18
L’affluenza-record può giocare un brutto scherzo al favoritissimo Orban
Ungheria: il partito del premier rischia di perdere la maggioranza assoluta


Affluenza record e colpo di scena in Ungheria: il partito di governo Fidesz, secondo le prime previsioni, potrebbe perdere la maggioranza assoluta in parlamento. Per tutto il giorno si sono registrate lunghe code davanti ai seggi, un’affluenza mai vista nel Paese, dove il premier Viktor Orban cerca la riconferma, il terzo mandato consecutivo dal 2010. La grande partecipazione potrebbe essere un segnale di cambiamenti profondi: “O gli elettori hanno dato un supporto forte alla politica anti-immigrazione di Orban o hanno messo fine al suo populismo e al suo regime illiberale”, è il commento di Peter Kreko, direttore dell’istituto Political Capital.
Fino alla chiusura dei seggi, alle 19, circa 5,5 milioni di elettori sono andati alle urne, il 70%, contro il 61,73% del 2014. La forte affluenza si è registrata a Budapest e nelle grandi città ma non in campagna, roccaforte tradizionale per Fidesz. L’opposizione parla di “clima di cambiamento”. “L’affluenza è una critica pesante del regime”, ha detto il capolista socialista Gergely Karacsony.
Circa 1.547 i candidati in lizza per i 199 seggi del parlamento. Secondo gli exit poll, Fidesz ha conservato il primo posto. Il secondo posto sarebbe andato a Jobbik di Gabor Vona, partito conservatore nazionalista, ma non più euroscettico, che ha promesso una lotta contro la corruzione generalizzata attribuita a Orban. A seguire l’alleanza socialista-verde (Mszp-P).
Il premier Orban, attraverso i media pubblici da lui controllati, ha martellato per mesi sul “pericolo mortale” che minaccerebbe gli ungheresi: l’arrivo di migliaia di migranti musulmani, con il ricollocamento obbligatorio voluto dall’Ue. “Dobbiamo decidere bene, sbagliando non ci sarà modo di riparare, rischiamo di perdere il nostro Paese, che diventerà un Paese di immigrati”, ha detto ancor oggi dopo aver votato.
Il leader del Jobbik, Gabor Vona, eletto in un collegio uninominale con il 46%, ha ribattuto che l’Ungheria sta diventando piuttosto un Paese di emigrati: più di mezzo milione di ungheresi, in maggioranza giovani, sono emigrati verso altri paesi dell’Ue, negli ultimi anni, non trovando modo di studiare o lavorare in patria, in un regime descritto come sempre più autocratico.

Repubblica 9.6.18
Le elezioni in Ungheria
Orbán vince, ma cede voti all’ultradestra
Alta l’affluenza. Per il premier una riconferma anche se con meno consensi. Cresce il partito nazionalista Jobbik promotore di campagne pro giustizia sociale e anti corruzione. Il governo richiama la polizia speciale nella capitale
di Andrea Tarquini


Budapest Centinaia, forse migliaia di persone ancora in coda ieri sera ai seggi principali, dalla strada di lusso Váci Utca fino alla scuola nella strada dedicata al poeta Miklos Rádnoti assassinato dai nazisti. Centinaia o migliaia, soprattutto giovani. E sugli schermi delle televisioni europee la diretta da Budapest: la dimostrazione di un voto, quello di ieri, che fino all’ultimo minuto ha tenuto l’Europa intera col fiato sospeso.
Ieri per tutto il giorno e ancora di più quando i primi risultati hanno cominciato ad arrivare, tutti hanno scommesso su una riconferma, un terzo mandato, del popolare premier sovranista e neoconservatore Viktor Orbán e i primi risultati sembrano confermare la previsione: Fidesz si ferma poco sotto il 50%, ma gli ultranazionalisti di Jobbik sono sopra il 20%. Sotto al 12% i socialisti. In attesa dei risultati definitivi, è allarme rosso per l’ordine pubblico. In una decisione senza precedenti dopo la fine della dittatura comunista una generazione fa, il governo ha ordinato a forti contingenti dei Komondor e degli altri reparti speciali della polizia di convergere in corsa verso la capitale e le altre grandi città. Suspense al calor bianco, nella bella Ungheria, anche se la conferma del terzo mandato per il primo ministro Viktor Orbán sembra certa. Un mandato dotato di maggioranza assoluta, ma non della maggioranza di due terzi dello Orszaház (Parlamento nazionale) senza la quale non potrebbe continuare a ricostruire le istituzioni secondo il suo modello di “ democrazia illiberale”, che loda apertamente la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan, caso unico in un Paese membro dell’Unione europea e della Nato e beneficiario di enormi aiuti Ue che gonfiano la solida crescita economica.
Siamo stati dal mattino al pomeriggio a vedere le code davanti ai seggi. Polizia discreta, pattuglie in tenuta da ordine pubblico ma parcheggiate coi furgoni Mercedes solo in strade adiacenti, non davanti al seggio. Ma questa è solo una parte della realtà. L’altra sono i volti impazienti e delusi delle code di cittadini elettori decisi a votare, giovani ma anche pensionati: « Vogliamo dire la nostra al governo » , era la frase che nella lingua magiara senti pronunciare da tutti.
Sempre la stessa scena si è presentata davanti ai nostri occhi. A Vávi utca che dai tempi dell’Impero del male sovietico era la migliore shopping street dell’Est, dove studenti si mischiavano a professori pensionati.
Fino al lontano Angyalföld, campo degli angeli a un capolinea della metro, dai tempi asburgici quartiere proletario adesso gentrificato grazie alla robusta crescita economica. Sempre gli stessi mugugni sussurrati da civili mitteleuropei: « Vogliamo solo votare, perché dobbiamo metterci tanto tempo? ».
In alcune località la chiusura dei seggi è stata ritardata dalle 19 alle 22 e oltre. E intanto colonne con sirena e luce blu di camion Mercedes dei reparti speciali puntano sulla capitale pronti chi sa perché a prendere controllo di tutto. Code ai seggi, code sulle autostrade.
I primi risultati confermano che, come avevano previsto i sondaggi Orbán ce l’ha fatta, ma ha perso voti a vantaggio di Jobbik, l’ex partito di ultra- destra trasformatosi in centrodestra pro-giustizia sociale e contro la corruzione di cui anche l’Unione europea accusa la maggioranza del premier.
Ma visto tutto resta possibile. «Anche reazioni violente da parte di un Orbán indebolito » , ha detto a Repubblica Agnes Heller, decana del dissenso liberal dell’Est. Di ora in ora, il cuore dell’Europa batte col fiato sospeso qui nella “ Perla del Danubio”.

