il manifesto 5.4.18
Rossana Rossanda: «Non dobbiamo semplificare il nuovo caso italiano»
L'intervista. «Il dramma del risultato elettorale di marzo non è tanto nella separazione non nuova tra nord e sud. La cosa più grave è che l’Italia non è mai stata così totalmente a destra»
Dove ci sono sfruttamento e sofferenza dovrebbe esserci «rivolta» oppure costruzione di un’alternativa. Non ne vedo tracce consistenti in Italia
La caduta del Muro di Berlino più che un comunismo inesistente in Europa occidentale, ha aggredito una interpretazione di Keynes
Quanto a LeU e Potere al Popolo, mi sembra assai ingeneroso valutarne il risultato dopo una breve campagna elettorale e sotto il diluvio di populismi o estrema destra della Lega: per iniziare una ricostruzione, occorrerebbe un atteggiamento molto più seriamente analitico e unitario
intervista di Tommaso Di Francesco
«A dir la verità, gli interrogativi e le domande che proponi meriterebbero un libro. Del resto la mia idea del manifesto era già negli anni ‘80 del secolo scorso che dovesse essere un laboratorio nel quale coinvolgere alcune persone appunto attorno ai temi principali».
Così inizia la nostra intervista a Rossana Rossanda.
Il risultato elettorale vede l’affermazione di due forze politiche «antisistema», il M5 Stelle «populista giustizialista» a Sud e nella coalizione di destra, la Lega, populista-razzista a Nord. Che rischio vedi?
Non credo che il maggior disastro sia la separazione fra l’Italia del nord e quella del sud, per altro non nuova. La cosa più grave è che l’Italia non è mai stata cosi totalmente a destra come dopo questa elezione.
In particolare, c’è stata una vera e propria distruzione di una delle sinistre europee più importanti.
Nel 1989, Achille Occhetto ha praticamente accettato la proposta di Craxi sulla totale colpevolizzazione del partito comunista italiano, la cui identità si poteva invece seriamente difendere, anche grazie a una specificità che non si è mai smentita, e che rendeva difficile il suo rapporto con gli altri partiti comunisti, come quello francese.
Non giova certo adesso l’insistenza sul tema «non rimane che un mucchio di macerie», sul quale anche il manifesto è stato assai indulgente.
È mancata una lettura della «società rancorosa», come diceva l’ultimo rapporto Censis? E’ la conseguenza di una visione dell’Europa subalterna alla logica monetaria e con il vincolo di bilancio finito in Costituzione?
Mantengo la tesi che proprio gli stessi dirigenti del partito comunista hanno mandato alle ortiche la tematica teorica e politica, sulla base della quale si sarebbe potuto fare, e si potrebbe ancora fare, una analisi effettiva dei processi che hanno investito l’Italia da ormai quasi un secolo.
Il risentimento espresso dal voto, come osserva già il Censis, si basa in parte anche su questa incapacità di analisi.
Come pensi si possa rimettere al centro la lotta per e sul lavoro, di fronte a una così diffusa frantumazione del lavoro stesso (figure professionali difformi, geograficamente sparpagliate ma anche culturalmente e produttivamente isolate); con l’estensione del precariato ad ogni livello? Il proletariato così come l’abbiamo conosciuto non esiste più, eppure la sua diffusione nel mondo non è mai stata così grande. Come leggere questa disparità tra espansione numerica e azzeramento nella consapevolezza politica?
Non penso che una lotta per difesa del lavoro sia messa in difficoltà da una sua particolare frantumazione. Questa esiste, ma è poco più che fisiologica: si potrebbe ripartire, se ne se avesse la voglia, dalla crisi del fordismo e dalla analisi gramsciana della sua natura e fine.
Ci sono anche le analisi più recenti di Luciano Gallino, che sarebbero di grande utilità (e spiegherebbero anche alcuni ragioni di fondo dei flussi elettorali).
Insomma, la vecchia esclamazione di Brecht: «Compagni, ricordiamoci dei rapporti di produzione» si potrebbe e si dovrebbe realizzare ancora oggi. Ma dovremmo fare i conti con la liquidazione del marxismo avvenuta nell’ultimo mezzo secolo, e alla quale neanche il manifesto si è realmente opposto.
Luigi Pintor già all’inizio del 2003 scriveva che «la sinistra che abbiamo conosciuto non esiste più». Che cosa rimane di quello che ci ostiniamo a chiamare sinistra? Il riformismo antioperaio di Matteo Renzi (v. Jobs act) è davvero finito con il disastro del Pd? O il neoliberismo vive in altre dimensioni? Quanto quelle macerie impediscono la ricostruzione necessaria?
Le parole di Pintor valgono purtroppo ancor oggi: fra l’altro non credo che si possa definire riformismo anti operaio quello di Matteo Renzi, ammesso che la definizione abbia un senso.
Renzi ha semplicemente obbedito alla maggioranza liberista che ha investito l’Europa e ha trovato nella classe dirigente italiana soltanto degli accordi: basta pensare alle scelte di Marchionne sulla Fiat.
Perché in Italia non c’è una sinistra legata ai nuovi movimenti anticapitalistici, che abbia forza anche numerica e capacità di convinzione – fatte le debite differenze tra queste formazioni – come Podemos, Linke, Syriza?
Non mi pare che la nostra situazione sia analoga a quella che ha dato luogo a Podemos, alla ormai vecchia Linke e a Syriza. Una traccia interessante sarebbe un aggiornamento molto preciso della situazione economica italiana alla tematica proposta dall’Unione Europea.
I vincoli dell’Unione europea «reale» hanno ridotto i poteri e i processi democratici, di fatto cancellando spazi fondanti di democrazia e obiettivi di trasformazione sociale. L’Unione europea ridotta a sola moneta unica è ancora il campo per una democrazia avanzata e progressiva?
Credo che bisognerebbe riflettere sul fatto che più che aggredire un comunismo che in Europa occidentale non c’è mai stato, quel che è stato aggredito dopo la caduta del muro di Berlino è stata una certa interpretazione keynesiana che ha caratterizzato le costituzioni europee post-belliche.
Ne ho scritto qualcosa l’anno in cui ho lasciato il giornale. Credo proprio nel mese di settembre.
Trump è arrivato alla guida degli Stati uniti perché premiato dalla promessa populista del protezionismo. Ma «l’unica potenza rimasta» non lo è più, né economicamente né politicamente e rischia di assumere il primato di una ideologia di scontro, isolazionista e razzista. Che resta delle ragioni democratiche dall’Occidente neoliberista?
Per quanto riguarda la vittoria di Trump e la sua localizzazione, un buon libro mi sembra Populismo 2.0 di Marco Revelli. Il problema è pero che anche in Europa spunti populisti nascono dappertutto e non hanno la stessa origine. In modo particolare sono nati nell’Europa dell’Est, Cechia, Ungheria e Polonia, dove sembrano configurarsi come «sistemi».
Sarebbe interessante che il manifesto osservasse quali sono i loro temi principali, diversi da quelli degli Stati Uniti.
È possibile, con contenuti innovativi e per una possibile ricostruzione – a partire dall’analisi del 1989 – , insieme attivare movimenti intorno a nuovi temi di classe internazionali?
Sarebbe indispensabile un lungo lavoro comune, anche a livello internazionale, sulla evoluzione economica dell’Europa: per quanto riguarda Trump, non abbiamo granché da dire, e soprattutto mancano rapporti comuni con le posizioni del Partito democratico americano, molto diverso dalle posizioni europee.
In Italia si discute di un soggetto politico, dopo lo smacco elettorale e lo scarso risultato delle liste a sinistra, LeU e Potere al popolo. Anche alla luce della deriva dell’89, della fine Pci, della riduzione della politica a tecnicismi – per i quali l’affermazione del centrista Macron in Francia rappresenta forse l’ultimo significativo e vincente episodio – fino al protagonismo rottamatorio dell’era renziana anch’essa rottamata. Cosa pensi della discussione in corso?
La discussione mi pare inadeguata. Bisognerebbe iniziare dal fatto che il risultato elettorale non è stato inaspettato, bensì una logica conseguenza delle posizioni liquidazioniste del Partito Democratico e delle conseguenze della totale sparizione dei partiti socialisti.
L’affermazione di Macron in Francia è un semplice adeguamento alla scelta maggioritaria dell’Unione europea, e in particolare delle Cdu tedesca.
Dove stanno sfruttamento e sofferenza, dovrebbe esserci «rivolta» o almeno costruzione di una’alternativa.
Non ne vedo tracce consistenti in Italia: le posizioni più interessanti sono quelle di una parte del sindacato (la Fiom), ma il compito di un partito è diverso e politicamente molto più radicale.
Quanto alle liste come LeU e Potere al Popolo, mi sembra assai ingeneroso valutarne il risultato, dopo una breve campagna elettorale e sotto il diluvio dei populismi o l’estrema destra della Lega: per iniziare una ricostruzione, occorrerebbe un atteggiamento molto più seriamente analitico e unitario.
E probabilmente questo esigerebbe anche un esame che non si è fatto sull’andamento dei cosiddetti «socialismi reali».
Si tratterebbe di fare quello che Stalin ha impedito, e cioè un bilancio serio del leninismo alla fine della vita di Lenin, nei tentativi teorici del conciliarismo, che in Italia hanno avuto un seguito soltanto dopo il 1972.
Insomma, non è possibile risparmiarsi un lavoro molto ravvicinato, che in italia non è stato fatto nell’ultimo mezzo secolo.
In questo lavoro sarebbe da esaminare anche al di fuori di certe facilità «la linea togliattiana». Ricordo che con qualche esortazione ad andare in questa direzione non ho avuto fortuna neanche nel nostro giornale.
La Stampa 5.4.18
Quel rischio di democrazia illiberale
di Gian Enrico Rusconi
Nella incertezza generale sta cambiando la natura della nostra democrazia? Da tempo gli studiosi parlano di post-democrazia, democrazia populista, democrazia illiberale - con riferimento ad altre esperienze. Ci stiamo avvicinando anche noi?
Ci sono due dati di fatto, che sembrano essere accettati come ovvi, quale espressione della vera democrazia. Invece segnalano il virtuale abbandono della democrazia rappresentativa quale è stata disegnata dalla nostra Costituzione, evocata spesso a sproposito.
Il primo dato di fatto è la pretesa del partito (o della alleanza di partiti), che ha ottenuto il miglior risultato elettorale relativo, di essere automaticamente legittimato a governare con l’imposizione del suo programma, oltre che del proprio leader. Altrimenti si grida al tradimento del voto degli elettori. Il «popolo sovrano» della Costituzione è diventato così la somma degli elettori della formazione elettorale vincente.
Questa pretesa è il sottoprodotto improprio della convinzione che il raggiungimento del 50% più un voto, legittimi automaticamente l’investitura a governare, secondo le proprie direttive senza riguardi per nessun altro. Questa pretesa è fatta valere anche quando tale percentuale non è stata raggiunta.
Ma il partito (o la coalizione) meglio piazzato esige alleanze vincolanti con l’esclusione di ogni altra alternativa che viene degradata a «inciucio», «compromesso al ribasso», ecc. In questo modo il Parlamento è ridotto alla conta di posizioni prefabbricate. Non è la sede deputata allo scambio di ragioni e argomenti in nome del «bene comune». Non esprime neppure il popolo che è «sovrano» anche nelle sue differenze interne. Prevale una mentalità che nega l’essenza stessa della democrazia rappresentativa, quale finora è stata la nostra democrazia, pur con tutti i suoi difetti.
