il manifesto 8.4.18
L’eredità italiana oltre il ghetto del melodramma
Musica.
Fiamma Nicolodi fa pulizia in una incolta boscaglia storiografica per
prelevare quanto del nostro contesto musicale fu aperto al dialogo con
altre forme d’arte: «Novecento in musica», dal Saggiatore
di Oreste Bossini
Uno
tra gli effetti perversi dei recenti rigurgiti neofascisti è stato
quello di fare ripiombare lo studio dei fenomenti artistici del primo
Novecento italiano nel cono d’ombra della dissertazione ideologica, col
rischio di far cadere una pietra tombale sul faticoso lavoro di
riscrittura di un periodo storico che ha usato in maniera spregiudicata
il mondo culturale, e viceversa. Fin dall’inizio degli anni Ottanta,
Fiamma Nicolodi ha speso buona parte delle sue ricerche per illuminare
lo sfondo culturale della musica italiana di questo periodo, sforzandosi
di definire i rapporti dei nostri musicisti con l’ambiente
intellettuale, anche europeo, in maniera non viziata da pregiudizî e
luoghi comuni.
I primi cinquant’anni
La narrazione
musicologica ha perlopiù liquidato frettolosamente la musica italiana
del primo Novecento come frutto incommestibile di un ambiente
provinciale e arretrato, schiavo di una tradizione melodrammatica sempre
più isolata e grettamente nazionalistica. Le uniche eccezioni allo
straripante cattivo gusto di quella che Fausto Torrefranca parlando di
Puccini ha chiamato «opera internazionale», sarebbero state la breve
ventata futurista e la cosiddetta «generazione dell’80», prive tuttavia
della forza di ribaltare le sorti del declino musicale italiano, vuoi
grazie alle velleità dei Futuristi vuoi per le tensioni tra i maestri
più corredati di strumenti artistici e culturali, come Alfredo Casella,
Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gianfrancesco Malipiero, divisi
da gelosie e rivalità personali sullo sfondo di un diffuso opportunismo
verso il regime fascista.
Non sempre, però, una simile lettura
regge alla prova dei fatti, che Fiamma Nicolodi esamina con scrupolo
sulla scia di un lavoro di pulizia di questa incolta boscaglia
storiografica, scrivendo Novecento in musica Protagonisti, correnti,
opere. I primi cinquant’anni (Il Saggiatore, pp. 287, euro 28,00). Tra
le pieghe dei documenti e della pubblicistica del tempo, emerge infatti
un contesto musicale più complesso, dotato di una mentalità meno
provinciale e più aperta al dialogo con altre forme di espressione
artistica e culturale: il Futurismo, per esempio, attende ancora di
essere esaminato in tutte le sue diramazioni, nonostante gli studi sulla
fitta trama delle sue relazioni con la musica, cui ha dato un
significativo contributo anche il pianista e studioso Daniele Lombardi,
scomparso prematuramente, che avrebbe certamente saputo portare a galla
ulteriori documenti e nuovi testi musicali inediti di grande aiuto per
la ricerca.
Su questa mappa ancora da definire nei dettagli,
Nicolodi traccia alcuni punti di riferimento, prendendo in esame sia i
musicisti di aperta fede futurista, come il romagnolo Francesco Balilla
Pratella e il triestino Silvio Mix, sia gli echi della poetica futurista
presenti nei compositori di ambiente accademico più sensibili alle
sfide della modernità, come Casella e Malipiero. Altrettanto illuminante
è il riverbero delle tendenze più attuali della musica europea sulla
scena culturale italiana, in cui si distinguono anche critici molto
attenti e informati come Giannotto Bastianelli, traduttore per gran
parte dell’ambiente letterario italiano del nuovo linguaggio degli
impressionisti francesi, Debussy e Ravel, e delle raffinate seduzioni
del teatro di Strauss.
Tra Poulenc e Dallapiccola
’Italia
del primo Novecento, pur con i suoi limiti, mantenne tuttavia canali di
scambio con la grande musica europea, che Nicolodi riscontra per esempio
nella cerchia di Busoni. Nomi come quelli di Bruno Mugellini e Gino
Tagliapietra sono ormai caduti nell’oblìo, ma furono protagonisti anche
di progetti importanti come l’edizione Breitkopf&Härtel
dell’opera pianistica di Bach curata da Busoni. Inoltre, la sorpresa, al
di là delle Alpi, dellamusica del giovane Petrassi, non faceva pensare a
una nazione così ancorata alla tradizione del melodramma.
Particolarmente
gustoso il saggio che racconta i rapporti di un artista francese fino
alla radice dei capelli, Francis Poulenc, con i colleghi italiani, e in
particolare con Luigi Dallapiccola, uno tra i padri della dodecafonia in
Italia: divisi in tutto, i due artisti godevano tuttavia di un
reciproco profondo rispetto, e di una comune visione della sfera
religiosa. Sulla copia di Dallapiccola delle Deux mélodies su poesie di
Apollinaire, l’autore giustifica di proprio pugno, con garbata ironia,
la dedica al collega: «Un giorno d’estate, scrivendo qualche nota sui
versi di Apollinaire, l’ho trovata vagamente dodecafonica: di qui la mia
dedica».