Il Fatto 7.4.18
Ungheria stregata a vita dalle botte di Orbán
Anti-migranti
e Ue - La parabola del premier “illiberale”: da pupillo delle élite a
capo-popolo delle classi povere favorito nel voto di domani
Orbán è diventato il leader dei Paesi dell’Est critici con l’Unione
di Andrea Valdambrini
“Mostrami
un giovane conservatore e ti dirò che è senza cuore. Mostrami un
vecchio progressista e ti dirò che è senza cervello”. L’adagio,
falsamente attribuito a Churchill, pare perfetto per racchiudere la
storia di Viktor Orbán, anzi di Orbán e il suo doppio. Il primo è un
ragazzo di 26 anni magro, capelli fluenti, come emerge da una foto del
1989, quando pochi mesi prima del crollo del regime arringava la folla
inneggiando della libertà di espressione e del libero mercato. Il
secondo è un uomo sulla sessantina, volto più tondo e pancia prominente,
che difende i valori cristiani contro l’invasione dei migranti in nome
del nazionalismo magiaro, critica i tecnocrati di Bruxelles, flirta con
Mosca, controllando i media e mette in atto misure dirigiste definite
dai suoi avversari esempi di “populismo economico”. Cosa è successo
nello spazio di tempo quasi trentennale che separa il primo dal secondo
politico?
Premier in carica dal 2010, in corsa per il quarto
mandato (il primo era stato tra il 1998 e il 2002), che dovrebbe
ottenere senza difficoltà domani, l’Orbán di oggi si comprende più
considerando il pragmatismo delle scelte che la presunta folgorazione
ideologica sulla via del sovranismo. Dopo i primi successi, Fidesz, il
partito da lui fondato, subisce un’amara sconfitta nel 1994.
Da
allora il giovane leader smette di rivolgersi alle élite urbane – già
rappresentate da altre formazioni – bensì a quelle classi sociali
provinciali e marginalizzate da cui lui stesso proveniva. E che
rimangono la base del suo ampio consenso.
Perfino il contrasto
andato in scena negli ultimi mesi con George Soros è l’esempio di un
clamoroso cambiamento. Fu proprio il magnate filantropo, ebreo di
origine ungherese, a finanziare sul finire dell’era comunista i primi
passi dell’attuale premier. Eppure contro Soros, sostenitore della
necessità dell’immigrazione per l’Europa, Orbán non ha esitato a
scatenare una violenta e lunga campagna d’opinione, culminata nella
legge che impone forti restrizioni all’azione delle ong – tra cui la
fondazione Open Society riconducibile al magnate – e attirandosi per
questo anche le accuse di antisemitismo. Proprio l’opposto di quanto
accaduto con un altro antico alleato come l’oligarca Lajos Simicska, che
ha voltato le spalle a Orbán, dichiarando il supporto per l’estrema
destra di Jobbik, ma soprattutto scatenandogli contro la stampa di sua
proprietà per denunciare uno grosso scandalo legato a fondi Ue che
coinvolgerebbe esponenti del governo. Una campagna non in grado di
impensierirlo, dato che il controllo sui media rappresenta un corposo
capitolo dell’atteggiamento quantomeno disinvolto di Orbán verso la
democrazia liberale.
A partire dal 2010, il premier ha messo sotto
stretto controllo l’intero sistema radiotelevisivo pubblico e privato,
nonché i principali quotidiani nazionali e locali. Caso esemplare,
l’acquisto nel 2015 di un canale nazionale da dell’oligarca e già
produttore hollywoodiano Andy Vajna -, tassello di una rete di
fedelissimi alla testa dell’informazione, di cui tira le fila il
sottosegretario Antal Rogán, conosciuto come “ministro della
Propaganda”.
Stampa amica funzionale a sostenere la traiettoria in
rotta di collisione con le politiche delle capitali occidentali invece
accondiscendente con i valori (e gli interessi economici) della Russia
diventata amica da nemica che era per chi fu anti-sovietico come lui.
Basti pensare all’esaltazione dell’Ungheria cristiana, “ultimo bastione
contro l’islamizzazione dell’Europa”, come ha tuonato il leader di
Fidesz nel discorso sullo stato della nazione di febbraio, in cui ha
anche biasimato chi minaccia lo stile di vita magiaro come “i politici
di Berlino, Parigi e Bruxelles“. “L’Europa è sotto invasione e chi non
la ferma andrà in rovina”, ha rincarato il premier di recente.
Nel
2015 il governo ha voluto una barriera di filo spinato di quasi 180
chilometri sul confine serbo per fermare il flusso dalla rotta
balcanica. Contro le quote di ripartizione dei migranti volute dall’Ue,
Orbán ha perfino indetto un referendum nell’ottobre 2016: quorum del 50%
mancato, ma il 98% dei votanti gli ha dato ragione. “L’immigrazione non
è un fatto positivo e non rientra nel novero dei diritti umani”,
chiarisce se mai ce ne fosse bisogno il portavoce del premier Zoltán
Kovács
“L’Ungheria non è in senso stretto una dittatura, ma
neppure più una democrazia liberale”, ha scritto il politologo
britannico Timothy Garton Ash. “È un regime ibrido, in parte
autoritario, che pone domande fondali sulla natura dell’Unione europea”.
La quale è consapevole della popolarità degli autocrati che coltiva in
seno. Ma mentre contro la Polonia, Bruxelles ha mostrato il pugno duro,
l’atteggiamento verso il leader ungherese è molto più morbido. Sarà che
Fidesz fa parte della grande famiglia del Partito popolare europeo di
Angela Merkel, osservano in molti. Così, tra realpolitik e cinismo, l’Ue
vuole illudersi che Orbán – uno e bino, liberale da giovane, teorico
della “democrazia illiberale” ora – sia in fin dei conti meno brutto di
quanto appare.