La Stampa 8.4.18
Giancarlo De Cataldo
Il rimorso dell’agente che avvelenava il ’68
L’ultimo
romanzo del giudice scrittore ricostruisce il caso del Lsd diffuso tra i
contestatori dalla Cia “Anche dalle forze del male nascono lampi di
luce”
Uno dei servizi mi disse: Ci sono molte missioni, se riescono diventano storia, se falliscono diventano complotti
di Massimo Vincenzi
Il
nuovo romanzo di Giancarlo De Cataldo, L’agente del caos, è un
illuminante saggio sul 1968, i movimenti giovanili, la violenza degli
Anni Settanta e la distopia. Ma qui serve una digressione a discolpa
della parola distopia, abusata, aggrovigliata e spesso respingente. Il
nuovo romanzo di Giancarlo De Cataldo è un libro tutto da gustare,
tangente al noir, ma che vola più alto e si abbevera alla migliore
tradizione della letteratura americana (American Tabloid), senza perdere
le radici italiane, si spinge oltre la banalità grazie a personaggi
avvincenti e una trama dalla quale non si può sfuggire. Un agente della
Cia, Jay Dark, allevato da un ex scienziato nazista Kirk, si infiltra
tra i ragazzi della rivolta e li inonda, su mandato del potere, di Lsd
con l’obiettivo di distruggere le loro menti rivoluzionarie e dunque
eliminare la minaccia. Di tutto questo, provando a mettere ordine nel
caos da lui stesso creato, parla lo scrittore romano.
La prima impressione: è un libro molto diverso da quelli precedenti. Concorda?
«Molto
differente, è un racconto che mi è costato un lungo tempo di gestazione
e aggiungo che 30 o 40 anni fa avrei scritto una cosa completamente
differente: con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Ora ho la
convinzione che tutto sia più sfumato, più complicato».
Molto tempo fa discutemmo del genere noir, ancora allergico alla definizione?
«No,
ci mancherebbe. Amo la mia tribù, ma in questa occasione mi sono messo
in gioco, allontanandomi dagli stilemi del genere classico, ma senza
raffreddare la prosa».
Ci sono eventi veri, provati e ovviamente una robusta dose di fiction. Giusto?
«Ci
sono agenti della Cia realmente esistiti, gli esperimenti sulle droghe
sono veri, la collaborazione tra l’intelligence americana e alcuni ex
collaboratori di Hitler è provata. Poi io mi sono preso la libertà di
aggiungerci la mia fantasia».
Come si è documentato?
«Ho
lavorato con alcuni ragazzi che hanno prodotto un bellissimo
documentario sull’argomento, esistono testi americani sugli agenti
deviati e un rapporto dei Ros sulla vicenda».
C’è un grande lavoro sui protagonisti. Jay Dark che tipo è?
«È
un personaggio doloroso, nato molto povero, sogna di essere libero e
vorrebbe tanto essere quello che invece gli hanno insegnato e ordinato
di distruggere. Ha il dono delle lingue, la sua vera dote. E poi è
immune alle droghe, questo gli permette di attraversare quel mondo con
una triste consapevolezza. La sua cifra più vera è l’ambiguità. È poi un
disperato, un miserabile, ma con un talento infinito che alla fine lo
porta a provare empatia verso quelli che dovrebbero essere i suoi
nemici».
Lei sembra attratto da lui. È così?
«Sì, lui è una
metafora perfetta: anche dalle forze del male nascono lampi di luce. La
sua è una storia illuminante su quello che siamo».
C’è il ’68, poi lei tocca i misteri italiani con gli inevitabili complotti. Cosa la affascina di questi mondi?
«Una
volta un uomo dei servizi segreti mi disse una frase: noi mettiamo in
campo molte missioni, se riescono diventano storia, se falliscono
diventano complotti. Da sempre è così: pensi all’impero romano, è pieno
di ombre, di lati oscuri che la verità ufficiale non riesce a spiegare
ma il tempo li ha metabolizzati e li ha chiamati Storia con la S
maiuscola».
L’Italia però sembra la patria di questo cono d’ombra.
«Ma
non è così, gli Stati Uniti sono pieni di zone opache, la Francia e il
Regno Unito, la Germania del dopo nazismo: non siamo un’eccezione.
L’unico Paese che ha fatto veramente luce sul proprio passato è il
Sudafrica perché lì hanno scelto la via della pacificazione e non quella
giudiziaria. Da noi le vittime, giustamente, vogliono ancora giustizia,
i carnefici nascondono le proprie colpe e tutto diventa impossibile da
sbrogliare. Per esempio la ricostruzione storica delle Br è andata molto
avanti sul piano della verità, ma rimangono molti buchi ancora da
riempire».
Che faceva nel ’68?
«Ero piccolo e vivevo a
Taranto ma mi sarebbe piaciuto tanto viverlo. Quello spirito
d’avventura, la rottura con il puritanesimo che soffocava questo Paese.
Guardi adesso, siamo chiusi su noi stessi, prigionieri dei social,
incapaci di essere una folla in grado di produrre energia e inventarsi
un nuovo modo di vivere».
Nel suo libro c’è una frase che lei
adesso mi ha ricordato, la pronuncia l’avvocato Flint quando racconta la
storia di Jay Dark e che dice: io c’ero. È decisiva nel racconto, vero?
«La
devo al mio editor in Einaudi, Francesco Colombo, e in effetti è uno
dei motori della narrazione. La mia invidia: avrei voluto esserci,
guardare negli occhi quei ragazzi che alla fine seducono anche il
cattivo agente del caos».
Ecco così arriviamo all’altra parola chiave: caos. Cosa rappresenta per lei?
«È
il movimento per eccellenza, le molecole si rompono per ricreare
equilibrio e rimettere le cose a posto in un nuovo ordine. È la linfa
della vita».
Complotti, servizi segreti deviati, le stragi, Moro. L’elenco è lungo. Le piace l’Italia come è diventata?
«Ci
sono molte cose che non mi piacciono, ma non sono di quelli che si
piangono addosso. Bisogna dannarsi l’anima per risolvere i problemi, qui
ed ora. Purtroppo, e non è un paradosso, ma il mondo perfetto è
noioso».