Corriere 9.6.18
Mezzo secolo dopo  il ’68 occupazioni e botte negli atenei di Parigi
di Stefano Montefiori


Il movimento La République En Marche di Emmanuel Macron si definisce «di destra e di sinistra» e tende a occupare tutto lo spazio politico al centro e ai suoi lati. Una delle possibili conseguenze indesiderate del suo successo è che il dissenso politico — o almeno quel che ne resta — si radicalizzi.
Sta succedendo in Parlamento, dove i Républicains (la destra tradizionale) di Laurent Wauquiez, per esistere, sono sempre più tentati dall’assumere posizioni e toni vicini al Front National, e dove il PS (la sinistra tradizionale) del neo-segretario Olivier Faure, per risorgere, deve strappare elettori agli «insubordinati» di Jean-Luc Mélenchon.
Ma una radicalizzazione della lotta politica sembra verificarsi anche fuori del Parlamento, in particolare nelle università. Venerdì sera una trentina di estremisti di destra, con i passamontagna e i caschi in testa, al grido di «liberiamo la facoltà» hanno lanciato pietre, fumogeni e bottiglie contro circa 300 militanti di sinistra (studenti e non) che occupano l’università Tolbiac di Parigi. La protesta contro la riforma «Parcoursup» (che rende più selettivo l’accesso agli studi universitari) voluta dal governo si sta estendendo in tutta la Francia. Una parte dei professori appoggia gli studenti, altri docenti sono favorevoli alla riforma, altri ancora sono arrivati a incoraggiare la squadra di estremisti di destra mascherati che, la notte del 22 marzo scorso a Montpellier, hanno sgomberato l’aula magna brandendo i bastoni e ferendo tre ragazzi. Il preside Philippe Pétel è stato visto parlare agli aggressori, incoraggiandoli prima che questi dessero l’assalto, ed è stato costretto a dimettersi. A pochi giorni dal cinquantesimo anniversario della rivolta studentesca del maggio '68, il presidente della Conferenza dei presidi, Gilles Roussel, si dice preoccupato: «C’è il rischio che i dibattiti sulla riforma si trasformino in scene di violenza che non siamo in grado di gestire».

Il Fatto 9.6.18
La Gladio del Lago di Como
Così nacque “Stay Behind”
di Massimo Novelli


Quando nacque Gladio, l’organizzazione paramilitare anticomunista che, durante la guerra fredda, fu messa in piedi anche in Italia sotto la regia degli Stati Uniti, attraverso la Nato e la Cia? Secondo la relazione che Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, inviò il 26 febbraio del 1991 alla Commissione Stragi del Parlamento, la costituzione risalirebbe al 1951.
In base ad altre più che credibili e pausibili indagini, e ora, soprattutto, alla ricerca di Giorgio Cavalleri, scrittore e storico comasco, in realtà Gladio sarebbe stata concepita addirittura nella tarda primavera del 1944. Fu partorita dal gruppo Vega, un reparto speciale del battaglione Nuotatori Paracadutisti della Decima Mas fascista del principe Junio Valerio Borghese, con il beneplacito attivo dell’O.s.s., il servizio segreto americano progenitore della Cia, e di settori della Regia Marina del Regno del Sud del maresciallo Pietro Badoglio.
Non ne sarebbero stati estanei neppure alcuni esponenti nazisti, che, come si sa, si stavano preparando alla fuga in Sud America grazie all’organizzazione Odessa delle Ss e al Vaticano, ma pure al riciclaggio in chiave anti-Urss nell’intelligence degli Usa e poi degli inglesi. Lo stesso principe Borghese, futuro golpista, venne salvato e fatto fuggire dall’O.s.s. a Milano, nei giorni della Liberazione, e sottratto pertanto alla prevedibile condanna a morte partigiana.
Cavalleri è autore di numerosi libri sul sindacalismo cattolico e su alcuni misteri della guerra e della Resistenza, dal’oro di Dongo all’uccisione dei partigiani “Gianna” e “Neri”. Nella nuova edizione de La Gladio del lago, edito da Unicopli (con una prefazione di Franco Giannantoni), rintraccia con abbondanza di documentazione il filo nero che dagli archivi di Washington conduce al piccolo lago di Montorfano, nella Brianza comasca, dove si era insediato il battaglione Vega.
La lettura dei dossier statunitensi catalogati sotto la dicitura “10 Flotilla MAS-Stay Behind Organization”, scrive Cavalleri, “permette di verificare la nascita e le prime fasi di crescita del ‘Gladio’ nostrano e spiega perché questa operazione – che la Cia replicò poi in altri paesi europei dove venne chiamata ‘Stay behind’ – in Italia fu definita semplicemente ‘Gladio’ e i suoi arruolati gladiatori’”.
Il gladio, infatti, era l’insegna della Decima Mas. E all’interno della formazione di Borghese, a Montorfano, venne creato un gruppo clandestino per aiutare i fascisti a reinserirsi nella vita italiana dopo la Liberazione, ma pure per “partecipare a eventuali azioni armate clandestine anticomuniste”. Il nemico, prima della fine del conflitto, per gli americani e per il blocco padronale-moderato italiano, e per alcuni gerarchi nazifascisti, erano ormai l’Unione Sovietica e il comunismo.
Così, “un anno prima della fine della guerra, all’insaputa di Mussolini”, e forse con il consenso di Karl Wolff, plenipotenziario in Italia della Wermacht e della polizia nazista, quel reparto, il Vega, “aveva liberi contatti radio (e di uomini) con esponenti della Marina del regno del Sud e con i servizi segreti statunitensi”. Non solo: il tenente di vascello Mario Rossi, nominato a capo del Vega, era con ogni probabilità una creatura dell’O.s.s.
Nel settembre del 1944, peraltro, un inviato della Marina badogliana aveva incontrato Borghese a Valdagno e a Verona. Doveva “sondare le intenzioni”, racconta Cavalleri, “del principe circa il problema della possibile difesa della Venezia Giulia, dell’Istria e del Quarnaro dalle truppe di Tito, in relazione all’eventuale sbarco del ‘San Marco’”.
Altre missioni del genere furono portate a compimento, con un passaggio incredibile, ma non troppo con il proverbiale senno di poi, di agenti fascisti e americani, tedeschi e badogliani, tra le linee del fronte, senza che niente accaddese a costoro, o almeno a chi non doveva essere toccato. Solo gli inglesi, all’epoca, si sottrassero a questo gioco sporco, messo in campo in nome di una sorta di “santa alleanza” anticomunista.
Il citato Mario Rossi, uno dei capi della rete anticomunista di Vega, o di Gladio, insomma, fu un figura centrale di quelle trame. Imposto da Junio Valerio Borghese al comandante dei Nuotatori Paracadutisti della Decima Mas, “senza una logica apparente”, dice Cavalleri, poiché “non poteva sbarcare dal ‘nulla’”, come effettivamente sbarcò, “quasi certamente veniva dal Sud, ed era un uomo dell’O.s.s.”. Quando il principe Borghese fu prelevato a Milano dal servizio segreto americano, d’altronde, James Jesus Angleton, numero due dell’O.s.s. in Italia, scrisse in un rapporto che “il soggetto è stato contattato a Milano tramite un agente di questa unità e tradotto a Roma per essere utilizzato”. Non processato per crimini fascisti, bensì “utilizzato”.
La Gladio italiana, in sostanza, decollò “subito dopo la fine del conflitto, per esclusivo volere dei servizi segreti statunitesi”. L’’talia nuova, nata dalla Resistenza, “o almeno una parte di essa” sostiene Cavalleri nel suo libro, sorgeva con la “cooptazione” di “una struttura creata a Montorfano, un paesino a pochi chilometri di distanza dal capoluogo lariano, negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, da un drappello di uomini che avevano combattuto, in un corpo particolare come quello della ‘Decima Mas’, nelle file della Rsi”, ovvero della repubblica fantoccio di Salò creata dai tedeschi.

