La Stampa 4.4.18
Nuovi equilibri
Una sfida per l’Italia
di Marta Dassù
Abbasso
l’ordine internazionale liberale. E quindi abbasso la Germania, viva
l’America di Trump e bene anche Putin. È meglio che l’Italia si schieri
con i Grandi lontani che con i Grandi vicini europei: avrà meno vincoli e
maggiore libertà d’azione. In estrema sintesi, la Lega e in parte i 5
Stelle – in parte: le posizioni dei due, anche in politica estera, non
coincidono certo – propongono una visione internazionale del genere. Ciò
significa che una percentuale consistente del nuovo Parlamento e un
ipotetico governo futuro concepiranno la difesa degli interessi
nazionali dell’Italia in modo diverso dalla tradizionale combinazione
fra europeismo classico e atlantismo (o ciò che ne rimane).
Non si
tratta di un peccato mortale: a differenza di quanto si tende a
pensare, la valutazione degli interessi nazionali non è mai oggettiva, è
politica e soggettiva. E quindi può evolvere nel tempo – anzi deve
evolvere di fronte a un contesto esterno che si sta frammentando. Il
problema vero è un altro: è di capire fino a che punto la visione di
politica estera sovranista/populista sia credibile e possa garantire
risultati efficaci per l’Italia.
L’Italia ha lo spazio e le
capacità per giocare una carta «anti-establishment» in chiave
internazionale? Prendere le distanze dal «cuore» europeo rientra davvero
nei nostri interessi nazionali?
La risposta è no, per ragioni
pragmatiche prima ancora che per scelte ideali. Anzitutto, non è nel
nostro interesse nazionale scivolare politicamente fuori dall’area euro
pur restando (almeno nel breve e medio termine) dentro le strutture
dell’euro-zona. Sarebbe la ricetta per l’irrilevanza, proprio quando
un’Europa fortemente divisa discute scelte importanti per gli anni
futuri: dalla struttura del bilancio al completamento dell’Unione
bancaria. I famosi vincoli europei resterebbero intatti, così come la
nostra fragilità di Paese ad altissimo debito pubblico; e al tempo
stesso perderemmo qualunque influenza politica. In particolare verso
Francia e Germania, dove a tratti riappare la tentazione di immaginare
un «nucleo duro» carolingio, che potrebbe escludere l’Italia (ma
probabilmente non la Spagna). Lega e 5 Stelle sembrano avere ormai
chiaro che l’uscita dall’euro avrebbe costi insostenibili per il nostro
Paese; ne devono però derivare scelte politiche e alleanze coerenti.
Flirtare con il gruppo di Visegrad non risolve nessuno, ma proprio
nessuno (includendo l’immigrazione), dei nostri problemi. Per evitare
uno scenario «Grecia-Plus», responsabilità economica nazionale e tavolo
di Bruxelles restano essenziali: alternative realistiche non esistono,
specie in una fase in cui la politica di sostegno della Banca centrale
europea è destinata gradualmente ad esaurirsi. Se la tenuta dell’Italia
costituisce una delle incognite principali per l’insieme dell’eurozona,
questo non significa che i nostri conti verranno pagati dall’esterno;
significa – con tanti saluti al sovranismo – che finiremmo sotto tutela.
O sotto la frusta dei mercati.
Seconda ragione: puntare
sull’America di Trump contro la Germania dalla Grosse Koalition è una
scommessa, piuttosto che una scelta. Soprattutto perché la politica
americana è oggi dominata dall’incertezza (come atout strategica), senza
particolari garanzie per gli alleati. La Casa Bianca dell’America-first
sembra quasi attratta da una logica del «tanto peggio tanto meglio»:
tanto più si spaccano i vecchi assetti multilaterali, tanto meglio sarà
per gli Stati Uniti in quanto attori comparativamente più forti.
L’Italia, che è al massimo una media potenza, ha poco da guadagnare e
qualcosa da perdere: ad esempio, la stretta sul commercio internazionale
lede gli interessi di un Paese fortemente esportatore come il nostro,
con un notevole surplus nei confronti degli Stati Uniti e una forte
interdipendenza con la Germania. Su un piano diverso, la reticenza dei 5
Stelle a contemplare aumenti della spesa militare non renderà più
semplici i rapporti con Washington e con la Nato. E Lega e 5 Stelle
tenderanno a dividersi, su questo e su altri dossier rilevanti per la
relazione con gli Stati Uniti.
Terza ragione: poco credibile è
anche la capacità di tenere insieme - in una politica estera giocata
appunto sui Grandi lontani invece che sui Grandi vicini – l’alleanza con
Trump e l’ammirazione per Putin, come uomo forte (Lega) o come
oppositore del vecchio ordine liberale internazionale (5 Stelle). Il
clima fra Washington e Mosca non volge verso il bel tempo: per ragioni
domestiche (Russiagate) e internazionali (il caso Skripal, gli
allineamenti opposti sull’Iran), è difficile che la linea dialogante di
Trump (il presidente americano ha proposto a Putin un incontro alla Casa
Bianca) possa sortire dei risultati. Un’Italia platealmente filo-russa,
in una fase tesa come quella attuale, entrerebbe in collisione sia con
l’Ue che con Washington. E con la Gran Bretagna, ispiratrice di una
Brexit vista con favore dalla Lega.
Come si vede, i rapporti con
le due grandi potenze extra-europee non potrebbero compensare la
debolezza a Bruxelles, dove si gioca, per l’Italia, la partita economica
decisiva; anzitutto nella relazione con Germania e Francia. È indubbio
che l’europeismo tradizionale abbia bisogno di aggiornamenti: poiché
l’Europa è un contesto fortemente competitivo, non solo cooperativo,
l’Italia deve aumentare in modo sostanziale la capacità di difendere,
attraverso la politica europea, anche i propri interessi nazionali. Lo
sgretolamento del vecchio «ordine» post-Guerra Fredda apre, assieme a
moltissimi rischi, nuovi spazi di azione; e impone anche al nostro Paese
una politica estera più dinamica, nel Mediterraneo anzitutto. Per
muoversi in questo senso, tuttavia, l’Italia dovrà comunque fare leva su
una posizione solida in Europa: questa resta la condizione necessaria,
indispensabile, per essere un attore credibile. Illudersi che sponde
extra-europee bilancino la nostra fragilità nel Vecchio Continente, non
aiuterà.