Stiamo assistendo ad un ricambio di classe politica che stenta a capire e ad attenersi alle regole della democrazia rappresentativa. Anzi, dà l’impressione di non avere un’idea solida di democrazia. Ne ha piuttosto una concezione puramente strumentale. Gli stessi partiti, da portatori di grandi visioni ideali/ ideologiche diventano strumenti per ottenere risultati immediatamente tangibili. In altri tempi e contesti si sarebbe parlato di «voto di scambio»; oggi la precarietà del tutto lo riduce a «voto di scommessa».
In questa situazione inaspettatamente il Presidente della Repubblica si trova davanti ad una responsabilità decisionale che non ha precedenti. La qualità della incertezza odierna infatti non consente analogie con il passato recente o meno recente. Le due forze politiche «nuove» (Cinque Stelle e Lega) coltivano una problematica idea di democrazia. In compenso dispongono di un enorme potenziale di condizionamento negativo. L’una e/o l’altra infatti sono in grado di paralizzare tutto. Il ritorno a nuove elezioni è usato come ricatto.
Di fronte a tutto ciò sono degne di nota la deferenza e le attese positive che tutti i politici mostrano nei riguardi del ruolo e della persona del Presidente della Repubblica. E’ difficile dire se si tratta di sentimenti autentici o di prudenza (ancora una volta) strumentale. Da parte loro, gli ambienti vicini al Quirinale hanno significativamente insistito sulla volontà di Sergio Mattarella di non farsi coinvolgere in ipotesi di «governo del Presidente». Non è un dettaglio secondario, se teniamo presenti le constatazioni che fanno gli studiosi dell’evoluzione dei sistemi politici verso forme «post-democratiche» caratterizzate, appunto, da varianti presidenzialiste. Ma Sergio Mattarella appare deciso a mantenere la barra ferma nella linea della nostra Costituzione.
La Stampa 5.4.18
Un algoritmo per i valori dell’Occidente
di Christian Rocca
In Divertirsi da morire, un saggio sulla televisione scritto nel 1985, quando Internet era ancora roba per scienziati, il critico americano Neil Postman diceva che dei due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 e Il Mondo Nuovo, il più realistico non era quello di George Orwell, come si credeva, ma quello scritto da Aldous Huxley. Per ricapitolare la tesi analogica di Postman sulla società occidentale, e aggiornarla al nostro tempo digitale, un recente articolo del Guardian ricordava che Orwell, con 1984, immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure.
In particolare quella di essere sorvegliati e di essere controllati psicologicamente dal famigerato Grande Fratello, mentre Huxley, con Il Mondo Nuovo, spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata dalle cose che ci piacciono e ci divertono perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. Huxley ci aveva preso più di Orwell, insomma, ma quello era ancora, soltanto, il tempo della televisione. Poi è arrivato Internet, notava il Guardian, una tecnologia che in un colpo solo ci ha regalato entrambi gli incubi immaginati dai due romanzieri inglesi, sia la sorveglianza da parte di Stati e corporation, come temeva Orwell, sia la dipendenza passiva da app e strumenti tecnologici simile agli effetti sedativi e gratificanti della droga «soma» che, secondo Huxley, possedeva tutti i vantaggi della cristianità e dell’alcol, senza averne nessuno dei difetti.
Siamo davvero arrivati al punto in cui Internet è diventato lo strumento di demolizione della nostra civiltà? L’egemonia del web ha seriamente compromesso il futuro della società liberale? Gli argomenti catastrofisti sono sotto gli occhi di tutti e non bisogna essere luddisti o reazionari per accorgersi che l’ideologia dell’algoritmo, l’abuso e la manipolazione dei dati personali e le tecniche di persuasione digitali stiano modificando comportamenti, abitudini e tessuto sociale del mondo occidentale. La lista delle recriminazioni è lunga: il disordine creato da Wikileaks negli apparati diplomatici e di sicurezza, la diffusione delle fake news, l’ininfluenza dei dati di fatto nel dibattito pubblico, l’automazione che riduce i posti di lavoro, le ideologie politiche sostituite da algoritmi che pescano i sentiment sulla Rete. E, ancora, l’interferenza cibernetica di Mosca nei processi democratici dell’Occidente, il caso dei 50 milioni di profili Facebook finiti a insaputa degli utenti nei server di Cambridge Analytica e poi utilizzati per indirizzare il voto negli Stati Uniti e altrove, forse anche in Italia.
Tutto vero, e molto pericoloso. Ma non si può negare che la Rete sia una delle più strabilianti innovazioni di sempre. Il culto del web è il prodotto dell’etica libertaria degli Anni Sessanta e dello spirito del capitalismo delle origini; è l’antidoto al mondo scongiurato da Orwell e Huxley; è lo strumento congegnato per sconfiggere il totalitarismo e poi sviluppatosi intorno all’idea che la libera circolazione delle informazioni fosse di per sé un fattore di progresso, di conoscenza e di partecipazione alla vita pubblica. Il problema è che ci accorgiamo soltanto adesso che con l’informazione circola anche la disinformazione e che l’accesso istantaneo a questa massa non filtrata di dati attenua la capacità dell’individuo di selezionare, di valutare, di discernere. Paradossalmente oggi siamo più ignoranti di prima, le società dispotiche sono più solide, quelle aperte più manipolabili e l’indebolimento dei corpi intermedi ha plasmato un sistema modernissimo, ma impaurito e senza punti di riferimento.
Questa è la questione decisiva della nostra epoca e il guaio è che non si vede ancora una classe dirigente in grado di codificare le nuove consuetudini digitali, di rimettere in carreggiata il futuro e di riconciliare il progresso tecnologico con il rispetto dello Stato di diritto. Di sicuro c’è che non si può tornare indietro, perché la formula «innovazione più globalizzazione» ha creato opportunità, distribuito benessere e liberato miliardi di persone dalla povertà. Questa formula, oggi sotto accusa, è l’algoritmo dell’Occidente: avete presente le alternative?
La Stampa 4.4.18
Jacopo Fo a Di Maio:
“Un passo indietro di Luigi poi un accordo con il Pd. Così il M5S si può salvare”
Contro natura andare con Salvini
di Andrea Carugati
«Rivolgersi per primo al Pd per fare un governo? Sarebbe una mossa intelligente da parte del M5S. Ci sono alcuni milioni di elettori di sinistra come me che hanno scelto il Movimento e che non accetterebbero che il loro voto fosse usato per un accordo con la Lega». Jacopo Fo ha ereditato dai genitori Dario Fo e Franca Rame anche la passione politica.
Mai con Salvini?
«Per il M5S sarebbe contro natura. La Lega ora finge di essere nuova, ma ha governato per anni con Berlusconi e contribuito a portare l’Italia al disastro. Cosa hanno fatto per combattere la corruzione e gli sperperi?».
Il Pd è più che refrattario all’abbraccio coi grillini.
«Per loro sarebbe un’occasione di riscatto, per recuperare tante persone che se ne sono andate. La crisi del Pd deriva anche da questi anni di governo con Alfano e Verdini. Quando c’era l’occasione per fare qualcosa di buono, quelli si mettevano di traverso. Ora non servono grandi riforme, come l’abolizione del Senato, ma tanti piccoli interventi di artigianato legislativo. Si mettano al tavolo e facciano un accordo scritto su alcune decine di cose da fare, lasciando perdere i programmi infarciti di slogan».
Crede che sia realistico?
«Vedo anche nel M5S atteggiamenti pericolosi, a tratti infantili. Questo continuo ripetere “abbiamo vinto”, o “Di Maio premier o niente” fa parte di una logica vecchia e muscolare ed è una stupidaggine. Il M5S non ha vinto, e farebbe bene a dire quello che disse Bersani nel 2013: “Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto”».
Di Maio dovrebbe fare un passo indietro?
«Se non hai vinto e vuoi fare un’alleanza è logico che devi fare un passo indietro. Non puoi mettere condizioni se vuoi aprire una vera trattativa. Altrimenti rischi di fare come Renzi, che a forza di dire “asfalto tutti” è passato dal 40% alla sconfitta attuale. In questa fase politica è facile andare su e poi precipitare. Il M5S deve ragionare attentamente, se hai preso tanti voti e poi non concludi niente gli elettori non ti perdonano. E la prossima volta scelgono qualcuno di più concreto».
Pensa che il Pd sia in grado di rimettersi in gioco rapidamente?
«Il Pd ha una straordinaria realtà di amministratori locali che fanno ottime cose, una classe dirigente che finora è stata tenuta in seconda fila».
Cosa potrebbero fare insieme Pd e M5S?
«C’è una lista lunghissima, sul sito peopleforplanet.it qualche idea l’abbiamo messa giù. Se vendi le medicine sfuse in base alla ricetta puoi risparmiare 2 miliardi l’anno, nella sanità puoi ottenere risparmi strepitosi senza togliere nulla ai pazienti. Io lo chiamo “metodo Shanghai”, cominci a spostare le bacchette più facili e mano a mano cambi il sistema».
Corriere 5.4.18
Il surreale dibattito, le baruffe senza fine in casa pd
di Paolo Mieli
Sarà un’esperienza singolare stamattina per il capo dello Stato ascoltare i due più importanti dirigenti del Pd (il «reggente» Maurizio Martina e il capo dei senatori dem Andrea Marcucci) i quali — se saranno fedeli a quel che hanno detto nei giorni scorsi — gli ripeteranno, il primo, di considerare una iattura un eventuale governo M5S-Lega e, il secondo, di «non vedere l’ora» che venga il giorno del giuramento di Luigi Di Maio con Matteo Salvini. Manifestate le proprie diversità d’auspicio sul governo degli altri, la delegazione del Pd, invece di indicare i propri orizzonti, chiederà lumi all’uomo del Quirinale. Dividendosi, nel suo piccolo, tra chi spera di essere coinvolto in qualche combinazione governativa e chi invece di tale prospettiva non vuole neanche sentir parlare. Poi — dopo essere stati, per così dire, consultati — i componenti della delegazione, uscendo, daranno ognuno la propria versione del colloquio con Sergio Mattarella, inclusi i silenzi, i sorrisi, gli sguardi di intesa e le espressioni di disappunto. Sicché il loro partito riprenderà ad accapigliarsi proprio sull’interpretazione di silenzi, sorrisi, sguardi ed espressioni. Il tutto rimbalzerà quasi in tempo reale su Twitter e la sera stessa in qualche dibattito televisivo. Forse — se saremo fortunati — già il pomeriggio.