Corriere 9.6.18
Le vanterie di Dino Grandi
Il gerarca fascista esagerò il ruolo che aveva avuto nel far cadere il duce
Da un saggio di Emilio Gentile (Laterza) emerge che il 25 luglio 1943 i progetti dei militari contro Mussolini, predisposti indipendentemente dalle decisioni del Gran Consiglio, risultarono decisivi nel determinare il collasso del regime
di Paolo Mieli


Tre mesi dopo il 25 luglio 1943, cioè quando erano trascorsi meno di cento giorni dalla defenestrazione di Benito Mussolini, il suo successore, Pietro Badoglio, parlando agli ufficiali pronunciò queste testuali parole: «Il fascismo non è stato rovesciato da noi, da Sua Maestà o da me; il fascismo è caduto non per forza esterna, ma per la sua crisi interna; non poteva resistere più… Lo hanno abbattuto gli stessi componenti del Gran Consiglio… che votarono, la sera del 24 luglio, a maggioranza contro Mussolini e ne segnarono la fine. Finalmente!». Il maresciallo Badoglio, in quell’occasione, raccontò solo una parte della verità, essendo stato poi accertato che dai vertici militari (i generali Vito Ambrosio, Giuseppe Castellano e il capo della polizia Carmine Senise, ad ogni evidenza non all’insaputa di Vittorio Emanuele III) furono precedentemente predisposti i piani per un colpo di Stato. Un golpe elaborato senza coinvolgere nessuno dei gerarchi del regime. E che — magari non in quel preciso istante — sarebbe scattato comunque. Ne è certo lo storico Emilio Gentile, come si evince dalle pagine iniziali del suo libro 25 luglio 1943 , che sta per essere dato alle stampe da Laterza.
Il Gran Consiglio, istituito nel 1923, nel 1928 era diventato l’organo supremo del regime fascista. Nei suoi vent’anni di vita, si era riunito 186 volte, l’ultima, prima di quella del 24 luglio, il 7 dicembre 1939. Poi per quasi quattro anni non era stato più riconvocato, neanche al momento dell’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale (10 giugno 1940), allorché Vittorio Emanuele III aveva dovuto cedere, molto malvolentieri, alla richiesta avanzata da Mussolini di essere delegato al comando supremo di tutte le forze armate. Quel comando che adesso, secondo l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, all’epoca presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, avrebbe dovuto essere restituito al re.
E veniamo ai giorni decisivi. Il 10 luglio del 1943 le truppe alleate erano sbarcate in Sicilia e la reazione dell’esercito mussoliniano era stata del tutto inefficace. Nel pomeriggio del 16 luglio, Carlo Scorza (segretario del Pnf dal 19 aprile del 1943) assieme ad alcuni gerarchi era andato da Mussolini per un «conciliabolo» sul da farsi a seguito di quegli insuccessi militari. Il 19 luglio Mussolini aveva incontrato Adolf Hitler a Feltre per chiedere aiuto contro gli invasori. In quelle stesse ore Roma era stata bombardata da aerei inglesi e americani dopo che erano stati lanciati volantini in cui si suggeriva alla popolazione di ribellarsi alla prospettiva di «morire per Mussolini e per Hitler». Il 22 luglio Grandi fu ricevuto da Mussolini e gli parlò apertamente della sua intenzione di presentare un ordine del giorno. Il 24 lo stesso Grandi fece pervenire al ministro della Real Casa Pietro Acquarone una lettera per il re con il testo dell’ordine del giorno (a condizione che il plico venisse consegnato al sovrano solo dopo le 17, quando la riunione dell’organo supremo del regime aveva già avuto inizio). Questa l’accertata successione degli eventi.
Furono, in tempi successivi, lo stesso Grandi e Luigi Federzoni a sostenere di essere stati loro ad aver preteso la convocazione di quel consesso. I due sostennero anche di aver avuto fin dall’inizio l’intenzione di «abbattere il Duce e la dittatura», più precisamente di «eliminare» Mussolini. Ma secondo Giuseppe Bottai — che ne scrisse sul proprio diario il 23 agosto del 1943 — l’arresto di Mussolini era stato, invece, conseguenza «d’un moto indipendente dal nostro, di ormai accertate origini militari»; Badoglio aveva svolto null’altro che il ruolo di «deus ex machina messo dalla Corona tra il nostro moto e il moto militare».
Mussolini, un anno dopo i fatti, il 1° luglio del 1944, raccontò sul «Corriere della Sera» di aver con queste parole messo in guardia i suoi oppositori nel terzo e ultimo intervento da lui pronunciato in quella notte concitata: «Signori attenzione! L’ordine del giorno Grandi può mettere in gioco l’esistenza del regime». Per poi aggiungere, dopo il voto per la restituzione al re del comando delle forze armate: «Voi avete provocato la crisi del regime!». L’ultimo segretario del Pnf, Carlo Scorza, confermò, nel 1968, di aver udito quelle frasi. Ma Tullio Cianetti — che ne scrisse in carcere alla vigilia del processo di Verona (dicembre 1943) — diede una versione difforme dell’accaduto: quelle parole Mussolini non le aveva mai pronunciate. Gentile, uno dei più autorevoli allievi di Renzo De Felice, mette in dubbio — sulla base di un’accurata esegesi delle testimonianze di tutti gli altri partecipanti alla seduta del Gran Consiglio e di documenti inediti provenienti dalle carte di Federzoni — le ricostruzioni di Grandi e dello stesso Mussolini. Tra l’altro lo fa in polemica esplicita con il suo maestro: «Sorprende», scrive, «che uno storico scrupoloso come De Felice abbia accreditato, senza avanzare alcun dubbio, la veridicità delle frasi mussoliniane sulla base delle citazioni di Scorza e di Grandi nei loro libri, trascurando il fatto che sia Grandi sia Scorza in un’altra versione del loro racconto le avevano ignorate». In ogni caso, prosegue Gentile, «dai nuovi documenti risulta provato che le versioni sulla notte del Gran Consiglio, date da Grandi, da Federzoni e da altri gerarchi nei loro resoconti, sono state più volte rielaborate e modificate con evidente abuso del senno del poi».
