il manifesto 5.4.18
Rossana Rossanda: «Non dobbiamo semplificare il nuovo caso italiano»
L'intervista.
«Il dramma del risultato elettorale di marzo non è tanto nella
separazione non nuova tra nord e sud. La cosa più grave è che l’Italia
non è mai stata così totalmente a destra»
Dove ci sono sfruttamento e
sofferenza dovrebbe esserci «rivolta» oppure costruzione di
un’alternativa. Non ne vedo tracce consistenti in Italia
La caduta del Muro di Berlino più che un comunismo inesistente in Europa occidentale, ha aggredito una interpretazione di Keynes
Quanto
a LeU e Potere al Popolo, mi sembra assai ingeneroso valutarne il
risultato dopo una breve campagna elettorale e sotto il diluvio di
populismi o estrema destra della Lega: per iniziare una ricostruzione,
occorrerebbe un atteggiamento molto più seriamente analitico e unitario
intervista di Tommaso Di Francesco
«A
dir la verità, gli interrogativi e le domande che proponi meriterebbero
un libro. Del resto la mia idea del manifesto era già negli anni ‘80
del secolo scorso che dovesse essere un laboratorio nel quale
coinvolgere alcune persone appunto attorno ai temi principali».
Così inizia la nostra intervista a Rossana Rossanda.
Il
risultato elettorale vede l’affermazione di due forze politiche
«antisistema», il M5 Stelle «populista giustizialista» a Sud e nella
coalizione di destra, la Lega, populista-razzista a Nord. Che rischio
vedi?
Non credo che il maggior disastro sia la separazione fra
l’Italia del nord e quella del sud, per altro non nuova. La cosa più
grave è che l’Italia non è mai stata cosi totalmente a destra come dopo
questa elezione.
In particolare, c’è stata una vera e propria distruzione di una delle sinistre europee più importanti.
Nel
1989, Achille Occhetto ha praticamente accettato la proposta di Craxi
sulla totale colpevolizzazione del partito comunista italiano, la cui
identità si poteva invece seriamente difendere, anche grazie a una
specificità che non si è mai smentita, e che rendeva difficile il suo
rapporto con gli altri partiti comunisti, come quello francese.
Non
giova certo adesso l’insistenza sul tema «non rimane che un mucchio di
macerie», sul quale anche il manifesto è stato assai indulgente.
È
mancata una lettura della «società rancorosa», come diceva l’ultimo
rapporto Censis? E’ la conseguenza di una visione dell’Europa subalterna
alla logica monetaria e con il vincolo di bilancio finito in
Costituzione?
Mantengo la tesi che proprio gli stessi dirigenti
del partito comunista hanno mandato alle ortiche la tematica teorica e
politica, sulla base della quale si sarebbe potuto fare, e si potrebbe
ancora fare, una analisi effettiva dei processi che hanno investito
l’Italia da ormai quasi un secolo.
Il risentimento espresso dal voto, come osserva già il Censis, si basa in parte anche su questa incapacità di analisi.
Come
pensi si possa rimettere al centro la lotta per e sul lavoro, di fronte
a una così diffusa frantumazione del lavoro stesso (figure
professionali difformi, geograficamente sparpagliate ma anche
culturalmente e produttivamente isolate); con l’estensione del
precariato ad ogni livello? Il proletariato così come l’abbiamo
conosciuto non esiste più, eppure la sua diffusione nel mondo non è mai
stata così grande. Come leggere questa disparità tra espansione numerica
e azzeramento nella consapevolezza politica?
Non penso che una
lotta per difesa del lavoro sia messa in difficoltà da una sua
particolare frantumazione. Questa esiste, ma è poco più che fisiologica:
si potrebbe ripartire, se ne se avesse la voglia, dalla crisi del
fordismo e dalla analisi gramsciana della sua natura e fine.
Ci
sono anche le analisi più recenti di Luciano Gallino, che sarebbero di
grande utilità (e spiegherebbero anche alcuni ragioni di fondo dei
flussi elettorali).
Insomma, la vecchia esclamazione di Brecht:
«Compagni, ricordiamoci dei rapporti di produzione» si potrebbe e si
dovrebbe realizzare ancora oggi. Ma dovremmo fare i conti con la
liquidazione del marxismo avvenuta nell’ultimo mezzo secolo, e alla
quale neanche il manifesto si è realmente opposto.
Luigi Pintor
già all’inizio del 2003 scriveva che «la sinistra che abbiamo conosciuto
non esiste più». Che cosa rimane di quello che ci ostiniamo a chiamare
sinistra? Il riformismo antioperaio di Matteo Renzi (v. Jobs act) è
davvero finito con il disastro del Pd? O il neoliberismo vive in altre
dimensioni? Quanto quelle macerie impediscono la ricostruzione
necessaria?
Le parole di Pintor valgono purtroppo ancor oggi: fra
l’altro non credo che si possa definire riformismo anti operaio quello
di Matteo Renzi, ammesso che la definizione abbia un senso.