P iù resistente e puntuale di qualsiasi altra sitcom, da una trentina d’anni va in onda su tutte le reti della nostra tv, a qualsiasi ora del giorno e della notte, «Le baruffe piddine». Il serial fece in tempo, sul finire degli anni Ottanta, a sintonizzarsi con l’ultima stagione del Pci; poi ha mutato parte del nome ogni volta che è cambiata la denominazione del principale partito della sinistra italiana. Ma il copione è sempre rimasto su per giù lo stesso: discussioni ai confini del surreale tra attori (per giunta non pagati) che si accapigliano su cose spesso senza senso. In questi giorni vengono trasmesse puntate sempre più frequenti che conquistano considerevoli picchi di audience sul litigio tra dirigenti del Pd che auspicano un’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle e altri che la contrastano. Protagonista di questi battibecchi, anche quando non è di scena, Matteo Renzi che, dopo aver solennemente annunciato il proprio ritiro (provvisorio, per due anni) torna sul palcoscenico pressoché quotidianamente per guidare i «suoi» deputati e senatori alla resistenza antigrillina. Renzi evidentemente non ha fiducia nella lealtà dei propri seguaci, altrimenti se ne starebbe davvero per qualche mese in disparte. E non conosce il senso preciso della parola «dimissioni» che, una volta pronunciata, richiederebbe una congrua assenza dal proscenio (o almeno questo è il significato che le dà un comune mortale). Ovvio che da senatore l’ex (?) segretario dovrebbe recarsi a Palazzo Madama quando c’è da pronunciarsi con un voto. Ma per il resto dovrebbe sparire, quantomeno starsene in silenzio e smentire, quasi con maniacalità, ogni frase o intenzione che gli viene attribuita. I grandi, ma anche i piccoli, della Prima Repubblica quando si dimettevano rimanevano per un lasso di tempo nell’oscurità e tornavano alla luce solo dopo qualche mese o anno. Amintore Fanfani adottò più volte questa tattica, anzi ne abusò, sicché alla terza o quarta riapparizione, si conquistò il soprannome (affibbiatogli da Indro Montanelli) di «rieccolo». Ma l’ex segretario del Pd a ogni evidenza ha paura del buio, per lui il massimo di allontanamento dalle luci della ribalta politica è di qualche ora. Lasciando (ed evidentemente gradendo) che su di lui circolino leggende da cui è descritto come un indefesso orditore di trame, tuttora regista occulto del partito di cui fu segretario. Contento lui…
Sul versante opposto, quello a lui ostile di Andrea Orlando, Dario Franceschini, l’auspicio — ammesso che così vada inteso — di un’apertura al movimento di Di Maio appare vago, sfuggente, allusivo. Tutto è ammantato da criptici riferimenti all’alto magistero del presidente della Repubblica. Come se il Pd, il secondo partito nel voto degli elettori, avesse come unica prospettiva quella di un coinvolgimento d’emergenza nell’area di governo sotto la guida, appunto, di Sergio Mattarella. Non c’è neppure — eccezion fatta, diamogliene atto, per Michele Emiliano — un pronunciamento chiaro a favore del dialogo con i Cinque Stelle. Forse perché la prospettiva di un governo nato da tale dialogo farebbe a pugni con l’aritmetica (al Senato M5S e Pd — includendo i renziani al gran completo — avrebbero la maggioranza per un solo voto) e perché gli stessi grillini — a meno di non prendere per buona l’ultima offerta di Di Maio — non hanno dato neanche un segnale di apertura in questa direzione. Anzi ne hanno dati più d’uno in direzione opposta.
Dopodiché, come ha osservato Michele Salvati, l’unico effetto di tale invocazione distensiva sarà quello di far credere al proprio elettorato che sia davvero esistita l’opzione di un governo Pd e M5S; sicché quando di governo ne nascerà — se mai nascerà — uno di segno grillin leghista, il popolo della sinistra dovrà caricarsi il peso del senso di colpa per gli attuali dirigenti, «postrenziani» ma non ancora «derenzizzati», che, con i loro dinieghi, ne hanno favorito la nascita.
Ad accrescere il caos, nelle retrovie si sta sviluppando, tra gli artisti d’area, un misterioso fenomeno di crescente apprezzamento per le virtù politiche di Matteo Salvini. Attori molto apprezzati come Antonio Albanese, Claudio Amendola, Margherita Buy — pur non rinnegando la propria appartenenza alla sinistra — hanno ritenuto di uscire allo scoperto con parole di ammirazione nei confronti del leader leghista. A un tempo, però, un loro collega, Ivano Marescotti approdato — nel nome, a suo dire, della tradizione comunista — ai lidi pentastellati, ha annunciato che, se Di Maio si alleerà con Salvini, lui andrà «in piazza con i forconi». Grande è il disordine sotto il cielo. Grande e preoccupante dal momento che il Pd — così come gli altri partiti — nei prossimi due mesi dovrà cimentarsi con prove elettorali in quattro Regioni: Molise (22 aprile), Friuli-Venezia Giulia (29 aprile), Valle d’Aosta (20 maggio), Trentino-Alto Adige (27 maggio). E, se non bastasse, il 10 giugno andranno al voto altri sette milioni di elettori per scegliere ben 767 sindaci. Di questi 21 in capoluoghi di provincia, 17 dei quali attualmente amministrati da giunte di centrosinistra. In più, quello stesso 10 giugno, si voterà in alcuni municipi: a Roma, ad esempio, in due, Montesacro-Salaria e Garbatella-Ardeatina, dove il confronto tra Pd e M5S non dovrebbe essere perso in partenza: nel Lazio — in cui si è votato il 4 marzo scorso in contemporanea con le politiche — ha vinto Nicola Zingaretti e la lista Pd ha ottenuto diecimila voti in più di quella dei Cinque Stelle (260 mila contro 250 mila). Ovvio che converrebbe affrontare una prova del genere mostrandosi compatti e disposti alla battaglia contro gli avversari. Ma i dirigenti del Pd e più in generale dell’intera sinistra ormai sembrano capaci di combattere solo tra di loro.
La sitcom di cui si è detto all’inizio si conclude a ogni puntata con un attore, ogni volta diverso, che si alza all’improvviso ed esorta i dirigenti della sinistra a «tornare tra la gente». In quel momento si scatena regolarmente un uragano di applausi. Qualche ora dopo, al massimo il giorno successivo, si ricomincia con il copione di sempre. C’è solo da augurarsi — per chi ha a cuore i destini della sinistra — che quei piccoli e grandi leader, i quali, in omaggio al suggerimento di cui si è detto, saranno andati a rigenerarsi «tra la gente», quando faranno ritorno, ritrovino quantomeno le mura di casa.
Repubblica 5.4.18
Allarme e dubbi tra gli eletti M5S “Sicuri che non cediamo su Fi?”
I parlamentari in assemblea incalzano Di Maio, che scommette su una scissione tra i forzisti
di Tommaso Ciriaco
Roma Sala dei gruppi di Montecitorio, quarantott’ore fa. Riunione congiunta dei parlamentari grillini, aria di grane nel Movimento. «Luigi - scandisce la senatrice Paola Nugnes, come raccontano alcuni presenti - io vorrei che tu mi rassicurassi su una cosa: noi non faremo mai un accordo con Silvio Berlusconi, vero? E comunque se il modello è quello di un patto di governo come in Germania, che è un buon sistema, vorrei che consultassimo comunque i cittadini e la rete » . Non è l’unica a mettere le cose in chiaro. Contro il Cavaliere e i suoi accoliti si spendono anche alcuni parlamentari veneti, calabresi e campani. « Di Forza Italia non vogliamo neanche sentire parlare » . Spuntano dubbi anche sul Carroccio, soprattutto nella fazione nordista. « Ricordate la loro gestione spregiudicata sul territorio? » . Di Maio replica punto su punto per tre ore. Promette: « Mai con Berlusconi » . Nega rapporti con il “ Caimano”, assai meno col suo partito. « Sulle Presidenze è andata bene » . Ma è chiaro che arranca nel sentiero stretto che ha di fronte: con la mano destra deve tranquillizzare l’ala movimentista dei cinquestelle, con la sinistra convincere Matteo Salvini a conquistare brandelli di una Forza Italia deberlusconizzata. Come? Favorendo una scissione ordinata tra gli azzurri. Gira voce che al Senato, a livello per ora sotterraneo, i colloqui con alcuni berlusconiani “ filo leghisti” siano già a buon punto. Se invece dovesse fallire l’operazione, l’alternativa sarebbe sempre la stessa: elezioni.
Meglio essere chiari: per il delfino della Casaleggio associati lo scenario preferito è governare con Salvini e con quel che resterà di una Forza Italia senza il Cavaliere. Per questo, ha proposto agli emissari azzurri di individuare ministri d’area, esterni al partito. Nulla di fatto. Non resta che la scissione. Che secondo i grillini più complottisti potrebbe addirittura convenire all’ex premier, perché gli permetterebbe di “ inviare” in maggioranza un “ cavallo di Troia”. Utilissimo mentre imperversa la partita che coinvolge Mediaset, Sky e Vivendì. Suggestioni. Certo è che per spaccare il centrodestra occorre convincere la Lega. E tranquillizzare i nemici interni del “patto con il Diavolo”, come dimostra l’assemblea dei parlamentari. Al Colle, intanto, Di Maio ribadirà certamente il veto sul fondatore di FI, ma potrebbe sfumare i toni verso gli azzurri di buona volontà - quelli che si riconoscono in Giovanni Toti, ad esempio - pronti a sostenere i punti del patto alla tedesca ideato dalla Casaleggio associati.
Per Di Maio esiste anche il piano B, che può trasformarsi all’occorrenza in piano A: il voto anticipato. Giura di non temerlo. Per buttare il cuore oltre l’ostacolo del 40%. Per sfruttare quella slide di metà marzo che ieri è tornata a circolare in modalità virale e che recita: « Non vogliono farci governare. Non vogliono accettare le nostre prime quattro mosse: reddito di cittadinanza, abolizione vitalizi e dei senatori a vita, cambio della legge elettorale». Un programma perfetto per conquistare Salvini.
Repubblica 5.4.18
E l’aspirante premier rivaluta i ministri pd
di Alessandra Longo
Insomma, nel Pd non sono «tutti uguali». Luigi Di Maio lo dice a Di martedì e fa anche i nomi di quelli che si salvano e sono oggetto, bontà sua, di «apprezzamenti»: Martina, Minniti, Franceschini. Facevano così i democristiani, strateghi del doppio forno. Michele Anzaldi, non incluso nella lista dei “promossi” si pone una domanda e si risponde: «Come mai Di Maio dice queste cose ora che ha bisogno dei nostri voti per fare il suo governo, mentre per l’intera legislatura i Cinque Stelle hanno sempre votato contro tutti i nostri provvedimenti, ricoprendoci di insulti?». Già, come mai? Forse perché l’aspirante premier insinua Anzaldi - «è pronto a inventare qualsiasi balla pur di arrivare a Palazzo Chigi».
Se Maurizio Martina piace tanto (o un po’) perché il gruppo M5S del Senato ha tentato di sfiduciarlo nel 2016 e nel 2017 il suo operato su «problemi di stalle e allevatori» veniva definito «negativo e ininfluente»? “Giggino” ha cambiato idea? Non pensa più quello che diceva meno di due mesi fa quando definiva il Pd «impresentabile per sua stessa natura, un partito che ha preso soldi da Buzzi e da Mafia capitale per le elezioni?». E Minniti poi. Oggi Di Maio ammicca, ieri, cioè nel giugno del 2017, menava il ministro dell’Interno senza il guanto: «Gioca a fare lo sceriffo di destra nell’ennesimo governo di sinistra nato in provetta, che in Libia ha registrato un flop clamoroso». Altro che gli «apprezzamenti» evocati nello studio di Floris. «Sulla questione libica - ricorda Anzaldi - Di Maio accusava Minniti di aver fatto accordi con le organizzazioni criminali».
All’inizio fu il «Pdmenoelle» di Grillo, l’appello delle Politiche 2018 è stato: «Né con il Pd né con Forza Italia. Votate contro gli inciucisti!». Cosa non si fa, adesso, per le trattative. Persino Danilo Toninelli, capogruppo al Senato, forse vede Marco Minniti con altri occhi. Il passato è passato. Poco importa se gli rivolgeva la parola così nell’aula di Palazzo Madama: «Ministro Minniti, lei sta prendendo in giro gli italiani e calpestando la democrazia». Accusa relativa alla gestione del Viminale nell’organizzazione delle elezioni.
Il Pd: brutta bestia per i Cinque Stelle, «un punto di riferimento del crimine», diceva addirittura Alessandro Di Battista il 5 febbraio 2018. Mica dieci anni fa. Però Di Maio deve tenere aperti i contatti o perlomeno far finta di farlo.
E allora musica di violino anche per Dario Franceschini, lo stesso che un corteo di grillini assatanati, interpreti fedeli della linea, avvistò in un ristorante il 21 aprile del 2013. E giù insulti: «Ah li mortacci tua»; «Che te vada per traverso»; «Traditore»; «Venduto»; «Buffone»; «Vergogna». Lo stesso Dario Franceschini che faceva venire l’orticaria proprio a Di Maio, un anno fa: «Al ministro Franceschini non gliene frega niente della cultura, gli interessa solo far quadrare i bilanci».