La verità che emerge dal libro di Gentile è che furono altri — non certo Grandi — i gerarchi che presero l’iniziativa di sollecitare la convocazione del Gran Consiglio; che i diciannove votanti dell’ordine del giorno Grandi non si proponevano obiettivi comuni; che comunque tra questi obiettivi non c’era la destituzione di Mussolini, né tanto meno il suo arresto e neppure la fine del regime; che il Duce stesso, infine, non ebbe una lucida contezza di quel che stava accadendo in quella notte. Se Mussolini considerava l’ordine del giorno Grandi, da lui conosciuto prima della riunione, un atto «inammissibile e vile» (come «sembra» che lo avesse definito lui stesso), perché, si chiede Gentile, «accettò che venisse discusso in Gran Consiglio e di chiedere su di esso la votazione, anche se non era obbligato a fare né l’una né l’altra cosa, dal momento che solo al capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio, spettava di fissare l’ordine del giorno delle sedute?». E perché «non propose un proprio ordine del giorno o non rinviò la seduta come era in suo potere di fare e come altre volte in passato era accaduto?»
Su quel che realmente si dissero i gerarchi nella lunga riunione notturna del Gran Consiglio (durò dieci ore) non c’è certezza. Alcuni dei congiurati si riunirono a casa di Federzoni nel pomeriggio del giorno successivo (nel momento in cui Mussolini, uscito dall’incontro con il re, fu caricato su un’autoambulanza e privato della libertà). Lì redassero un verbale che avrebbe dovuto far fede delle parole realmente pronunciate. Ma questo prezioso documento non è mai venuto alla luce e quel che ne sappiamo risponde alle versioni lacunose e contraddittorie che ne fecero poi quasi tutti i partecipanti, alcuni molto tempo dopo l’accaduto. Grandi, il principale artefice della cospirazione, poteva vantare di aver scritto, il 21 aprile 1940, una lettera a Mussolini suggerendogli, con dotte argomentazioni, di tenere l’Italia fuori dal conflitto. Il Duce non gradì quella missiva e definì quelle di Grandi «profezie cervellotiche di un intellettuale che legge troppi libri e fa poca ginnastica». Poi però, poco più di un mese dopo, a seguito del crollo della Francia, Grandi si era ricreduto e Galeazzo Ciano, il 9 agosto 1940, aveva annotato sul proprio diario i termini di questo ripensamento: adesso Grandi era diventato un grande fautore dell’alleanza con Hitler. L’ex ambasciatore italiano a Londra andò poi a combattere sul fronte greco-albanese. Di qui inviava al Duce lettere piene di entusiasmo, ma, secondo le sue ricostruzioni successive, fu proprio in questo momento — nel 1941 — che si convinse della necessità di metter fine alla dittatura mussoliniana.
Chi lesse allora gli scritti pubblicati da Grandi fra il 1941 e l’inizio del 1942, scrive Gentile, «mai avrebbe sospettato in lui un gerarca avverso allo Stato totalitario, alla continuazione della rivoluzione fascista, al razzismo, all’antisemitismo, all’alleanza con la Germania nazista, alla guerra in corso». Avversione che in un libro del 1983 Grandi avrebbe retrocesso addirittura al 1932 (eccezion fatta per Hitler che all’epoca non era ancora salito al potere). È vero però — ce ne sono testimonianze — che dopo essere tornato in Italia dalla Grecia, Grandi, privatamente, iniziò a polemizzare con il regime. «A Bologna — mi ha riferito Arpinati — Grandi fa il frondista liberale e monarchico», annota Ciano nel diario. Nel gennaio del 1942 avrebbe detto (la fonte è sempre Ciano): «Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante venti anni».
All’epoca (fino al febbraio del 1943) Grandi era ministro della Giustizia e, in quanto tale, incontrava il re due volte alla settimana per la firma delle leggi. Talvolta lasciava trasparire le sue esitazioni e il sovrano regolarmente gli rispondeva con cinque parole: «Si fidi del suo re». Secondo il generale Puntoni questi incontri duravano pochi minuti. Una volta il gerarca si sfogò con il genero del Duce confidandogli che a suo avviso il re era «rimbecillito». Vittorio Emanuele III probabilmente non voleva dar spazio alle confidenze di Grandi perché non se ne fidava e perché sapeva che questi avrebbe voluto al posto di Mussolini il maresciallo Enrico Caviglia, nemico personale di Badoglio al quale invece pensavano lo stesso re e le persone sulle quali faceva affidamento. Per di più Grandi nelle ore che precedettero la seduta del Gran Consiglio intendeva cedere a Giuseppe Bottai il suo incarico di presidente della Camera. È singolare, osserva acutamente Gentile, che pensasse a ciò con il consenso del Duce «negli stessi giorni in cui meditava su come defenestrarlo».
Sul frondismo di Federzoni esiste invece qualche testimonianza di Giuseppe Bottai. Ma non si tratta di gran cosa: «Anch’egli annaspa; tutti annaspiamo», ammette lo stesso Bottai. Federzoni, tra l’altro, non andò neanche alla citata riunione del 16 luglio convocata da Scorza a Palazzo Venezia. In conclusione, scrive Gentile, «le versioni di Grandi e di Federzoni sull’origine del 25 luglio e sul loro ruolo non corrispondono alla realtà effettuale degli eventi e neppure al ruolo che gli aspiranti tirannicidi hanno raccontato di aver svolto nella notte del Gran Consiglio».
E siamo alla notte del Gran Consiglio. Grandi racconterà di essersi recato all’appuntamento con delle bombe in tasca e di aver avuto un ruolo da protagonista. «Nella realtà», precisa Gentile, anche qui «le cose si svolsero diversamente da come Grandi le ha raccontate, con frequenti discordanze nella cronologia e nella sequenza degli incontri con altri gerarchi, con inesattezze o invenzioni di cose dette o fatte». Il giorno successivo — mentre Mussolini è a colloquio con il re — Grandi si rende irreperibile. Bottai anche. E pure Federzoni. Uno dei pochissimi che in quelle ore sembra aver mantenuto un contegno all’altezza degli eventi è Giuseppe Bastianini.
La conclusione a cui giunge Gentile è che, nel senso pieno del termine, «non ci fu congiura per eliminare politicamente il Duce» e non ci fu «complotto con il re». Tra l’altro il sovrano, come si evince dal diario di Bottai, era considerato dai promotori dell’ordine del giorno Grandi «infido»: sarebbe capace, scriveva l’ex ministro dell’Educazione nazionale, «di “scoprirci” dinnanzi a Mussolini… Non sarebbe la prima volta, né noi saremmo stati le prime vittime del gioco “mussoliniano”, non “fascista”, si badi, del re». Che poi molti gerarchi, a cominciare da Grandi, si siano voluti vantare — anni e anni dopo — di aver avuto un ruolo da giganti in quella cospirazione e di aver con ciò contribuito a cambiare (in meglio) la storia è qualcosa di umano e di comprensibile. Anche se le loro ricostruzioni risultano davvero traballanti ad un attento esame — come quello di Gentile — di ciò che è realmente accertabile.