Renzi
ha semplicemente obbedito alla maggioranza liberista che ha investito
l’Europa e ha trovato nella classe dirigente italiana soltanto degli
accordi: basta pensare alle scelte di Marchionne sulla Fiat.
Perché
in Italia non c’è una sinistra legata ai nuovi movimenti
anticapitalistici, che abbia forza anche numerica e capacità di
convinzione – fatte le debite differenze tra queste formazioni – come
Podemos, Linke, Syriza?
Non mi pare che la nostra situazione sia
analoga a quella che ha dato luogo a Podemos, alla ormai vecchia Linke e
a Syriza. Una traccia interessante sarebbe un aggiornamento molto
preciso della situazione economica italiana alla tematica proposta
dall’Unione Europea.
I vincoli dell’Unione europea «reale» hanno
ridotto i poteri e i processi democratici, di fatto cancellando spazi
fondanti di democrazia e obiettivi di trasformazione sociale. L’Unione
europea ridotta a sola moneta unica è ancora il campo per una democrazia
avanzata e progressiva?
Credo che bisognerebbe riflettere sul
fatto che più che aggredire un comunismo che in Europa occidentale non
c’è mai stato, quel che è stato aggredito dopo la caduta del muro di
Berlino è stata una certa interpretazione keynesiana che ha
caratterizzato le costituzioni europee post-belliche.
Ne ho scritto qualcosa l’anno in cui ho lasciato il giornale. Credo proprio nel mese di settembre.
Trump
è arrivato alla guida degli Stati uniti perché premiato dalla promessa
populista del protezionismo. Ma «l’unica potenza rimasta» non lo è più,
né economicamente né politicamente e rischia di assumere il primato di
una ideologia di scontro, isolazionista e razzista. Che resta delle
ragioni democratiche dall’Occidente neoliberista?
Per quanto
riguarda la vittoria di Trump e la sua localizzazione, un buon libro mi
sembra Populismo 2.0 di Marco Revelli. Il problema è pero che anche in
Europa spunti populisti nascono dappertutto e non hanno la stessa
origine. In modo particolare sono nati nell’Europa dell’Est, Cechia,
Ungheria e Polonia, dove sembrano configurarsi come «sistemi».
Sarebbe interessante che il manifesto osservasse quali sono i loro temi principali, diversi da quelli degli Stati Uniti.
È
possibile, con contenuti innovativi e per una possibile ricostruzione –
a partire dall’analisi del 1989 – , insieme attivare movimenti intorno a
nuovi temi di classe internazionali?
Sarebbe indispensabile un
lungo lavoro comune, anche a livello internazionale, sulla evoluzione
economica dell’Europa: per quanto riguarda Trump, non abbiamo granché da
dire, e soprattutto mancano rapporti comuni con le posizioni del
Partito democratico americano, molto diverso dalle posizioni europee.
In
Italia si discute di un soggetto politico, dopo lo smacco elettorale e
lo scarso risultato delle liste a sinistra, LeU e Potere al popolo.
Anche alla luce della deriva dell’89, della fine Pci, della riduzione
della politica a tecnicismi – per i quali l’affermazione del centrista
Macron in Francia rappresenta forse l’ultimo significativo e vincente
episodio – fino al protagonismo rottamatorio dell’era renziana anch’essa
rottamata. Cosa pensi della discussione in corso?
La discussione
mi pare inadeguata. Bisognerebbe iniziare dal fatto che il risultato
elettorale non è stato inaspettato, bensì una logica conseguenza delle
posizioni liquidazioniste del Partito Democratico e delle conseguenze
della totale sparizione dei partiti socialisti.
L’affermazione di
Macron in Francia è un semplice adeguamento alla scelta maggioritaria
dell’Unione europea, e in particolare delle Cdu tedesca.
Dove stanno sfruttamento e sofferenza, dovrebbe esserci «rivolta» o almeno costruzione di una’alternativa.
Non
ne vedo tracce consistenti in Italia: le posizioni più interessanti
sono quelle di una parte del sindacato (la Fiom), ma il compito di un
partito è diverso e politicamente molto più radicale.
Quanto alle
liste come LeU e Potere al Popolo, mi sembra assai ingeneroso valutarne
il risultato, dopo una breve campagna elettorale e sotto il diluvio dei
populismi o l’estrema destra della Lega: per iniziare una ricostruzione,
occorrerebbe un atteggiamento molto più seriamente analitico e
unitario.
E probabilmente questo esigerebbe anche un esame che non si è fatto sull’andamento dei cosiddetti «socialismi reali».
Si
tratterebbe di fare quello che Stalin ha impedito, e cioè un bilancio
serio del leninismo alla fine della vita di Lenin, nei tentativi teorici
del conciliarismo, che in Italia hanno avuto un seguito soltanto dopo
il 1972.
Insomma, non è possibile risparmiarsi un lavoro molto ravvicinato, che in italia non è stato fatto nell’ultimo mezzo secolo.
In
questo lavoro sarebbe da esaminare anche al di fuori di certe facilità
«la linea togliattiana». Ricordo che con qualche esortazione ad andare
in questa direzione non ho avuto fortuna neanche nel nostro giornale.