sabato 7 aprile 2018

La Stampa 7.4.18
Nel regno sovranista di Orban
“Vinco e mi occupo dei nemici”
Il premier attacca il rivale Soros, i migranti e “le potenze straniere” L’economia in crescita aiuta il leader. Opposizione assente sui media
di Monica Perosino


Il premier ungherese Viktor Orban sembra considerare il voto di domani una noiosa seppur necessaria formalità. Lui guarda già oltre, come se nulla potesse scalfire il suo regno ininterrotto e, apparentemente, incrollabile.
Strategia elettorale o convinzione poco importa, l’uomo forte dell’Ungheria non mostra tentennamenti, e il quarto mandato (il terzo consecutivo) per lui non è in discussione.
Per questo guarda già avanti e promette: «Dopo la vittoria mi occuperò dei miei nemici, con mezzi morali, politici e legali».
Lo sguardo volitivo del premier rimbalza all’infinito sui poster formato gigante che macchiano di verde e rosso le facciate dei sontuosi palazzi di Budapest. Sono ovunque, e dappertutto ripetono la promessa elettorale di Orban. Solo il logo del partito di ultradestra Jobbik compete in dimensione, non certo in numero. Appesi con scotch di carta ai lampioni, timidamente incollati ai cestini e ai muri delle vie laterali sono comparsi, nemmeno due settimane fa, i volti dei candidati all’opposizione. «Fino a ieri neanche sapevamo che faccia avessero - dice János Seres, che vende lattine di paprika ungherese al mercato -. Ma non siamo sorpresi, d’altronde è il governo che dà i permessi per le affissioni. Le elezioni qui sono inutili». I sondaggi sembrano dargli ragione, pochi dubbi che sarà ancora Orban, l’inventore della «democrazia illiberale», a guidare il Paese: l’ultimo attribuisce all’alleanza Fidesz-Cristiano democratici il 47% dei voti, un risultato che, se dovesse avverarsi, fornirebbe a Orban una solida maggioranza nel Parlamento magiaro. Molto staccato il principale rivale, il partito ultranazionalista di Jobbik, con il 18%. Il Partito socialista si attesterebbe sul 14%.
I nemici di Viktor
La promessa di abbattere «i nemici dell’Ungheria» è stata la cifra di una campagna elettorale che negli ultimi 8 mesi ha raggiunto picchi di tensione altissimi, culminati in scandali finanziari, accuse di spionaggio, propaganda e contropropaganda, fake news, corruzione. Sono stati chiusi giornali di opposizione, e «gli oligarchi amici di Orban - spiega l’analista Ivett Korosi - si sono comprati quasi tutti gli altri». Da lunedì, a scanso di sorprese elettorali, la battaglia continuerà.
I nemici sono innanzitutto i migranti, che «vogliono invadere l’Ungheria e cancellare i valori cristiani», contro i quali Orban ha già innalzato un muro di 175 chilometri e, due anni fa, ha indetto un referendum per fermare la ricollocazione chiesta dalla Ue. È contro «l’invasione» che si è concentrata la campagna elettorale. Il governo ha diffuso storie terribili di malattie tropicali diffuse dai profughi, ha mostrato foto di fantomatici ghetti islamisti (a Vienna, Parigi, Berlino e Stoccolma) paventando un destino simile per l’Ungheria e ha diffuso «dati», come quello della percentuale di nigeriani malati di Aids («l’80%»). Pochi giorni fa Zoltan Lomnici Jr., portavoce del Com, movimento pro-Orban, ha arringato la folla a Budapest sostenendo che la maggior parte degli africani è malato di Hiv e in Svezia 4 donne su 5 violentate dai migranti hanno contratto il virus.
L’attacco straniero
La retorica funziona. Molti ungheresi credono alla narrativa di Orban secondo la quale il Paese sarebbe sotto attacco da varie potenze straniere «aiutate dai media internazionali» e dal miliardario filantropo americano-ungherese George Soros, attraverso i suoi «agenti», ovvero le Ong internazionali che difendono i diritti umani. È Soros il nemico pubblico numero uno: alla guida di «un impero che lavora, con duemila “mercenari” in tutta l’Ungheria, per trasformare l’intero continente e i suoi Stati in Paesi di immigrati».
Daniel Makonnen, portavoce della Fondazione Open Society di Soros a Budapest, snocciola l’infinita serie di fondi destinati a organizzazioni umanitarie, educazione, media indipendenti e organizzazioni anti corruzione. L’anno scorso si sono sfiorati i 4 milioni di euro: «La fondazione lavora anche per promuovere l’informazione: nel Paese, Budapest a parte, le uniche fonti sono i giornali locali, controllati dal governo, e la tv nazionale, infarcita di pubblicità di Fidesz in mezzo ai programmi di cucina. Questa campagna elettorale è stata durissima, le voci del dissenso praticamente annullate». Non stupisce che la base degli elettori, soprattutto nelle aree rurali, «non abbia neanche idea di un’alternativa a Orban».
Il suo elettorato non è più quello delle élite filo-europee delle grandi città, ma quello dei ceti medio-bassi e dei contadini. Le indagini demoscopiche rivelano che su tre aventi diritto solo due dichiarano l’intenzione di andare a votare: la bassa affluenza favorisce Fidesz che ha una base solida di circa 2 milioni di votanti certi. Il 30-35% dell’elettorato, infine, sarebbe incerto su chi votare. Se, ipotesi improbabile, i partiti di opposizione riuscissero a chiamare questa parte di elettori alle urne, una sorpresa non è esclusa.
L’economia
La forza persuasiva del premier sta soprattutto nell’economia: come l’alleata Polonia, l’Ungheria ha una crescita fortissima (+4% nel 2017), anche se pesantemente dopata dai 5 miliardi di euro dell’Europa. Il risultato è un «benessere» che però non si rispecchia nella realtà nazionale. Un quarto della popolazione è a rischio povertà, con salari bassissimi e una flat tax che piega soprattutto le classi più basse, tanto che nel 2017 la Commissione europea ha indicato in Ungheria l’aumento peggiore delle diseguaglianze in tutta l’Unione.
In campo economico Orban ha progressivamente abbandonato le politiche liberiste dei primi anni, orientandosi verso un potenziamento del settore pubblico. Ammiratore di Putin e Trump («finalmente con lui finisce il multiculturalismo»), lo stesso Bannon ha definito Orban un «eroe» per la sua rivoluzionaria visione di «democrazia illiberale» e nazionalista.
Il paradosso europeo
Sebbene il premier ungherese sia considerato un euroscettico (anche se il suo Fidesz è nel Ppe), e l’Europa lo consideri un pericolo per lo stato di diritto, Orban sta molto attento a non spingersi troppo oltre, anche perché è consapevole che gli ungheresi sono fortemente europeisti. Non solo, Martin Michelot, vice direttore del think tank «Europeum», e curatore di un rapporto pubblicato dall’Istituto Delors di Parigi, spiega che «Orban non combatte l’Europa», e «sa benissimo che il Paese dipende dai fondi europei e dagli investimenti stranieri, inclusi quelli delle banche italiane, così come dipende dalla libera circolazione dei lavoratori».