Il Fatto 9.6.18
Fidel e il Che: le ombre che s’allungano sui figli
Amici, idealisti, icone della rivoluzione cubana che hanno, però, tenuto lontani i discendenti dalla gestione – e anche dai riflettori – del potere politico
di Diego López


Fidel Castro e il Che: icone della Rivoluzione vittoriosa a Cuba il primo gennaio 1959. Il primo, nel bene e nel male, è stato uno dei grandi del Novecento e ha tenuto fermamente le redini di Cuba per quasi cinquant’anni. Ernesto Guevara ha rappresentato l’anima internazionalista della Rivoluzione, il guerrillero heroico che voleva esportarla nei mille Vietnam che avrebbero minato l’imperialismo statunitense. Dopo la sua morte, in Bolivia nel 1967, per i giovani di gran parte del mondo è diventato una sorta di icona pop della ribellione. Entrambi hanno lasciato una grande ombra che si allunga sui figli.
Il recente suicidio, dopo un lungo periodo di depressione seguito alla morte di Fidel, del suo primogenito Fidel Angel, avuto dalla prima moglie Mirta Diaz-Balart e conosciuto nell’isola come “Fidelito”, ha messo in luce i difficili rapporti tra i figli “ufficiali” dello scomparso líder máximo: oltre a Fidelito, i cinque eredi avuti nel matrimonio con la seconda moglie Delia Soto Del Valle: Alexis (55 anni), Alexander (54), Antonio (48), Alejandro (45) e Angel (42). E tra questi e il “clan” del fratello e attuale presidente (fino ad aprile) Raúl Castro. “Non era un padre che si possa definire affettuoso, però (Fidel) Castro manteneva i suoi obblighi di genitore e teneva d’occhio – seppur da una certa distanza – il clan famigliare. Si occupava finanziariamente di tutti i propri figli e si assicurava che avessero opportunità nella loro vita”, scrive Louise Bardach nel libro Without Fidel.
Soprattutto, Fidel ha sempre mantenuto la sua famiglia lontana dalla gestione – e anche dai riflettori – del potere. Così nessuno dei cinque figli ufficiali ha mai avuto opportunità di incarichi direttamente politici. In quanto ai figli naturali, che gli vengono attribuiti come frutto di varie relazioni dopo il divorzio dalla prima moglie – Alina Fernandez, Jorge Angel, Panchita Pupo, Ciro e Fito, tutti ultrasessantenni – va da sé che sono stati tenuti nel cono d’ombra. A differenza del fratello Raúl, il quale ha sempre dato grande spazio alla famiglia: così almeno due figli dell’attuale presidente – Alejandro, colonnello del ministero degli Interni e capo dei servizi di sicurezza e spionaggio dell’isola e Mariela, deputata e direttrice di un centro di educazione sessuale, il Cenesex, che rappresenta l’anima liberal de Paese – sono personaggi politici e potenti.
Punto Cero, Punto zero, è il complesso di case dove viveva Fidel con i propri famigliari, figli e rispettive famiglie. Occupa circa 280.000 metri quadrati nella zona delle ambasciate. Formalmente appartiene ai beni del Consiglio di Stato, ma difficilmente – almeno fino a quando Raúl resterà in vita – sarà alienato alla famiglia. L’attuale presidente si è occupato delle vicende famigliari dei Castro anche quando Fidel era in vita (ma troppo occupato a governare) e, secondo vari analisti, si incarica di assicurare la solvibilità economica dei famigliari del fratello, per evitare che liti e scandali possano inquinarne l’immagine postuma. Ma dalla morte di Fidel circolano voci su una disputa tra gli eredi dei fratelli Castro sul controllo di questo complesso di edifici e terreni.
Il più noto del clan famigliare del líder máximo è Antonio Castro Soto del Valle (nato nel 1969). Chirurgo ortopedico di professione, è conosciuto per i suoi rapporti con la pelota (baseball), lo sport più popolare dell’isola, essendo vicepresidente della Federación Cubana de Béisbol e dal 2015 anche ambasciatore della Confederazione mondiale di baseball e softball. Ma i suoi interessi sportivi non si limitano alla pelota e vanno dalla pesca al golf, sport quest’ultimo non certo proletario. Tanto da suscitare un scalpore la sua vittoria nel 2013 al campionato internazionale di Golf Montecristo a Varadero. Ancor più chiaccherata è la sua propensione per le vacanze di lusso, come quella in un complesso turistico in Turchia, quando un paio di anni fa un reporter fu malmenato dai guardaespaldas del terzogenito di Fidel che ne difendevano la privacy.
Chiacchierato risulta anche Alejandro (1971) – laureato in informazione scientifica e archivisti bibliotecari – per la sua propensione a frequentare feste mondane come quella del sigaro Habano di tre anni fa nella quale assieme al fratellastro maggiore, Fidel Castro Diáz-Balart, si fece fotografare con Paris Hilton e Naomi Campbell.
