il manifesto 8.4.18
Toni Morrison, il senso del “noi”
Classici
moderni. Motivata dal desiderio di dare voce a generazioni di donne
nere ridotte all’irrilevanza, e convinta che «l’arte migliore è
politica», l’autrice di «Beloved» compare ora nei Meridiani
di Luca Briasco
Quando,
nel 1978, decide di abbandonare il mestiere di editor all’interno del
gruppo Random House per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Toni
Morrison ha già quarantasette anni e tre romanzi alle spalle. Se
l’esordio, L’occhio più blu, ha avuto un’accoglienza contrastata,
ottenendo un’attenzione critica pari all’indifferenza del pubblico, i
successivi Sula e soprattutto Canto di Solomon l’hanno portata al
successo e alla fama: il primo è stato candidato al National Book Award e
il secondo ha vinto il National Book Critics Circle Award, oltre a
essere selezionato per il Book of the Month Club, primo romanzo
afroamericano ad arrivare a tanto dopo Ragazzo negro di Richard Wright.
Tardivi riconoscimenti
Una
fama, quella di Morrison, che conoscerà una breve battuta d’arresto con
il successivo Tar Baby (tradotto in italiano come L’isola delle
illusioni), bene accolto in termini di vendite ma criticato per quello
che ad alcuni appare un eccesso didascalico; ma che poi si consoliderà
con la pubblicazione di Beloved – secondo molti, a tutt’oggi il suo
capolavoro, premiato con il Pulitzer nel marzo del 1988 dopo che, due
mesi prima, al New York Times era pervenuta una lettera firmata da
quarantotto scrittori e intellettuali neri, da Alice Walker ad Amiri
Baraka, che polemizzavano sul fatto che a una scrittrice del livello e
della fama anche internazionale di Morrison non fosse ancora stato
attribuito il National Book Award. Insieme ai successivi Jazz e
Paradiso, Beloved va a comporre quella che la stessa Morrison ha più
volte definito una trilogia sulla storia afroamericana, e che
rappresenta probabilmente il vertice assoluto della sua arte.
La redenzione del «noi»
Proprio
mentre comincia a lavorare al terzo capitolo della sua trilogia le
viene conferito il Nobel per la letteratura, e Morrison reagisce così
alla notizia: «Sono immensamente felice. Ma quel che è più strabiliante
per me è sapere che questo premio è stato finalmente dato a uno
scrittore africano-americano». In seguito aggiungerà: «Ero eccitata per
“noi”. Era come se un’intera categoria di “scrittrici donne” e
“scrittrici nere” fosse stata redenta. Sentivo di rappresentare un
intero universo di donne che erano state ridotte al silenzio e che non
avevano mai ricevuto l’imprimatur del mondo letterario. Ho provato la
stessa cosa delle prime volte in cui ho ricevuto una carica onoraria:
era importante per i giovani neri vedere che succedeva a una persona
nera; probabilmente c’erano giovani neri che non credevano di potercela
fare. Ma vedermi lì poteva incoraggiarli a scrivere i libri che
desideravo con tutta me stessa leggere».
In questa frase, solo
apparentemente banale, è possibile cogliere le due pulsioni dalle quali
prende le mosse ogni progetto narrativo di Morrison: la consapevolezza e
la ricerca di una rappresentatività, il desiderio di dar voce a
generazioni di donne nere ridotte al silenzio o all’irrilevanza, ma
anche la volontà, ben più semplice, di scrivere solo ciò che si
desidererebbe leggere e che non sempre è dato trovare sul mercato
letterario. Ed è forse nella coesistenza di queste due volontà, nella
ricerca di un perfetto punto di sintesi tra di esse, che è possibile
cogliere il senso ultimo della scrittura di Morrison, del suo intero
percorso intellettuale. Un percorso che è la stessa Morrison a
sintetizzare perfettamente quando si oppone al sentire comune in base al
quale «se un’opera d’arte ha un minimo di impatto politico, allora è
corrotta. Io penso esattamente il contrario: è corrotta se non ce l’ha»;
perché «l’arte migliore è politica e si deve riuscire a renderla al
contempo indubbiamente politica e irrevocabilmente bella».
Per
realizzare questo obiettivo, Morrison unisce a una programmatica
limpidezza dello sguardo e della visione un sincretismo straordinario,
nel quale convergono e si armonizzano la potente cultura orale
trasmessale dalla famiglia e dalla comunità di riferimento e una
conoscenza approfondita dell’intera tradizione letteraria, afroamericana
e non. Di questo complesso lavoro di collazione e reinvenzione, che in
capolavori come Canto di Solomon, Beloved e Jazz trova la sua
espressione più compiuta, ci viene offerta una sintesi accurata grazie
al Meridiano Toni Morrison che Mondadori le ha finalmente dedicato, a
cura di Alessandro Portelli e accompagnato, oltre che da una magnifica
introduzione dello stesso Portelli, da uno scritto di Marisa Bulgheroni e
da una cronologia particolarmente ricca di informazioni e dettagli,
redatta da Chiara Spallino Rocca (pp.1664, € 80,00).
Il primo,
grande merito del volume, che ospita sei degli undici romanzi di
Morrison, va rintracciato nelle traduzioni. Vengono variati, rispetto
alle edizioni originali – e sempre in modo più che giustificato – ben
tre titoli: L’occhio più blu al posto dell’Occhio più azzurro, «per il
rimando fonico al blues, latente nel libro»; Beloved, titolo «meno
enfatico e più puntuale del precedente Amatissima»; Canto di Solomon
invece che Canto di Salomone, al fine di «identificare in maniera
appropriata il personaggio dell’omonimo canto al centro del romanzo».
Quanto
alle traduzioni, Chiara Spallino firma tre versioni completamente
nuove, e davvero eccellenti, di L’occhio più blu, Sula e Beloved, mentre
Franca Cavagnoli ha proceduto a una revisione rigorosa e approfondita
delle sue traduzioni di Canto di Solomon e di Jazz. Resta dunque
sostanzialmente invariata la sola traduzione del Dono, firmata da Silvia
Fornasiero. In queste versioni, i romanzi di Morrison – qui sono
presenti i titoli maggiori, con la sola eccezione di Paradiso – si
dispiegano in tutta la loro ricchezza di temi e riferimenti, disegnando
una traiettoria davvero unica. Se nell’Occhio più azzurro e in Sula
predomina uno sguardo al femminile che prende le mosse dal microcosmo
del nativo Ohio – una «letteratura di villaggio», per riprendere la
felice espressione richiamata nel saggio di Portelli, però sempre
fondata sulla consapevolezza che l’universale si coglie nello specifico –
in Canto di Solomon Morrison abbraccia una prospettiva maschile, e dà
il via a quel processo di immersione nella storia e nelle leggende della
schiavitù che troverà in Beloved la sua mirabile sintesi.
Un impegno necessario
E
se Jazz rappresenta a tutt’oggi il culmine di uno sperimentalismo e di
una frammentazione narrativa tutta giocata sul filo della memoria e dei
suoi meccanismi più intimi, Il dono costituisce una riflessione dolce e
feroce al tempo stesso sul sostrato di schiavitù e oppressione sociale
che lo sguardo bianco e americano ha tentato di nascondere dietro i
propri miti fondativi.
Al lettore non rimane allora che «surfare»
tra le parole di Morrison e il ricco e rigoroso apparato critico che le
accompagna, e riscoprire così in tutto il suo valore una scrittrice
straordinaria, capace di rilanciare quella nozione di «intellettuale
impegnato» cui troppo spesso si tende a guardare con imbarazzo, senza
comprenderne invece l’assoluta necessità storica.