Repubblica 5.4.18
Intervista a Vladimiro Zagrebelsky
“L’aiuto al suicidio non può essere reato ma va rispettata la scelta del governo”
Data la delicatezza del tema, più ampio è il contraddittorio, più la decisione della Consulta sarà consapevole
Istigare una persona a porre fine alla propria vita è del tutto diverso dall’agevolare qualcuno già determinato a farlo
di Liana Milella
Il governo ha dato mandato all’Avvocatura dello Stato di “difendere” l’articolo 580 del codice penale, impugnato dalla Corte d’assise di Milano davanti alla Consulta nel processo per il suicidio assistito di dj Fabo e l’accusa di istigazione al suicidio contro il radicale Marco Cappato. In passato su temi etici è accaduto che il governo scegliesse di non costituirsi. Ma per il Guardasigilli Andrea Orlando, in questo caso farlo era necessario per evitare il rischio di “azzoppare” l’articolo 580 anche nella parte in cui punisce un aiuto al suicidio che diventa una sorta di vera e propria spinta a uccidersi
ROMA «Quella norma è incostituzionale, ma più voci davanti alla Corte, compresa quella del governo, potranno rendere la decisione dei giudici più consapevole». È questa l’opinione di Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte di Strasburgo.
Gentiloni dà all’Avvocatura la difesa dell’articolo 580 del codice penale, incostituzionale per i giudici di Milano nel caso Cappato-Dj Fabo laddove punisce anche l’aiuto al suicidio.
Era necessario farlo?
«L’intervento del governo è una facoltà, non un obbligo. Di solito il presidente del Consiglio interviene per sostenere l’infondatezza della questione di costituzionalità o, per una ragione o per l’altra, la sua inammissibilità. In tal modo il governo difende il Parlamento legislatore e discute le conseguenze di un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, che potrebbero richiedere una propria iniziativa legislativa».
Il governo interviene sempre contro?
«Vi è qualche caso in cui il governo è intervenuto sostenendo che la questione era fondata e la norma incostituzionale. In altri il governo non è intervenuto probabilmente perché la fondatezza della questione era evidente, senza conseguenze di sistema».
Sui temi etici però, come la procreazione e le adozioni, si contano casi in cui il governo non ha mosso l’Avvocatura.
«Non conosco le ragioni che hanno indotto il governo a intervenire, ma ciò che importa è il contenuto del suo intervento. In linea generale direi che la delicatezza della questione rende comunque utile che alla Corte siano rappresentate tutte le argomentazioni possibili.
Più ampio è il contraddittorio, più consapevole risulterà la decisione».
Il governo, facendo una scelta politica “di sinistra”, coerente con la legge sul biotestamento, non poteva aspettare le decisioni della Consulta?
«La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento va certo nel senso di valorizzare l’autonomia della persona, anche in ordine alla fine della vita. Ma direttamente non riguarda il caso del suicidio assistito. E insisto nel dire che sarà importante conoscere che cosa sosterrà l’Avvocatura, per conto del governo, davanti alla Corte».
Il ministero della Giustizia ci tiene a precisare che la decisione «non è contro Cappato» e lascia intendere di essere favorevole a un’interpretazione ampia della norma che non consideri reato l’aiuto fornito a Fabo. Proprio la direzione in cui sembra andare la stessa Avvocatura.
«Appunto. Indipendentemente dalle conseguenze che la sentenza della Corte avrà sul processo a Cappato, quanto il ministero fa sapere dimostra che, secondo il governo, una via diversa da quella dell’eccezione di costituzionalità era possibile. Il giudice avrebbe potuto attribuire all’articolo 580 del codice penale un significato restrittivo rispetto alla sua portata letterale, così da limitare fortemente l’ambito dell’amplissima formula “ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. Se questa possibilità esistesse utilizzando gli ordinari strumenti interpretativi per adeguarsi ai principi costituzionali, il giudice sarebbe tenuto a tentarla. Ma mi pare che la Corte di assise di Milano il tentativo l’abbia fatto, arrivando a una conclusione negativa, che io condivido. A mio avviso correttamente quei giudici hanno sollevato la questione di costituzionalità».
Da giurista come la pensa sul 580? Copre il caso Cappato?
«La questione davanti alla Corte riguarda l’articolo 580 del codice penale nella parte in cui punisce chi agevola il suicidio di chi già abbia deciso di por fine alla propria vita, equiparandolo a chi determina altri al suicidio. Due ipotesi del tutto diverse: la prima non incide sulla volontà libera di chi voglia uccidersi, mentre la seconda interviene proprio sull’autonomia della persona, spingendola al suicidio. Questo è un primo motivo di incostituzionalità, per la irragionevolezza del trattare allo stesso modo due situazioni radicalmente diverse. Si può aggiungere che l’ipotesi di punire (con grave pena) l’aiuto al suicidio anche nel caso in cui la persona non è fisicamente in grado di suicidarsi senza l’aiuto altrui crea una diseguaglianza ingiustificata a danno di chi si trova nelle condizioni di maggior debolezza, impossibilitato persino a suicidarsi».
E la Consulta come potrebbe cavarsela?
«Penso che la previsione dell’aiuto al suicidio come delitto sia incostituzionale, per il rispetto che la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti umani assegnano all’autonomia e alla dignità della persona nella gestione della fine della propria vita. È inammissibile punire chi aiuta taluno a compiere legittimamente un atto di libertà. Un problema per la Corte sorgerebbe se ritenesse di definire casi in cui l’aiuto al suicidio fosse lecito (fine vita, sofferenze non affrontabili con terapie), mantenendo la punibilità per i casi diversi. In ogni caso è assurdo assimilare l’aiuto all’istigazione al suicidio».
il manifesto 5.4.18
Facebookgate: Cambridge Analytica ha violato i dati di 87 milioni di persone, non di 50
Capitalismo delle piattaforme. Nuove rivelazioni sul caso che fa tremare il social network. La "violazione" è molto più grande di quanto fino a oggi conosciuto. Lo sostiene Mike Schroepfer, Chief Technology Officer di Facebook in un post dove assicura che si sta cercando un rimedio. Ma il fondatore Zuckerberg ha già riconosciuto la difficoltà dell'impresa. Il Ceo sarà ascoltato l'11 aprile dalla Congresso americano
di Roberto Ciccarelli
“In totale, riteniamo che le informazioni di Facebook condivise in modo improprio con Cambridge Analytica possano avere raggiunto un massimo di 87 milioni di persone – per lo più negli Stati Uniti”.
Lo ha scritto Mike Schroepfer, Chief Technology Officer di Facebook, nell’ultimo paragrafo di un post dove ha anche fornito aggiornamenti sulle modifiche che Facebook sta apportando per proteggere le informazioni degli utenti.
Dunque, non cinquanta milioni, ma 37 milioni in più: 87. Un dato clamoroso che permette di comprendere la vastità, e la gravità, della violazione del sistema della piattaforma organizzata dal team di Cambridge Analytica in vista dell’elezione a presidente degli stati uniti di Donald Trump.
Tutto è iniziato nel 2014 quando Alexander Kogan, ricercatore a Cambridge e a San Pietroburgo, ha creato l’app «This is your digital life» con la quale ha reclutato 270 mila utenti secondo le modalità note su mercati digitali come «Amazon Mechanical Turk». In cambio di 3/4 dollari (e 800 mila dollari di budget) queste persone hanno risposto a un quiz sulla personalità. Fondi messi a disposizione da un’azienda per cui Kogan ha lavorato: la Strategic Communication Laboratories. Cambridge Analytica, diretta fino a qualche giorno fa Alexander Nix poi dimissionato, è una sua costola. L’azione contestata è questa: Dai dati prodotti dalla forza lavoro di 270 mila persone si è risaliti ai loro «amici» su Facebook. E si è realizzato il «raccolto» di 50 milioni di profili, sostiene il «whistleblower» Christopher Wylie che, in realtà, in un’intervista al Guardian aveva già parlato di “60 milioni” di profili violati.
Ora, sono 87. E non è escluso che siano molti di più. Questo «raccolto» è stato usato per profilare e raggiungere qualcuno di quei 40 mila votanti nei tre stati americani che hanno permesso a Trump di vincere le elezioni nel 2016. È la tesi di Mark Turnbull, direttore del ramo politico della Cambridge Analytica.
Non è solo una questione di numeri. Il fondatore della piattaforma Mark Zuckerberg ha confessato in un’intervista al Wall Street Journal: “I dati degli utenti Facebook non possono essere totalmente al sicuro”. Facebook analizzerà decine di migliaia di app che hanno collezionato i dati, lo sforzo potrebbe costare «molti milioni di dollari», ha detto Zuckerberg. «Come ogni misura precauzionale sulla sicurezza, questa non è una soluzione antiproiettile. Non è che ogni processo di per sé porta sempre a scoprire ogni singola cosa» ma fungerà da deterrente per fermare gli sviluppatori dal «fare cose cattive» e a capire quali dati sono stati abusati. «Il punto di quello che stiamo cercando di fare è rendere molto più difficile per chiunque abusare dei dati».
Una richiesta difficile perché una piattaforma pubblicitaria come facebook è fondata sullo scambio dei dati.
L’11 aprile Zuckerberg sarà ascoltato dalla commissione per il commercio e l’energia della Camera degli Stati Uniti. I parlamentari Greg Walden e Frank Pallone, rispettivamente presidente e membro della commissione, hanno affermato che l’udienza “sara’ un’occasione importante per far luce sulle critiche questioni sulla privacy dei dati dei consumatori e aiutare tutti gli americani a capire meglio cosa succede alle loro informazioni personali online”.
Facebook sta lavorando per estendere solo lo “spirito” del nuovo regolamento generale europeo sulla protezione dei dati, noto come Gdpr, anche ai suoi utenti di altre parti del mondo. Tuttavia, le indicazioni europee non diverranno lo standard per il resto del globo, ha dichiarato Mark Zuckerberg ieri alla Reuters. Questo significa che gli utenti extraeuropei, a partire dagli americani, godranno di diritti e salvaguardie ridotte da parte della piattaforma. Il nuovo regolamento europeo sulla privacy – che stabilisce una serie di importanti protezioni per gli utenti – sarà applicato a partire dal prossimo 25 maggio. Apple ha dichiarato di essere pronta ad estendere gli stessi diritti previsti per gli europei agli utenti di altre parti del mondo. Facebook non sembra invece essere disponibile.
il manifesto 5.4.18
Gaza senza più nulla da perdere si prepara al venerdì di sangue
Israele/Striscia di Gaza. Negli accampamenti sorti nella fascia orientale della Striscia i palestinesi predispongono trincee per proteggersi dagli spari dell'esercito israeliano. Il governo Netanyahu conferma la linea del pugno di ferro lungo il confine e attacca la ong dei diritti umani B'Tselem che ha chiesto ai soldati di non aprire il fuoco sui civili palestinesi
di Michele Giorgio
GAZA «Non voglio morire, voglio vivere, ma è meglio la morte di questa vita da prigioniero, senza futuro». Non è una frase gettata lì, a caso. Karim, 22 anni, dice ciò che realmente pensano lui e i suoi giovani compagni, riuniti in una tenda per la colazione. Qualche pezzo di pane preparato in casa, un paio di piatti con dell’hummus, qualche pomodoro. Tutti hanno dormito lì come testimoniano i resti di un falò a pochi metri dalla tenda. Sono le 9 e nell’accampamento “Abu Safie”, ad Est di Jabaliya, uno dei cinque allestiti la scorsa settimana nella fascia orientale di Gaza per la “Marcia del Ritorno”, fa già molto caldo. Il sole picchia forte sulle tende e le altre strutture alzate dai palestinesi a diverse centinaia di metri dalle linee di demarcazione con Israele. Dall’altra parte delle barriere ci sono i soldati, inclusi i tiratori scelti che venerdì scorso hanno ucciso 14 palestinesi e ferito altre centinaia con munizioni vere e rivestire di gomma. Altri quattro sono spirati negli ospedali dove restano ricoverate decine delle centinaia di persone colpite dal fuoco dei militari israeliani. «Due dei miei amici sono stati feriti, grazie a Dio non in modo non grave», ci dice Karim indicando un paio di ragazzi, uno avrà non più di 14 anni e sta in piedi appoggiandosi a una stampella. «Venerdì sarà un giorno di sangue, gli israeliani ci spareranno contro ma non abbiamo paura. Non abbiamo nulla da perdere», spiega un altro giovane, Maher, mentre osserva il lento movimento, avanti e indietro, di una ruspa che ammassa terra lungo il lato orientale di “Abu Safie”. Lo stesso accade negli altri quattro accampamenti.