Nel 2009 Alejandro era stato ritratto dal fotografo Michael Dweck che lo inserì nei personaggi del libro Habana Libre (Damiani Editore, 2011) dedicato alla élite dei giovani figli della nomenklatura castrista che si ritrovano in bar, inaugurazioni e sfilate. Come commentò lo scrittore dissidente, Antonio José Ponte: “Castro Soto del Valle si è lasciato ritrarre in nome dei suoi diritti dinastici”.
Negli ultimi anni di vita di Fidel ha raggiunto la notorietà anche il secondogenito, Alexander Soto del Valle (1963). Laureato in ingegneria elettrochimica, Alex, come viene chiamato in famiglia, è diventato il fotografo ufficiale del padre. Grazie al privilegio dell’esclusiva, le sue foto – compresa la più nota con papa Francesco – sono state acquistate e diffuse dalle maggiori agenzie di informazione. Nell’agosto 2017 ha inaugurato un’esposizione di foto dedicata al padre per dimostrare come Fidel fosse “una persona affettuosa e amabile”.
Degli altri due figli si sa poco. Alexis Castro (1962) è ingegnere in telecomunicazioni e vive defilato tra computer e videografica e il fratello minore, Ángel (1974), è ingegnere meccanico, professione che però ha abbandonato per aprire un’officina di auto.
Dei quattro figli viventi di Ernesto Guevara – Hilda Guevara Gadea, avuta dalla prima moglie, l’economista peruviana Hilda Gadea, è morta di cancro nel 1995 – la più nota è la 57enne Alida Guevara March, primogenita del matrimonio del Che con la seconda moglie, la cubana Alida March. Sia la madre, sia i fratelli Camilo e Ernesto, sia la sorella Celia raramente danno interviste e quasi mai compaiono in pubblico in cerimonie ufficiali. Alida, invece, ha assunto un ruolo mediatico di primo piano, soprattutto all’estero, come una sorta di portabandiera della Rivoluzione cubana e delle sue conquiste. Specie nel campo della medicina. È, infatti, medico pediatra e specialista in allergologia ed esercita in un’ospedale dell’Avana. Alida viaggia all’estero per missioni mediche in Venezuela, Angola, Namibia, Algeria. Nonostante non assomigli al padre, è la più impegnata a diffondere e proteggere la memoria del Che riportata nel suo libro Ausencia presencia.
Mantiene, invece, un basso profilo pubblico Camilo, il secondogenito (55 anni). Assieme alla madre si occupa del “Centro studi Che Guevara”, dove sono raccolti discorsi, interventi, scritti e inediti del guerrigliero.
Un profilo pubblico ancor più basso è la caratteristica di Celia Guevara March. Veterinaria, specializzata in mammiferi marini, lavora al Dipartimento salute degli animali all’acquario dell’Avana. Dai fratelli viene descritta come la più “ortodossa” per la sua incondizionata difesa del castrismo. Per questa ragione ha suscitato una sorpresa quando dieci anni fa si presentò al consolato dell’Argentina dell’Avana per reclamare la cittadinanza e il passaporto argentino per diritto paterno. A chi le chiese la ragione della doppia nazionalità, Celia rispose che lo faceva per i figli, perché potessero viaggiare sfuggendo alle –allora – pesanti restrizioni imposte dalla burocrazia castrista. Un privilegio che probabilmente il padre non avrebbe richiesto.
Barba rada e non curata, sguardo e narici inconfondibili, un puro cubano fumante tenuto tra le dita, Ernesto Guevara March, il più giovane ( 52 anni) dei figli, è anche quello che più assomiglia al guerrillero heroico. Dal quale ha ereditato anche l’amore per le moto. “Sempre mi sono piaciute la meccanica, la velocità, le moto e le macchine”, ha dichiarato senza complessi in un’intervista alla Bbc. Per questo Ernesto ha messo in piedi una compagnia turistica che offre tour nell’isola nientemeno che in Harley Davidson, un mito, ma nettamente yankee. La compagnia turistica strizza l’occhio al padre, infatti si chiama Tours La Poderosa, con evidente riferimento alla moto Norton 500 – la “Todopoderosa” – con cui il padre ha percorso tutta l’America del sud (viaggio descritto nel libro I diari della motocicletta).
La Poderosa è un’impresa privata che usa capitali stranieri e lavora con varie compagnie turistiche statali. Ernesto Guevara junior non prova alcun imbarazzo nell’aver messo da parte la laurea in legge e la professione di avvocato per un lavoro che più gli piace. E rende meglio. Nell’intervista alla Bbc ha spiegato che non intende vivere nell’ombra di suo padre. Ma di certo il suo cognome un aiutino gliel’ha dato.

