La Stampa 5.4.18
Quel rischio di democrazia illiberale
di Gian Enrico Rusconi
Nella
incertezza generale sta cambiando la natura della nostra democrazia? Da
tempo gli studiosi parlano di post-democrazia, democrazia populista,
democrazia illiberale - con riferimento ad altre esperienze. Ci stiamo
avvicinando anche noi?
Ci sono due dati di fatto, che sembrano
essere accettati come ovvi, quale espressione della vera democrazia.
Invece segnalano il virtuale abbandono della democrazia rappresentativa
quale è stata disegnata dalla nostra Costituzione, evocata spesso a
sproposito.
Il primo dato di fatto è la pretesa del partito (o
della alleanza di partiti), che ha ottenuto il miglior risultato
elettorale relativo, di essere automaticamente legittimato a governare
con l’imposizione del suo programma, oltre che del proprio leader.
Altrimenti si grida al tradimento del voto degli elettori. Il «popolo
sovrano» della Costituzione è diventato così la somma degli elettori
della formazione elettorale vincente.
Questa pretesa è il
sottoprodotto improprio della convinzione che il raggiungimento del 50%
più un voto, legittimi automaticamente l’investitura a governare,
secondo le proprie direttive senza riguardi per nessun altro. Questa
pretesa è fatta valere anche quando tale percentuale non è stata
raggiunta.
Ma il partito (o la coalizione) meglio piazzato esige
alleanze vincolanti con l’esclusione di ogni altra alternativa che viene
degradata a «inciucio», «compromesso al ribasso», ecc. In questo modo
il Parlamento è ridotto alla conta di posizioni prefabbricate. Non è la
sede deputata allo scambio di ragioni e argomenti in nome del «bene
comune». Non esprime neppure il popolo che è «sovrano» anche nelle sue
differenze interne. Prevale una mentalità che nega l’essenza stessa
della democrazia rappresentativa, quale finora è stata la nostra
democrazia, pur con tutti i suoi difetti.
Stiamo assistendo ad un
ricambio di classe politica che stenta a capire e ad attenersi alle
regole della democrazia rappresentativa. Anzi, dà l’impressione di non
avere un’idea solida di democrazia. Ne ha piuttosto una concezione
puramente strumentale. Gli stessi partiti, da portatori di grandi
visioni ideali/ ideologiche diventano strumenti per ottenere risultati
immediatamente tangibili. In altri tempi e contesti si sarebbe parlato
di «voto di scambio»; oggi la precarietà del tutto lo riduce a «voto di
scommessa».
In questa situazione inaspettatamente il Presidente
della Repubblica si trova davanti ad una responsabilità decisionale che
non ha precedenti. La qualità della incertezza odierna infatti non
consente analogie con il passato recente o meno recente. Le due forze
politiche «nuove» (Cinque Stelle e Lega) coltivano una problematica idea
di democrazia. In compenso dispongono di un enorme potenziale di
condizionamento negativo. L’una e/o l’altra infatti sono in grado di
paralizzare tutto. Il ritorno a nuove elezioni è usato come ricatto.
Di
fronte a tutto ciò sono degne di nota la deferenza e le attese positive
che tutti i politici mostrano nei riguardi del ruolo e della persona
del Presidente della Repubblica. E’ difficile dire se si tratta di
sentimenti autentici o di prudenza (ancora una volta) strumentale. Da
parte loro, gli ambienti vicini al Quirinale hanno significativamente
insistito sulla volontà di Sergio Mattarella di non farsi coinvolgere in
ipotesi di «governo del Presidente». Non è un dettaglio secondario, se
teniamo presenti le constatazioni che fanno gli studiosi dell’evoluzione
dei sistemi politici verso forme «post-democratiche» caratterizzate,
appunto, da varianti presidenzialiste. Ma Sergio Mattarella appare
deciso a mantenere la barra ferma nella linea della nostra Costituzione.