Questi terrapieni saranno le trincee dove domani i partecipanti della “Marcia del Ritorno”, cercheranno riparo se i soldati apriranno di nuovo il fuoco di nuovo sui palestinesi che proveranno ad avvicinarsi al confine. I filmati postati sui social nei giorni scorsi mostrano non pochi manifestanti colpiti quando si stavano allontando dalle barriere e persino a grande distanza da esse. «Per proteggerci daremo fuoco a cataste di vecchi pneumatici, il fumo nero non permetterà agli israeliani di prenderci di mira come hanno fatto venerdì», ci spiega sicuro del fatto suo Abu Tareq Salameh, un uomo sulla sessantina, in un’altra tenda assieme ad una decina di coetanei. «Siamo decisi a rompere l’assedio (di Gaza). Perciò resteremo qui, non ce ne andremo, anche se ci ammazzaranno tutti», aggiunge Abu Tareq lamentandosi, come tutti i palestinesi, giovani e anziani, del debole appoggio che la “Marcia del Ritorno” ha avuto dai leader arabi. «La Lega araba non conta nulla, (martedì) si è riunita solo per scrivere parole vuote su pezzi di carta. I leader arabi amano l’America, amano Trump e pure Israele», conclude l’uomo riferendosi all’avvicinamento dell’Arabia saudita allo Stato ebraico.
Si vedrà domani se gli accorgimenti per proteggersi dagli spari studiati dai palestinesi si riveleranno utili. Israele da parte sua ha fatto sapere che userà ancora il pugno di ferro. Martedì il ministo della difesa Lieberman ha avvertito senza usare mezze parole che coloro che si avvicineranno alle recinzioni metteranno «a rischio la loro vita». Qualche ora dopo un giovane palestinese, Ahmad Arafah, che si era spinto fin sotto alle barriere, è stato ucciso dal fuoco dei soldati. Ieri altri feriti, a est di Zaitun. Israele ha ribadito l’avvertimento in un messaggio per il movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, affidato al capo dei servizi di intelligence dell’Egitto, Abbas Camel, ricevuto due giorni fa a Tel Aviv dal direttore dello Shin Bet (la sicurezza interna) Nadav Argaman. Governo, partiti di destra, forze armate e la maggior parte dei media israeliani continuano a descrivere la “Marcia del Ritorno” non come una iniziativa popolare e pacifica organizzata dall’Alto Comitato per la fine dell’assedio di Gaza – include tutte le formazioni palestinesi, laiche e religiose – che andrà avanti fino all’anniversario della Nakba palestinese, il 15 maggio. Piuttosto la ritengono un piano di Hamas per lanciare «azioni terroristiche» contro Israele. Per questo hanno diffuso le foto in uniforme militare di alcune delle vittime palestinesi di venerdì, sostenendo che si trattava di militanti o simpatizzanti di Hamas e Jihad e sorvolando sul fatto che quando sono stati colpiti erano in abiti civili e disarmati (ad eccezione di due, del Jihad, responsabili di un attacco armato). Ieri Israele ha anche comunicato di aver arrestato una decina di palestinesi, sempre del Jihad, che, secondo i suoi servizi di sicurezza, si accingevano ad attaccare una motovedetta per catturare dei marinai.
Malgrado il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica alla linea dura del governo Netanyahu, in Israele si alzano voci contro nuove stragi di palestinesi sul confine con Gaza. B’Tselem, noto centro per i diritti umani, ieri ha esortato i soldati a disobbedire agli ordini e a non sparare sui civili palestinesi se questi non porranno una minaccia per le loro vite. Si tratta di un passo raro se si tiene conto che l’esercito era e resta la spina dorsale della società israeliana e che disubbidire agli ordini militari è considerato un atto gravissimo. B’Tselem nei suoi trent’anni di vita non ha mai invitato a rifiutare gli ordini dell’esercito ma, afferma il suo portavoce, Amit Gilutz, ritiene che sia illegale oltre che disumano sparare ai palestinesi che pongono una minaccia per la vita dei soldati. B’Tselem non nega il diritto di Israele di difendere il suo confine ma ribadisce che lo Stato ebraico deve osservare le norme internazionali per l’uso della forza. «Avvicinarsi alle barriere e persino danneggiarle non fornisce i presupposti per l’uso di forza letale…che – ricorda il centro per i diritti umani – è limitato a situazioni che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative». La reazione del ministro Lieberman è stata furiosa. Ha definito “sobillazione” l’appello dell’ong israeliana da lui descritta come un gruppo di «mercenari che agiscono dietro finanziamento di fondi stranieri, mercenari intenti a colpire lo stato di Israele».
È assai improbabile che ufficiali e soldati israeliani accolgano l’invito di B’Tselem e comunque nell’accampamento “Abu Safieh” neppure conoscono il centro israeliano per i diritti umani. La vita sembra scorrere normale, come se domani ad attendere i partecipanti alla Marcia del Ritorno non ci fosse un venerdì di sangue. Si puliscono i bagni chimici, le donne portano acqua e cibo, una Ong locale monta una postazione medica, qualcuno prova ad attivare il collegamento a internet. Più in fondo dei ragazzi giocano a calcio. «La mia famiglia vorrebbe vedermi diventare un architetto» dice Nidal Abu Shabaan, uno studente universitario, «lo desidero anche io ma non voglio essere un architetto prigioniero. Per questo sono qui, per essere libero».
La Stampa 5.4.18
Nei lager di Tripoli alla ricerca di un migrante scomparso
L’impossibile promessa alla sorella arrivata in Italia. Gliuomini costretti a pagare per lavorare fuori dalle carceri, le donne alla mercé dei miliziani
di Domenico Quirico
Sono venuto a Tripoli a cercare un uomo, un ragazzo di ventiquattro anni, un migrante. Adesso che, all’aeroporto, mi incolonno nella folla pigiata di viaggiatori, rivenduglioli, salafiti, spie, miliziani mi accorgo di quanto il mio scopo sia assurdo. Mi hanno chiesto di ritrovare una pagliuzza nell’immenso mucchio della migrazione, impigliata nella rete che noi e i libici abbiamo teso sulla spiaggia del mare. Di lui ho soltanto un nome, Lehi, una data e un luogo di nascita, Yassap in Costa d’Avorio.
E un numero di telefono, libico, che quasi certamente non potrò usare per non metterlo in pericolo, per non allertare coloro che lo hanno forse rapito imprigionato reso schiavo. Ecco. Ora che sono qui quello che provo assomiglia all’eccitazione che si avvertiva quando a scuola il professore cominciava la lezione di geometria con queste parole: prendiamo un punto nell’infinito.
L’auto corre sul lungomare, la vicinanza del deserto si avverte nei colori dell’aria che è chiara e celestina, il cielo di un azzurro pallido, leggero, di un rosa che sfuma ormai nel tramonto vale di più della città che gli deve quanto ha di meglio. Vedo intorno le solite case strette come scaglie di pigna di una architettura spuria, strade senza carattere, senza bellezza né ricchezza, l’immondizia a mucchi, i murales della rivoluzione, «alla fine liberi», sudici e illeggibili. Devo cercare, nel gran gioco del caso e della sorte, uno di coloro che hanno solo terre straniere e nemmeno una patria, che vivono con linguaggi presi a prestito, trascinati dal vento. Sapevo che avrei dovuto immergermi non nella Tripoli palese ma in una Tripoli incavernata e occulta, quella delle milizie e dei loro traffici, degli accordi opachi scritti da noi nel 2017 per mettere sotto controllo la migrazione. L’aereo che mi ha portato da Tunisi è appunto uno di quelli che vengono usati, due volte la settimana, martedì e giovedì, per i «rimpatri volontari». Fuori è nuovo, dentro, sui sedili, c’è attaccata l’abitudine a folle di poveri, l’usura e l’odore di abiti usati, di sporte stracariche, di misere cose.
Scorrono i palazzi di Gheddafi, non ultimati o distrutti, scheletri di cemento che il tempo ha già reso scuro, cumuli di rovina alti come grattacieli. In lontananza sembrano castelli intatti. Poi mano a mano che ci si avvicina si decompongono e si dissolvono in ruderi confusi con gli altri edifici: come se lo sfacelo non fosse già avvenuto ma avvenisse in quegli attimi. Essi danno infinite volte la stessa esibizione, morire sotto i nostri occhi tutte le volte che li si guarda.
La promessa
Ho accettato questo compito perché ho incontrato una giovane donna, Sabine e la sua bambina. È la sorella del ragazzo che sono venuto a cercare. Lei ha attraversato il mare in barcone, il marito è sparito in Libia e non ne sa nulla da due anni. Un altro fratello è morto in mare. Resta Lehi, scomparso e poi riaffiorato a novembre con una telefonata in cui raccontava di esser nella casa di un libico e chiedeva aiuto. Chiuso in un centro di detenzione, stremato, malato, era stato portato via dal suo padrone che per non riportarlo in prigione voleva denaro: ottocento euro subito e poi, trecento, ogni mese. È il nuovo business, in attesa di riprendere quello dei barconi e del mare. Sabine e i parenti hanno mandato il denaro; poi da gennaio, improvviso, il silenzio. Se non avessi guardato negli occhi Sabine, se non l’avessi ascoltata aggrapparsi a un indizio, a un dettaglio, a una briciola di informazioni per riaccendere le speranza, non avrei accettato.
Vi era qualcosa di così straziante in questo scavare nel passato, nel minuscolo episodio di un tempo, purtroppo senza via di uscita, per trovare un’ultima prospettiva, per credere e sperare, che ne sono rimasto sconvolto. Lo confesso: all’inizio ho pensato ecco, questo è un caso emblematico della migrazione, da raccontare… E poi ho accettato perché ho capito che non ci sono casi emblematici nella migrazione, che questo è il discorso che usano gli aforismi rozzi e ottusi degli xenofobi: l’invasione dell’occidente i governi e gli umanitari imbelli i popoli feroci avidi di denari e di donne… No! nessuna storia di migranti è emblematica, di nulla. È singola, intoccabile, una storia umana e basta. Cercare il ragazzo è un obbligo di fronte a questa animosità crudele che sembra entrata nella circolazione sanguigna del mondo.
Al ministero degli Interni a Tripoli, per i permessi, incontro una novità. Stavolta non potrò andare in giro da solo. Mi accompagnerà sempre un mukhabarat, un agente della sicurezza. È la conseguenza del filmato della Cnn, con migranti venduti come schiavi. I libici corrono ai ripari: basta indagini impiccione, viaggiatori curiosi. Il mio custode è simpatico ma meticoloso, non mi lascia mai, è come una ombra. Ho conosciuto ancora i paesi dei socialismi reali, le «guide», gli «interpreti», gli accompagnatori-spia. E dunque anche stavolta, a Tripoli, inizio il gioco di questa prigionia pratica, spicciola, una perenne lotta tra la pazienza e la noia in cui dapprima vince la noia e poi forse la pazienza. Ma per me, che devo cercare senza dirlo una persona, tutto diventa più difficile.