La Stampa TuttoLibri 7.6.18
1947, cronaca dell’anno straordinario che cambiò il destino del popolo ebraico
Mentre l’Onu approva a maggioranza la nascita di due Stati in Palestina la politica, la vita quotidiana, le invenzioni s’intrecciano in un puzzle narrativo
di Elena Loewenthal


In fondo, la storia – che sia con la maiuscola o senza – è fatta proprio di quella pasta che Elisabeth Asbrink, scrittrice e giornalista svedese di cui Alessandro Borino ha appena tradotto l’ultimo libro, 1947, per Iperborea, maneggia con estro: un pendolo di piccole vicende personali ed eventi epocali che a volte sono lontanissimi fra loro e altre volte si incrociano.
1947 è un libro difficile da definire: a seguire passo dopo passo, alcune delle narrazioni vien da pensare che sia una specie di romanzo a puntate. Anzi, una serie di romanzi, di storie parallele. Ma in altri punti il libro assomiglia a un mémoir personale, è come se qui l’autrice avesse raccolto i tasselli della vicenda del padre ungherese, e stesse facendo ordine.
Però non è tutto qui, perché 1947 è anche un libro di storia con la maiuscola, che riesce a portare il lettore dentro lo spirito del tempo di cui il titolo porta la data. «Il tempo è asimmetrico», scrive l’autrice, e qui il tempo di quell’anno è sezionato mese per mese, e dentro ogni mese ci sono luoghi, persone, momenti e avvenimenti apparentemente sconnessi fra di loro. A volte l’apparenza inganna il lettore, a volte dice il vero perché gli accadimenti e l’umanità che ne è coinvolta restano sospesi in un magma di tempo e spazio.
Asbrink fa una sorta di autopsia di un anno molto particolare: la guerra è appena finita, gli scenari politici, così come l’Europa, sono tutti da ricostruire. Non è proprio l’indomani della fine della guerra, è un tempo un poco più avanti, dove si pretenderebbe di aver già conquistato un pezzo di normalità. È davvero interessante questa specificità del 1947, che fra le pagine del libro diventa una specie di emblema di tutto il nostro tempo, sospeso fra eventi «epocali» e monotonia, fra necessità di fare delle scelte e desiderio di isolamento. Come quello di George Orwell, alias Eirc Arthur Blair, che «in una fredda e luminosa giornata d’aprile», quando «l’orologio batte le tredici», «sbarca sull’isola scozzese di Jura insieme al figlio adottivo di tre anni Richard e a nient’altro». Il lettore incontrerà ancora Orwell, seguirà di mese in mese la costruzione del suo pensiero politico. Incontrerà molti altri personaggi della storia – con la maiuscola o senza: da Primo Levi a Billie Holiday, dal Gran Muftì di Gerusalemme che fu uno fra i più grandi fan e collaboratori di Hitler a Lord Mountbatten sulle ceneri dell’mpero coloniale britannico, da Simone De Beauvoir a Raphael Lemkin che dedicò quegli anni alla definizione di «genocidio», al piccolo Jozsef, orfano e vagabondo di guerra e padre dell’autrice.
Ma sono davvero tanti di più, i protagonisti di questa storia: nessuno è soltanto una comparsa. Tutti sono necessari, così come lo è la vastità di un panorama geografico che va da Malmo e Gerusalemme, dal Cairo a Parigi a Monaco di Baviera a Budapest. A dire il vero c’è una sorta di fil rouge che è al centro della narrazione e che potremmo definire con un certo margine di approssimazione il «destino ebraico» dopo la guerra e la Shoah.
Il 1947 è in questa prospettiva un anno talmente «epocale» che per trovarne uno analogo, benché di segno opposto, bisogna tornare indietro sino al 70 d.C., quando l’imperatore Tito conquista definitivamente Gerusalemme e distrugge il Tempio. Quasi duemila anni dopo, il 27 settembre del 1947, una risoluzione delle Nazioni Unite approvata a maggioranza sancisce in quella regione rimasta per trent’anni sotto un Mandato Britannico che sarebbe durato meno se non fosse arrivata la Seconda Guerra Mondiale la nascita di due stati palestinesi: uno arabo e uno ebraico. Per i figli d’Israele è la fine dell’esilio, e quella data conta forse più del giorno dell’Indipendenza in cui il 14 maggio del 1948 Ben Gurion dichiara lo stato ebraico.
Asbrink ripercorre la vicenda ebraica in quell’anno cruciale che dà il titolo al suo libro, in bilico fra l’ombra della Shoah, i campi di raccolta per i profughi, l’immigrazione clandestina – dopo la guerra la Gran Bretagna di fatto proibì agli ebrei di approdare in Palestina – il faticoso ritorno alla vita. Ma, pur nella centralità di questa vicenda, l’autrice tiene costantemente presente l’affresco di quel tempo, ed è questa prospettiva ampia nel tempo e nello spazio ad affascinare il lettore. Perché è davvero un’opera di grande respiro che parla di tutti noi, dell’Europa e del mondo che le sta intorno: e non si tratta soltanto della curiosità che prende di fronte a un libro dal genere letterario così originale e inafferrabile. Perché fra queste pagine la cronaca storica è così avvincente che coinvolge malgrado la distanza, e soprattutto ci dà le misure della nostra identità di oggi, qualunque essa sia.

