Corriere 4.4.18
Slogan e realtà
Ma guidare un Paese è difficile
di Sabino Cassese
Le
forze politiche che il risultato elettorale ha candidato al governo e
che si dichiarano pronte ad amministrare il Paese, sono anche preparate
per farlo? Nessuna delle due, la nuova Lega e il M5S, ha avuto
precedenti esperienze di governo. Inoltre, la loro rappresentanza
parlamentare è composta in larghissima misura di uomini alla loro prima
esperienza di politica nazionale: il 73 per cento dei 5S e l’86 per
cento dei leghisti non era deputato o senatore nella precedente
legislatura.
Tuttavia, se ambedue le forze politiche hanno un
numero molto alto di parlamentari alle prime armi, c’è una differenza
tra le due. Se il 65 per cento dei 5S non ha avuto precedenti incarichi
politici o amministrativi, la percentuale scende al 16 per cento per la
Lega, perché questa ha intelligentemente candidato molti amministratori
locali: il 58 per cento degli amministratori locali che sono entrati in
Parlamento sono stati eletti nelle file della Lega di Salvini.
Inoltre,
Lega e M5S si sono avvicinati al governo con proposte di metodo molto
diverse. Davide Casaleggio, per i secondi, ha scandito icasticamente il
proprio metodo affermando «partecipa, scegli, cambia», uno slogan — ha
scritto — che è «garanzia di successo». C’è dietro questa fiduciosa
affermazione molta ingenuità, perché lo Stato non è una macchina che si
guidi da sola. Le difficoltà del governare sono note a chi le ha
sperimentate.
T ra il dire («scegli») e il fare («cambia»), c’è un
vasto mare. La drammatica esperienza della gestione della Capitale,
dove, dopo quasi un biennio di gestione grillina, non si può neppure
dire che si sia innescato un processo di «learning by doing», dovrebbe
insegnare qualcosa. Le difficoltà del governare sono certamente
aggravate in Italia da troppa legiferazione, pregresse carenze degli
apparati esecutivi, eccessiva porosità delle burocrazie. Ma questi
inconvenienti si aggiungono a elementi strutturali delle pratiche di
governo di ogni Paese.
Anche assicurandosi una durata decennale,
nessun governo riesce a cambiare più di un decimo delle norme, pratiche,
costumi, tradizioni, culture precedenti: quindi, è costretto a
governare con ordinamenti e procedure voluti da altri governi, spesso
lontani nel tempo.
In secondo luogo, decisioni prese in una sede
(per esempio, al centro) richiedono spesso successivi adattamenti ad
altre esigenze (ad esempio, in periferia). Per cui il processo
«partecipa, scegli, cambia» va ripetuto, e solleva frequenti conflitti,
che vanno a loro volta mediati o risolti (le lezioni della Tav e della
Tap dovrebbero aver insegnato qualcosa).
Infine, è per lo meno
ingenuo pensare che si governi con atti di mera volizione, con decisioni
prese dal popolo, perché questo può essere perplesso, contraddittorio,
rappresentare orientamenti che vanno bilanciati o mediati, che
frequentemente richiedono aggiustamenti in corso d’opera. La
trasformazione in realtà di proposte e decisioni richiede, quindi, una
certosina opera di analisi e conoscenza dei problemi, capacità di
intendere richieste spesso contrastanti, anche una funzione educativa,
di guida, di interpretazione. Insomma, la democrazia è una macchina
complicata, nella quale non c’è una sola volontà, né questa cala
dall’alto, e nella quale gli strumenti e la loro conoscenza contano.
Un
acuto politologo francese, Pierre Birnbaum, in un libro appena uscito
per la casa editrice parigina Seuil, dal titolo «Où va l’État?» ha
osservato che Macron, pur avendo portato tante innovazioni nella
politica francese, ha conservato nelle grandi linee l’apparato statale
che ha trovato, ben consapevole delle difficoltà di gestire altrimenti
lo Stato.
In Italia, la debolezza delle nuove forze politiche che
si candidano alla guida del Paese, e in alcuni casi persino il disprezzo
per la macchina di governo e per chi ne fa parte, rischiano — come ha
osservato recentemente Yves Meny — di far finire nel nulla la spinta
degli elettori per il rinnovamento.