Per il momento ho solo i luoghi, l’atmosfera, l’aria che Lehi ha respirato, tutti i giorni, i mesi in cui è stato qui dopo il viaggio nel deserto. Ci sono tutti, questi luoghi di tragedia o di normalità, in cui è stato e in cui voglio ritrovare la sua orma e sentirne l’eco. E per tutto questo, per tornare sulle sue tracce, ripercorrere i suoi passi con i miei, immaginare ciò che ha percepito, vissuto, sofferto, non ho bisogno di autorizzazioni né di incontri. Questa storia è viva.
Il quartier generale
C’è un punto da cui bisogna iniziare e il punto è Sekha, il «Centro per la lotta alla immigrazione clandestina» nel cuore di Tripoli. Lehi deve essere passato di qui perché tutti i migranti raccattati dalle milizie, presi in mare, prima o poi, vi fanno sosta dolorosa. Strano: non mi hanno posto difficoltà per venire qui, quasi desiderino che visiti questo luogo. Ora capisco perché. Hanno organizzato oggi una festa, una festa per bambini prigionieri con le loro madri. La strategia si fa più sofisticata: cancellare l’immagine del lager per migranti, convincere l’occidente che spende bene qui i suoi soldi, che nessuno viola «i diritti umani». Infatti arrivano, giulivi, due rappresentanti delle Nazioni Unite, accarezzano bimbi, assaggiano dolcetti. Sotto una tenda ornata con palloncini, stanno le donne, stringono i bimbi in braccio, cupe, silenziose. Hanno messo loro in testa buffi cappellini di cartapesta. Nessuno si muove dal suo posto, girano le sorveglianti con maschere da commedia dell’arte. Avanza con gran fracasso una orchestrina con pifferi, piatti e tamburo. Un uomo mascherato da Minnie detta il tempo, fa danzare bambini storditi, che cercano di tornare dalla madre, getta coriandoli.
Era falso. Era come un balletto di bambole. Ed era triste. Crudele. Mi fanno sedere tra le «autorità». Il responsabile del centro pronuncia banalità bonarie e inesorabili. Accanto a me rappresentanti diplomatici di alcuni paesi che hanno cittadini nella prigione: Camerun, Centrafrica, Somalia. Guardano a terra, mesti, come vergognandosi, mi rispondono a monosillabi. La massima crudeltà non è mai calda. Si ha quando persecutore e vittima la usano e la subiscono ormai senza passione.
I funzionari dell’Onu se ne vanno distribuendo lodi. Le guardiane respingono, sgarbatamente, donne e bambini nella loro gabbia. Minnie si rivela un agente barbuto. Gira per il cortile ancora per metà in maschera. Alcuni somali, nella confusione, hanno avvicinato il loro diplomatico, un giovane elegante. È arrivato su un’utilitaria, con l’autista, ma piena di toppe e sfregi, il motore in agonia, il guidoncino somalo legato a un provvisorio bastone di ferro. Ha prestato il telefono a un migrante che sta cercando di chiamare i genitori. Minnie, furibondo, urla e a pugni e spintoni li ributta nella prigione. Ecco: cosa accade in questi luoghi un minuto dopo che il cancello si è chiuso dietro i visitatori? I migranti, fitti, le mani appese alle grate mi fissano senza parlare come si fissa in un’ora di abbandono e di solitudine la vicenda delle onde del mare.
Il racket
Tripoli è il caos, una gigantesca rete di estorsione, un trust che va dal banale racket di quartiere alle banche ai migranti venduti a noi o alle famiglie, al gasolio imboscato e caricato su navi cisterna e venduto a Malta in Italia in Grecia in Turchia. Ma un caos che non si vede: gente che vocia sul lungomare davanti ai ristoranti che espongono il pesce, pesce grosso sanguigno appena pescato, file di sangue rosso filettano le teste argentee e colano dalle ceste; salafiti obesi muovono ventri prominenti verso i fragili paradisi di una pasticceria; un gruppo di neri attende un ingaggio con l’esca di badili e cazzuole; lunghe file si allungano pazienti al complicato prelievo di piccole somme consentite nei bancomat.
Bisogna continuare, altre discese tra le ombre. Fare in fretta: qui stanno cancellando le tracce con i rinvii «volontari». Tanto ne restano, di migranti, settecentomila nelle vie, nei tuguri, nelle galere private delle bande: su cui calerà il nostro silenzio, e di cui fare ciò che si vuole. Ad al Matar, la via del vecchio aeroporto, mi assicurano che ci sono ivoriani. Ottocento rinchiusi in due hangar, un pagliericcio accanto all’altro, ciotole di cibo in cui mangiano accucciati a terra, a gruppi, con le mani. I guardiani, divise nere, teste rasate o barbe e capelli alle Guevara giocano con un calcio balilla: «Si consegnano volontariamente i negri… non dobbiamo nemmeno cercarli… non ce la fanno più...».
Cerco, senza fare troppe domande. Uno degli ivoriani mi sussurra un nome: Tajoura, vai lì, ci sono quelli che hanno catturato da poco. Il tempo è cambiato, un freddo salato e sferzante, da inizio di temporale, che ricorda ogni volta la presenza del mare. Dieci chilometri e siamo a Tajoura. Arrivo insieme a una delegazione dell’Unione europea, alla guida un diplomatico ungherese. Sono venuti ad assistere al rimpatrio di un centinaio di nigeriani e senegalesi. Davanti al capannone i migranti sono allineati in questa mattinata spietata di pioggia e gelido vento in quadrati ben ordinati, stanno seduti sui ginocchi come solo gli africani sanno fare, in mano il documento arancione di espulsione. I bus sono già pronti, il motore acceso: in piedi in fila per uno salite buon viaggio e a non più rivederci… I diplomatici rabbrividiscono in giacchetta e cravatta, si vede che hanno fretta di tornare al tepore delle Mercedes. Non mi lasciano entrare nell’hangar dei migranti. Fanno uscire una ragazza, somala. Ha sedici anni, è piccola, il corpo esile avvolto da un lungo vestito, i piedi chiusi in pantofole nere come quelle delle bambole. La sua straordinaria bellezza si intuisce, dunque, dal volto e dalle mani. Il volto è lievemente solcato da qualche ruga agli angoli degli occhi, la fronte è alta, si vedono pulsare le vene che la percorrono dall’alto in basso, la bocca piccola, gonfia e palpitante, anche quando, anzi soprattutto quando sta in silenzio. E gli occhi… non ho mai visto uno sguardo come questo. All’inizio pensavo fosse cieca perché gli occhi attraversavano me e le cose come se cercassero qualcosa che era dietro di esse. Gli occhi dei profeti. E delle vittime. È partita da Galkaio quando aveva 14 anni, da sola. Fuggiva il padre che è uno shebab: «Io sono Ahnam, ma Ahnam non esiste più si è perduta... Vogliamo uscire di qui, vedere città, vivere…».
Dal padiglione degli uomini emerge un nigeriano, una specie di kapò, ha le chiavi, collabora con le guardie, tiene buoni i migranti. L’ultima possibilità, lo abbordo, gli sussurro il nome di Lehi. Mi guarda senza parlare.
Repubblica 5.4.18
Russia, Iran e Turchia
Così va in scena la Yalta della Siria
di Daniele Bellasio
La nuova Yalta della Siria e in prospettiva del vicino Oriente nasce da una regola semplice del grande gioco delle potenze: in politica, tranne forse che in quella italiana, un vuoto viene sempre colmato da qualcuno. Ed ecco che ieri il summit trilaterale ad Ankara ha mostrato Erdogan, Putin e Rouhani intenti a spartirsi le zone di influenza e ad accordarsi su come risolvere i problemi in futuro. Così, a quasi nove anni dal discorso dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo, quello dell’auspicato “nuovo inizio” nelle relazioni tra l’America e il mondo arabo-musulmano, e a meno di tre dal conflitto sfiorato tra Russia e Turchia, quando Ankara abbatté un velivolo di Mosca che aveva violato lo spazio aereo, ciò che sembrava impossibile è avvenuto: tre nazioni con antiche diffidenze e non lontani rancori reciproci – Turchia, Russia e Iran – appaiono come il direttorio di comando dell’intera regione, una regione peraltro vicina a noi europei, diciamo almeno a portata di rotte dei migranti.
Tutto ciò accade anche perché i principali protagonisti alternativi sono assenti o immobili. Partiamo dall’assente: Donald Trump.
La strategia della sua Amministrazione è dichiarata fin dal motto “America First”. La Casa Bianca si appoggia sugli storici alleati Arabia Saudita e Israele, rafforzando i legami su armamenti e difesa con Riad e quelli politici con Gerusalemme capitale e lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. Per il resto – pensa Trump – meglio uscire o quasi dall’intesa anti-nucleare con l’Iran, meglio uscire o quasi dalla guerra civile siriana e dalla lotta all’Isis, meglio uscire o quasi dal conflitto israelo-palestinese: prima di tutto l’America e per il resto facciano loro. E loro tre infatti fanno.
Certo, tensioni tra i membri del nuovo direttorio ci sono e ci saranno. Per esempio l’Iran non vuole che le forze turche restino in territorio siriano e continua a proteggere l’integrità (almeno di facciata) del regime di Bashar el Assad, ma in fondo Teheran schiera nell’area la sua forza di pronto intervento rapido, le rinvigorite milizie degli Hezbollah, molto vigili, e dunque può anche scendere a patti con Turchia e Russia. Pure tra Erdogan e Putin permangono diffidenze e una sorta di malcelata competizione sulla regione, ma le commesse militari, una forte presenza russa a bordo Mediterraneo, e l’interesse del Cremlino ad avere un alleato e confidente nella Nato diventano convenienze convincenti per superare, almeno per ora, gelosie e sospetti.
E tutto ciò può accadere anche perché l’Europa, l’altro protagonista possibile, non ha una voce, un piano, un ruolo.
Alle prese con Brexit, in piena crisi diplomatica con Mosca, dopo le contrastanti vicende dell’ex spia russa avvelenata, impossibilitata a usare la prospettiva di ulteriori allargamenti per conquistare cuore e menti di nuovi paesi, e sotto il ricatto turco per quanto riguarda i flussi migratori, l’Unione europea non riesce a mettere sul tavolo una vera e forte strategia per il Mediterraneo, se non una dispendiosa linea di contenimento tattico dei flussi migratori. Le fragilità continentali si riflettono inoltre sulla Nato, quasi ferma anche per la carenza di risorse che le economie europee post crisi non possono o non vogliono investire nella difesa comune. Assente l’hard power americano, immobile il soft power europeo, non resta che il potere di quei tre. Poco rassicurante.
Il Fatto 5.4.18
Erdogan, sì ad Assad ma vuole i curdi morti
Il destino della Siria - Russia, Turchia e Iran mettono punti fermi, gli Usa annunciano la partenza
di Roberta Zunini
Dal terzo vertice tra Turchia, Russia e Iran, questa volta tenutosi ad Ankara, emergono due notizie certe: a vincere la lunga e sanguinosa guerra civile siriana, trasformatasi quasi subito in una guerra per procura tra potenze mondiali, sono stati tutti, tranne che gli arabi. Per le loro divisioni interne, non solo religiose, e a causa della mancanza di interesse reale degli Stati Uniti che prima con Obama, da un anno con Trump, non hanno voluto mettere gli scarponi sul terreno, interessati solo a contenere la Cina, l’unica vera potenza planetaria a poter insidiare la leadership americana.