La Stampa 9.6.18
Monet, l’angoscia oltre il giardino
Guardando i suoi quadri attraverso le architetture dipinte, si scopre un artista afflitto dalla modernità che ne sconvolge il mondo ideale. Mostra a Londra
di Caterina Soffici


La meraviglia dei colori. La seduzione delle pittura, il talento allo stato puro. La luce, l’aria. C’è tutto quello che uno si aspetta ma anche molto altro. Solo grandi istituzioni come la National Gallery possono produrre mostre di questo livello, riuscendo a unire l’evento blockbuster con una curatela scientifica alta e rigorosa. «Monet & Architecture» (da oggi al 28 luglio), un titolo asciutto e diretto: Monet è il blockbuster, l’architettura è l’inedito e originale sguardo al quale Richard Thomson, professore all’Università di Edimburgo, e la sua squadra hanno lavorato per quasi quattro anni. Il risultato sono 77 opere, 19 delle quali proveniente da collezioni private e alcune mai mostrate prima in pubblico (tra cui una Chiesa di Véthevil del 1878 e una veduta di Antîbes del 1888 e altre che con pazienza e mezzi potenti sono state rintracciate dal team della National).
Quante volte abbiamo visto Monet? Decine, centinaia, migliaia. È il pittore dei giardini, delle ninfee, delle colazioni sull’erba, dei paesaggi. «Alcune immagini sono ormai parte della nostra memoria collettiva» sottolinea giustamente Gabriele Finaldi, direttore della National. «È un artista che pensiamo di conoscere così bene e invece, se guardiamo le sue opere attraverso l’architettura e gli edifici che dipinge, ne abbiamo una lettura completamente nuova» spiega Richard Thomson.
Sette sale, in crescendo. Tre aree tematiche. Si inizia con le visioni pittoresche di chiese gotiche e le pietre della Francia medievale, i paesaggi di Normandia, Olanda e la costa mediterranea francese fino a Bordighera e Dolceacqua. Si passa poi all’esplorazione della città e della modernità per finire con l’esplosione delle due sale finali dedicate alla cattedrale di Rouen (ben 5 sulle 30 in totale che ha dipinto), otto paesaggi di Londra e nove vedute di Venezia.
«Monet è solo un occhio, ma mio Dio che occhio» scrisse Paul Cézanne. Non è propriamente vero. A prima vista infatti tutto sembra passare attraverso l’occhio. Se attraversate velocemente le sette sale, quello che risalta è il Monet dell’aria e della luce che siamo abituati a vedere. C’è anche questo, ovviamente. Gli edifici non fanno altro che esaltare l’aria e la luce, come per esempio accade nelle varie vedute della cattedrale di Rouen, che cambia colore a seconda dell’ora del giorno e del clima: lo stesso soggetto in viola, rosa, azzurro, giallo. Questa è la parte che piace all’occhio. Ripassate le sale in cerca dei particolari e la seconda lettura è qualcosa di assolutamente nuovo: più che la visione rivoluzionaria e modernista che in genere si associa all’estetica dell’Impressionismo dalla mostra del 1874 in poi, qui c’è l’angoscia della modernità che arriva a devastare un mondo borghese e bucolico nel quale invece Monet sembra indugiare.
Nelle prime sale, quelle delle visioni pittoresche e dei potenti paesaggi delle scogliere normanne, si indugia nel passato attraverso i vecchi edifici che si ergono come baluardi contro l’incombere dell’industrializzazione. Le rovine, le chiede medievali, i vecchi edifici sono la barriera contro la brutalità del moderno che avanza. Due quadri in particolare mostrano l’orrore di Monet per quello che prevede: il Boulevard des Capucines a Parigi (1873) dove la moltitudine di passanti si impasta in una macchia di colore che mette ansia e crea un senso di agorafobia e di disumanizzazione. E Les Déchargeurs de charbon (1875) dove le sagome dei carbonai si muovono come automi con lo sfondo di un ponte industriale, grigio e angosciante. Vetro e acciaio alla stazione di Saint-Lazare, e le nebbie che avvolgono i ponti sul Tamigi e il Parlamento di Westminster.
Non c’è la celebrazione della città e del progresso, ma anzi la ricerca di un rifugio nelle pietre dei palazzi del lungomare di Trouville o nella facciata senza tempo di Rouen e ancora di più nell’ultima sala, quella veneziana. Nelle vedute di Palazzo dei Dogi, Canal Grande, San Giorgio non ci sono presenze umane. Le gondole sembrano guidate da fantasmi, la città sembra disabitata, un’aria spettrale aleggia nelle tele togliendo l’aria da cartolina e aggiungendo un mistero che si riflette sull’acqua attraverso le masse indefinite dei palazzi. Anche qui la luce cambia secondo l’ora e la meteorologia, ma la pietre rimangono nei secoli.
Il successo di pubblico per una mostra del genere è assicurato e sulla stampa britannica è già arrivata la prima polemica, legata al prezzo del biglietto, 22 sterline (circa 25 euro), giudicato eccessivo da alcuni esponenti politici. Una polemica destinata a sgonfiarsi velocemente se si considerano i costi di un evento del genere, con opere da milioni di dollari in arrivo da tutto il mondo (che la generosa sponsorizzazione del Credit Suisse non può certo coprire) e il fatto che a Londra 22 sterline bastano appena per un cinema, una Coca e un barattolo di popcorn il sabato sera.