Gli Usa non hanno avuto alcun interesse reale a contrastare la Russia e tantomeno la Turchia, cruciale membro della Nato, in un’area foriera solo di problemi. Non ultimo quello curdo. La seconda certezza infatti è che i curdi, traditi dagli ambigui alleati Usa in Iraq e ora definitivamente in Siria, sono stati fatti fuori dai giochi dai presidenti Erdogan, Putin e Rouhani. Secondo quanto emerso dal vertice di Ankara, la Siria del futuro rimarrà indivisa e non ci sarà autonomia per il Rojava, ovvero i cantoni curdi nel nord della Siria, al confine con la Turchia, che stavano tentando di riunirsi in una sorta di entità statuale; una zona, bombardata fin dal 2014 dall’esercito turco, inizialmente con il pretesto di colpire lo Stato Islamico che aveva tentato di conquistare anche il Rojava a partire dalla città di Kobane, diventata poi il simbolo del coraggio curdo. In realtà il presidente turco Erdogan nel 2013 ruppe la tregua con l’organizzazione curda di Ocalan, il Pkk non perché quelli che considera “terroristi alla stregua dell’Isis” avevano compiuto attentati, ma perché già vedeva nel Rojava il vero pericolo da stroncare ed evitare che i curdi di Turchia seguissero l’esempio dei fratelli siriani.
Erdogan ha ottenuto tutto quello che voleva, tranne la caduta di Bashar al Assad, protetto da Russia e Iran. Assad, tuttavia, è ormai solo il prestanome di Putin. Se è vero che il Sultano turco ha dovuto accettarne il salvataggio (per ora) è vero anche che non ha ottenuto solo l’ esclusione dei curdi siriani dai negoziati. La sua vittoria sarà definitiva quando gli americani gli lasceranno prendere Manbji, il cantone curdo, dopo quello di Afrin, dove ora Erdogan vorrebbe indirizzare le sue truppe. Con l’obiettivo di cambiare la composizione demografica del Rojava, mettendoci i profughi arabi siriani riversatisi in questi 8 anni di guerra in Turchia, oltre ai familiari, parenti, amici di tutti i combattenti e i simpatizzanti dell’Esercito Libero Siriano; gli stessi che si sono schierati contro Assad e, in seguito contro i curdi. Possibilità data loro dalle armi e dai finanziamenti del Sultano prima che facesse mettere ai suoi soldati gli scarponi sul Rojava.
Ieri Erdogan non ha perso l’occasione per umiliare, ancora una volta, l’inesistente Europa. Dopo aver sottolineato che sulla questione siriana non ha preso posizione, ha ricordato che deve ancora versare l’ultima tranche di “aiuti per i rifugiati siriani in Turchia”, sbloccata da poco. Altri 3 miliardi di euro da regalare a Erdogan per tenere bloccati i profughi che vorrebbero venire in Europa.
il manifesto 5.4.18
Una Siria unita e via libera alla caccia ai curdi
Vertice ad Ankara. Erdogan, Putin e Rouhani decidono il futuro di Assad. E mettono fine alle speranze di autonomia curde. Intanto Trump vorrebbe ritirare i soldati Usa dalla regione, ma il Pentagono non la pensa così
di Dimitri Bettoni
ISTANBUL Russia, Turchia e Iran si sono incontrate ieri ad Ankara per un nuovo round di colloqui sulla guerra in Siria, conclusi all’insegna di un riavvicinamento tra paesi che cercano così di coniugare le diverse visioni e strategie.
Nel comunicato rilasciato, il presidente russo Putin, quello turco Erdogan e quello iraniano Rouhani hanno ribadito il rispettivo impegno come «garanti del raggiungimento di un cessate il fuoco duraturo, in linea con il processo politico indicato dalla risoluzione n. 2254 del Consiglio di sicurezza della Nazioni unite». Di fatto, da tempo i tre paesi hanno trasformato il dramma siriano in una faccenda da gestire a tre, con l’esclusione del resto della comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti. I tre presidenti hanno anche «rigettato ogni tentativo di creare nuove realtà sul territorio con il pretesto di combattere il terrorismo e contro ogni sostegno a un’agenda separatista che violi la sovranità e l’integrità territoriale della Siria».
Una dichiarazione che, ad uno sguardo attento, stride fortemente con le ambizioni sia turche che iraniane, ma che soprattutto cozza con l’evidente incapacità di Damasco di riprendere nelle proprie mani le redini del paese.
Oltre la facciata, al sostanziale raggiungimento di una linea comune, fanno da contraltare una serie di frizioni che rischiano di mandare all’aria mesi di trattative tutt’altro che semplici.
L’evoluzione sul campo, in particolare a partire dal 2015 con il massiccio intervento militare russo, ha spinto Ankara ad abbandonare le velleità di destituzione di Assad, obiettivo condiviso con Washington all’inizio della guerra, e a virare verso una politica di rappacificamento con il vicinato che fissa due obiettivi primari: sopprimere qualsivoglia politica curda autonoma o indipendente, soprattutto se ideologicamente affine al confederalismo democratico, e piantare saldamente un piede nel futuro della nazione siriana e, più in generale, dell’intera regione.
Obiettivi che il Cremlino sembra in questo frangente voler assecondare. Il sostanziale via libera all’invasione turca del nordovest siriano ha concesso ad Ankara di giocarsi un ruolo militare che aveva perduto. Erdogan ha ribadito più volte che gli accordi assicurano alla Turchia un posto al tavolo decisionale sul futuro siriano, un processo che richiederà anni e altrettanto a lungo consentirà ad Ankara di far valere il suo peso nella regione.
Mosca si presta anche a far da paciere tra Turchia e Iran, che vede di malocchio l’espansionismo turco. In questi giorni Ankara sta installando la sua ottava base d’osservazione nella zona di Idlib e consolidando il blocco sunnita, mentre Teheran cerca invece di preservare il corridoio sciita che, passando per il nord Iraq, raggiunge la Siria e le coste del Mediterraneo.
In cambio del controllo turco su Idlib, la Russia si aspetta da Ankara la completa sottomissione della variegata galassia gruppi ribelli anti-regime, che include anche quelle frange salafite e quaediste che Damasco e Mosca vorrebbero isolare, per poi condurre le rimanenti fazioni ad un tavolo negoziale dove Assad possa dettare le condizioni.
Per ora Ankara tira quindi i fili di questa galassia: cerca di garantirle un’area sicura e voce in capitolo in Siria in cambio di una cooperazione anti-curda nel nord. Erdogan ha ribadito di aver messo nel mirino le restanti regioni sotto il controllo dei cantoni autonomi curdi, sia che gli Stati Uniti abbandonino la regione, come sembra preferire la presidenza Trump, sia che decidano per la permanenza, come vorrebbero invece sia il Pentagono che gli ufficiali schierati in loco.
il manifesto 5.4.18
La fattoria dorata dell’angelo della morte
Intervista. Un incontro con lo scrittore e giornalista francese Olivier Guez, in Italia per presentare il suo libro «La scomparsa di Josef Mengele», uscito con Neri Pozza
Twin dissection di Fortunio Liceti
di Guido Caldiron
In fuga dalle sue responsabilità e da una Germania che non ha nessuna voglia di guardarsi dentro, Helmut Gregor arriva a Buenos Aires mentre l’eco della guerra ancora incendia l’Europa. Ha avuto però il tempo di raccogliere i suoi preziosi appunti, stilati ad Auschwitz nei 16 mesi passati come capitano medico delle SS a decidere della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone, certo che i terribili esperimenti inflitti ai deportati gli avrebbero spianato la strada per una brillante carriera accademica. All’epoca, prima di essere accolto dalla folta comunità di criminali nazisti fiorita intorno alla corte di Juan Domingo Perón, si chiamava ancora Josef Mengele.
Grazie a uno stile secco, aspro e teso che non concede alcuna tregua ai lettori, lo scrittore e giornalista francese Olivier Guez ricostruisce in La scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza, pp. 204, euro 16,50, traduzione di Margherita Botto), tra i finalisti del Goncourt e vincitore lo scorso anno del Prix Renaudot, la seconda vita dell’«angelo della morte» di Auschwitz. Quella trascorsa immerso negli agi del «nazismo dopo il nazismo» dei regimi compiacenti del Sudamerica e quella che, dopo la cattura di Adolf Eichmann da parte del Mossad nel 1960 a Buenos Aires, si trasformerà invece in una fuga senza quartiere.
Con la determinazione di un detective, Guez dà la caccia a Mengele e al suo mito, accompagnato dall’amara consapevolezza che «ogni due o tre generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni uomini tornano a propagare il male».
Il percorso che conduce a questo libro è iniziato con «L’Impossible Retour», un’inchiesta (inedita in Italia) sul ritorno degli ebrei in Germania dopo il 1945 e con la sceneggiatura del film «Lo Stato contro Fritz Bauer», dedicato al magistrato che segnalò al Mossad la presenza di Eichmann in Argentina non fidandosi dei colleghi di Francoforte. Quale il significato di questo suo viaggio nel lungo dopoguerra europeo?
Sono più di dieci anni che indago i temi legati al secondo dopoguerra, procedendo per tappe. Lavorando sul ritorno degli ebrei mi sono imbattuto nella figura di Bauer e in seguito il regista Lars Kraume mi ha chiesto di scrivere la sceneggiatura del suo film. Tramite le inchieste di Bauer ho scoperto i nazisti rifugiati in Argentina e da qui è nato l’interesse per Mengele. Quanto al senso del mio itinerario, va ricercato nel fatto che «i dopoguerra», al plurale, vale a dire il periodo compreso tra il 1914 e il 1945, hanno plasmato la nostra Storia, ciò che siamo ancora oggi. In quegli anni in Europa ci sono stati 85 milioni di morti. Nessun’altra civiltà è stata attraversata da un tale istinto suicida. Un trauma che non è stato superato e forse non lo sarà mai. Perciò, affrontare tali vicende significa guardarsi ancora intorno.
Mengele era figlio di un ricco industriale bavarese, che garantirà per decenni la fuga in Sudamerica. Dopo aver applicato con esperimenti atroci sui prigionieri di Auschwitz le tesi eugenetiche che andavano per la maggiore nelle università europee, finirà per vendere tra Argentina e Paraguay le macchine agricole di famiglia. La sua figura incarna una parabola tragica delle contraddizioni della modernità?
I Mengele sono un simbolo del successo industriale tedesco e non c’è dubbio che le «fabbriche della morte» dei lager, legate al sistema economico e imprenditoriale del paese, hanno avuto a che fare con l’affermarsi di quella modernità omicida. Quando, dopo la cattura di Eichmann, Mengele inizia a sentirsi braccato, maledirà il fatto che i suoi mentori, gli scienziati dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino, che lo avevano inviato ad Auschwitz «in missione», si stanno godendo indisturbati la pensione. Mengele si pensa come un superuomo nietzschiano e come parte di un sistema non solo ideologico, ma anche medico, tecnico e scientifico che ha immaginato il futuro selezionando la specie umana come se si trattasse di piante.
Mengele è stato descritto come un essere demoniaco. Questo libro lo riporta tra gli uomini, rendendo i suoi crimini e la sua personalità forse ancor più terribili.
Io volevo dimostrare che era un uomo. Non ho mai sopportato la rappresentazione del nazismo come mostruosità, quasi si trattasse di qualcosa che, in fondo, come esseri umani non ci riguardasse. Ho raccontato chi si celava dietro al mito dell’«angelo della morte». E ciò che ho scoperto, più che con la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt a proposito di Eichmann, ha a che fare con una sorta di mediocrità del male. Mengele si era iscritto tardi al partito, perché gli serviva per fare carriera all’università e allo stesso modo aveva accettato il trasferimento ad Auschwitz perché in ballo ci sarebbe potuta essere una cattedra a Berlino. Il suo odio per gli ebrei era assoluto, ma per lui uccidere e torturare anche i bambini costituiva solo una tappa per la propria realizzazione professionale, per quel successo personale cui continuerà a pensare anche in seguito.
Grazie alla protezione di Perón e dei militari locali, Mengele conduce una vita agiata a Buenos Aires. La «caccia ai nazisti» è stata poco più che una leggenda?
La verità è che per oltre un decennio nessuno ha cercato davvero di arrestarli, anche se si sapeva dove si trovavano. Addirittura, nel 1956, Mengele ottenne dal consolato della Rft a Buenos Aires documenti con la sua vera identità con i quali rientrare per qualche tempo in Baviera. Soltanto dopo il caso Eichmann, anche in Germania ricominceranno i processi e, alla fine degli anni Sessanta, una nuova generazione chiederà finalmente ai propri padri conto del loro recente passato hitleriano. Solo allora, Mengele compreso, i nazisti capiranno di essere stati sconfitti.
Per lui, la sconfitta avrà il volto di suo figlio Rolf che lo raggiunge in Sudamerica per dirgli che non intende vederlo mai più. È questa la sua vera e unica condanna?
Dopo il processo Eichmann, Mengele sarà preda di una paranoia crescente che gli farà vedere agenti pronti ad arrestarlo ovunque. Passerà così più di 15 anni, fuggendo prima in Paraguay, poi in Brasile, vivendo in piccole fattorie, in luoghi sempre più isolati. L’incontro con il figlio arriverà nel 1977, due anni prima della sua morte, al culmine di questa fuga, direi quasi di questa follia che può essere considerata la sua sola condanna. In quell’occasione cercherà di difendere il proprio operato. Ovviamente, invano. A Rolf che gli chiede conto delle sue azioni ad Auschwitz, replica con i toni di un tempo, rivendica quanto fatto e ammonisce, «sappi che la coscienza è un’istanza malata, inventata da individui morbosi per ostacolare l’azione e paralizzare chi agisce». Il figlio se ne andrà senza nemmeno replicare.
Ricostruendo l’intimità di Mengele lei è entrato nel territorio della fiction, colmando i vuoti e le pagine bianche della storiografia. Non ha avuto paura di scivolare in quella sorta di morbosità che circonda le cronache della vita dei nazisti?
A guidarmi verso la forma del romanzo è stata la stessa vita condotta da Mengele in Sudamerica che appare così incredibile da avere un aspetto profondamente romanzesco. Non a caso non è il Mengele di Auschwitz che ho rivisto attraverso questo libro, non avrebbe avuto senso. Mi interessava descrivere «Mengele dopo Mengele», la sua fuga dorata e quindi la sua caduta. Per questo ho fatto ricorso a un romanzo di non-fiction. Vale a dire ricostruire vicende reali in una forma narrativa. Il mio modello è stato A sangue freddo di Truman Capote che racconta una storia vera, ma è considerato come un punto di congiunzione tra il giornalismo e la letteratura.
Nessun’altra vicenda, come la fuga dei nazisti ha alimentato la cultura popolare più della ricerca storica. Lo stesso Simon Wiesenthal si è mosso al confine tra questi elementi. La battaglia per la memoria se ne è giovata?
È solo grazie alla cultura popolare se il nome di Mengele è giunto sino a noi. E se, per questa via, i crimini del nazismo sono impressi nelle coscienze a ogni latitudine. Wiesenthal ha fatto ricorso a qualunque strumento perché il capitolo della ricerca dei colpevoli e dell’individuazione delle loro responsabilità non si chiudesse. Film come Il maratoneta e I ragazzi venuti dal Brasile, che alle sue azioni si sono ispirati, hanno mantenuto desta l’attenzione su questi temi. Mentre progredivano le indagini sul piano storiografico, tutto ciò ha contribuito senza dubbio a salvarci dall’oblio.
il manifesto 5.4.18
Il ritrattista forzato di Pol Pot
Memoir. «Il pittore dei khmer rossi» di Vann Nath, per Add editore
di Simone Pieranni
Una testimonianza storica raccontata attraverso immagini e parole può diventare anche ispirazione per una sentenza giudiziaria. Il pittore dei khmer rossi di Vann Nath pubblicato da Add Editore (pp.155, euro 18) nella collana «Asia» rende giustizia a tanti elementi: alla storia, perché narra la vita di un uomo all’interno di uno dei carceri più violenti del breve ma terribile regno dei khmer rossi.
POI, RENDE GIUSTIZIA al memoir, genere letterario che talvolta affoga nel mare dell’ombelico individuale. Infine all’epica, accompagnata dalle coincidenze della vita e dalla forza di vite che – evidentemente – dovevano diventare rilevanti nella storia del proprio paese.
Quella Cambogia tra l’«Anno Zero» del 1975 e la caduta dei khmer rossi nel 1979 che Vann Nath raffigura, era contrassegnata da alcuni incubi ricorrenti.
A COMINCIARE DALLE PAROLE; come scrive l’autore del volume, i khmer rossi «non provavano alcuna pietà per gli altri esseri umani. La loro accusa di essere kmang, un nemico, era davvero potente. Separava tra loro padri e madri, figli e fratelli. Questa parola, kmang, spaventava la gente di ogni livello sociale». E poi la volontà distruttrice. Non dimentichiamo che con «Anno Zero» i khmer intendevano molto più di un nuovo corso storico: avevano in mente – per la precisione – uno sterminio necessario. Come ricorda Vann Nath, gli slogan trasmessi ogni giorno alla radio erano i seguenti: «Bisogna distruggere tutto del regime precedente. Costruite una nuova Kampuchea florida, progressista, sempre più evoluta».
RIPERCORRIAMO rapidamente i fatti: nel 1975 il capo di governo Lon Nol rovescia Sihanouk – il figlio dell’ex monarca – ma nel 1975 è a sua volta rovesciato dai khmer rossi che proclamano la nascita della Kampuchea. Non esiste più denaro, religione e libertà: centinaia di migliaia di persone sono spostate dalle città (che rimangono deserte) alle campagne. Moltissimi di loro – tra un milione e mezzo e tre milioni – sono uccisi. Nel 1976 Pol Pot diventa primo ministro, nel 1977 la Kampuchea è in guerra con i vietnamiti. Nel 1979 i soldati vietnamiti entrano a Phnom Penh e i khmer rossi scappano al confine con la Thailandia. Via via il paese torna a una quasi normalità (e anche oggi non è esente da involuzioni autoritarie).
VANN NATH viene arrestato nel 1978. Quando esce dall’incubo (e dalla prigione) ha troppo da raccontare e troppo da selezionare; la sensazione sua e degli altri sopravvissuti a quella prigione (la S-21) deve essere stata simile a quella dei pochi usciti vivi dall’Olocausto: una percezione di orrore associata alla paura di non essere creduti. Dietro ogni sopravvissuto a un massacro, c’è sempre lo scetticismo del resto del mondo. E allora Vann Nath si mette lì e piano piano, mattoncino dopo mattoncino, costruisce di fronte ai nostri occhi il palazzo degli orrori che lui e tanti come lui hanno vissuto.
Vann Nath è perfino uno dei più fortunati: arrestato senza un motivo, accusato senza accuse, imprigionato senza una colpa, viene salvato dalla sua arte. Sa dipingere e i «fratelli» alla guida del carcere hanno bisogno di artisti capaci di celebrare l’«Anno Zero» della Kampuchea, il «fratello numero uno» su tutti. E così giorno dopo giorno, sempre imprigionato e all’ascolto di torture e brutalità, Vann cerca di mangiare e dormire quel che basta per trovare le forze necessarie a dipingere il ritratto niente meno che di Pol Pot. Deve farlo bene, con precisione, con passione, con dovizia di particolari: se così non accade, è morta certa. La sua seconda fortuna è quella di essere arrestato e di finire in carcere negli ultimi lunghi mesi prima della fine, almeno istituzionale, del dominio di Pol Pot e compagnia. Siamo in Cambogia, un paese raso al suolo umanamente: Vann e pochi altri sopravvissuti decidono che tra le mura del carcere deve nascere un museo per testimoniare le sofferenze proprie e altrui.
LA SUA ARTE lo aveva mantenuto vivo in prigione; fuori la sua pittura deve mantenere vivo il ricordo di quanto è successo al suo paese. Quando viene aperto il museo, in fila tra la gente in attesa di entrare, Vann Nath trova perfino un suo vecchio carceriere. Vann Nath non ha volontà di vendetta, non con i pesci piccoli almeno: il capo, invece, sarà condannato proprio grazie alle testimonianze dei sopravvissuti. Vann muore nel 2011 e non vede la condanna a vita del 2014 ai danni dei dirigenti khmer rimasti in vita. Ma può andare bene così: l’arte suggerisce, puntualizza, apre spiragli. Sentenziare è compito della giustizia.
Corriere 5.4.18
Il giovane Karl Marx
Il filosofo tra gli operai: una girandola di passioni
di Maurizio Porro
Tutti dicono che Marx, nel senso dell’ideologia, è morto, ma in questo film di Raoul Peck che festeggia i 200 anni della nascita e i 170 del Manifesto , sembra vivissimo. L’autore di Lumumba e I’m not your negro non imbocca la strada didascalica impedita a suo tempo a Eisenstein e Rossellini, ma rende il filosofo post hegeliano uomo di passioni, che vede operai francesi e inglesi in strada, i tedeschi come sempre in tumulto, i vicini spioni.
Così, a 26 anni dà uno strattone alla sua esistenza, parte con la moglie per Parigi dove nel 1844 incontra il suo amico e complice Friedrich Engels, dandy figlio d’industriali che sposa la causa del popolo in marcia, tanto che Marx lo bacia perfino sulla bocca ma solo per un’inchiesta sui proletari di Manchester. Poi riformisti, assemblee, voti, il rassicurante Proudhon, mentre l’ombra di Feuerbach, vero ispiratore, s’allunga. Alti e bassi tradimenti: sembra il Pd di oggi raccontato dalla medium della Storia. E tutto va a doppia mandata, l’impegno politico convive col bilancio sentimentale, le leggi d’amicizia, la trasformazione dell’idea in azione, quello che non riusciva ad Amleto.
Il film è brechtiano, certo, ma s’anima e vive, con un sospetto televisivo, del senno di prima e poi: l’esborso emotivo non cancella la fede nel Manifesto. Marx è August Diehl, nazi in Bastardi senza gloria, Engels è Stefan Konarske, Jenny Marx è Vicky Krieps che avvelena coi funghi il sarto del Filo nascosto ma qui sopporta i capricci dell’uomo del Capitale.
Repubblica 5.4.18
Biografico
Il manifesto del giovane rivoluzionario
di Roberto Nepoti
Tra i venticinque e i trent’anni Marx elabora e consolida il suo pensiero, denunciando le malefatte del capitalismo e diventando l’ideologo della lotta di classe. In esilio da Berlino, vive tra Parigi Londra e Bruxelles: gli sono accanto la moglie Jenny von Westphalen e Friedrich Engels, figlio in rivolta di un ricco industriale. Assieme scriveranno Il Manifesto del partito comunista, il libro che accompagnerà le lotte operaie.
Opera di due cineasti seri (l’autore del premiato documentario I’m Not Your Negro Raoul Peck e Pascal Bonitzer alla sceneggiatura), un biopic onesto, ma un po’ troppo pedagogico, dalla regia molto classica. Buona la scelta del cast, anche se un Marx più attempato avrebbe potuto attrarre interpreti di gran fama.
In attesa di capire meglio quale sarà il suo pubblico, se ne apprezza l’uscita in tempi – come i nostri – in cui molti predicano la fine delle ideologie politiche.